Salerno Aletta, G. Contro il colonialismo finanziario, 2014

Contro il colonialismo finanziario : le vere guerre fra gli Stati da Bretton Woods ai nostri giorni / Guido Salerno Aletta. – Milano : Classeditori, 2014. – 95 p. ; 19 cm..

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Il report contiene:
Sommario
Prefazione di Gianni Zonin Presidente della banca popolare di Vicenza
Introduzione di Paolo Panerai, Editore e Direttore

Sommario

Prefazione di Gianni Zonin Presidente della banca popolare di Vicenza
Introduzione di Paolo Panerai, Editore e Direttore
1. Debt boom vs. Asset inflation 13
2. Gli squilibri europei sotto il tappeto dell’Euro. 30.
3. Commercio internazionale e piena occupazione 37.
4. La crisi del modello di Bretton Woods: capitalismo mercantile e colonialismofinanziario 42
5. La svolta americana degli anni Ottanta 47
* L’abbandono del paradigma keynesiano, la politica dell’offerta ed la nuova
supremazia mondiale con la New Economy 47.
6. Dalla caduta del comunismo alla crisi del 2008: i saldi esteri si divaricano progressivamente in modo strutturale 52.
7. La Germania 61
* Insieme al Muro di Berlino crollano gli alti salari: i Lander Orientali ed i Paesi ex-comunisti sono il nuovo, grande Mezzogiorno europeo 61
8. La Cina 69
Il reinvestimento dell’avanzo commerciale in titoli del tesoro statunitense. Il peg tra remnimbi e dollaro 69
9. L’Italia 72
* Dalla svalutazione della lira nel 1992 alla rivalutazione del 1997. Riduzione del debito pubblico con l’avanzo primario e bassa crescita 72
10. Euro e dollaro. L’attivo commerciale della Germania ed il dilemma del
prigioniero 75
11. Riassorbimento dei disavanzi strutturali e riequilibrio finanziario. Il nodo tedesco ed una Europa diversa 79
12. Bretton Woods, settanta anni dopo 89

Prefazione di Gianni Zonin

Con un titolo volutamente provocatorio, “Contro il colonialismo finanziario”
vengono qui pubblicate le riflessioni che sono state alla base dell’intervento che Guido Salerno Aletta ha svolto il 21 gennaio scorso a Palazzo Thiene, Sede storica della Banca Popolare di Vicenza, nell’ambito del tradizionale ciclo di incontri organizzati dall’Istituto.
L’autore va all’origine della crisi globale che dal 2008 ha investito dapprima gli Usa, quindi l’intera Europa, per coinvolgere di recente anche i Paesi Brics: è stata determinata dagli squilibri strutturali delle bilance dei pagamenti correnti, non corretti tempestivamente né con adeguate misure di politica economica e monetaria né con svalutazioni. I principi basilari degli Accordi di Bretton Woods non sono stati rispettati. Gli squilibri internazionali accumulati a partire dagli anni Ottanta, ma in modo ancor più vistoso dopo il 2000, sono il frutto di decisioni circa il modello di economico, di rivolgimenti negli equilibri geopolitici, di scelte finanziarie, e derivano dall’intersezione di tre sfide: il ribilanciamento nella divisione internazionale del lavoro tra Old e NewEconomy; le conseguenze della riunificazione della Germania, dell’estensione dell’Unione Europea ai Paesi ex-comunisti e dell’ingresso della Cina nel Wto, vistose anche sul piano economico-sociale per via della diversa distribuzione del reddito che ne è conseguita; le modalità di allocazione finanziaria dei surplus strutturali delle bilance dei pagamenti correnti e della liquidità internazionale eccessiva in dollari. Cessata nel 1971 la possibilità delle Banche centrali dei Paesi in surplus di ottenere la conversione in oro dei dollari accumulati con l’export, questo ruolo di assorbimento è spettato dapprima alla dinamica del prezzo del petrolio che ha scaricato per oltre un ventennio gli impatti inflazionistici sulle economie reali. Quindi, ne è stato investito il comparto delle equity non riproducibili, con le conseguenti bolle inflazionistiche degli asset mobiliari ed immobiliari. Infine, c’è stato il boom dei debiti, pubblici e privati, che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni. La ricerca di garanzie sul debito ha determinato la crescita esponenziale dei contratti derivati. Le politiche monetarie restrittive adottate dagli Usa nei primi anni Ottanta e poi della Germania nei primi anni Novanta hanno di volta in volta condizionato gli equilibri delle economie più piccole come quella italiana, rendendoli precari. Non è da oggi, quindi, che subiamo scelte esterne a noi sconvenienti: oggi, forse, se ne discute in modo più ampio. Dollaro, euro, yen e yuan riflettono economie completamente diverse tra di loro. L’Eurozona, a sua volta, è un assetto competitivo assolutamente asimmetrico al suo interno: un equilibrio delle partite correnti del complesso dell’area nei confronti del Resto del Mondo è il frutto della contrapposizione tra gli attivi strutturali della Germania ed i passivi di gran parte degli altri Paesi europei, Italia esclusa. Ne deriva che l’euro può essere al contempo troppo forte rispetto al dollaro per la gran parte dell’Europa, Francia compresa, e sottovalutato per l’economia tedesca.
Il processo di riequilibrio dei saldi esteri è stato finalmente intrapreso. Ma, mentre negli Usa, in Cina ed in Giappone ciò avviene attraverso un ribilanciamento della crescita economica, in Europa è stata adottata la strategia della deflazione competitiva: il riaggiustamento dei conti viene realizzato attraverso una diminuzione dei salari e dei prezzi interni. E’ una
strategia socialmente e finanziariamente destabilizzante, perché una forte e duratura contrazione dei prodotti interni lordi, dei fatturati delle imprese e dei redditi disponibili delle famiglie rende ancor più difficilmente sostenibili i debiti contratti.
Gli attivi strutturali nei saldi delle bilance dei pagamenti correnti sono stati reimpiegati in sempre nuovi strumenti di debito sull’estero: ci sono Paesi che hanno una posizione finanziaria internazionale netta negativa molto elevata, in taluni casi per percentuali di gran lunga superiori al Pil. Debiti irredimibili, interi Paesi trasformati in colonie finanziarie. Se la ricostruzione storica dei nessi economici, politici e finanziari rappresentata in queste riflessioni, così come i rapporti di causalità individuati, possono essere ampiamente discussi, la realtà che oggi ci si presenta è inequivoca. Il lascito della crisi del 2008, senza una crescita sostenuta soprattutto da parte dei Paesi più deboli, rischia di rimanere assai pesante per i debitori, ma con esiti altrettanto incerti anche per i creditori. Si pone nuovamente, a 70 anni dagli Accordi di Bretton Woods, il tema delle regole e dei vincoli che ogni Paese deve rispettare, per quanto ricco e forte, affinchè lo sviluppo economico internazionale sia equilibrato, in modo da assicurare a tutti i popoli il benessere, la libertà e la democrazia.
Gianni Zonin

INTRODUZIONE di Paolo Panerai

La crisi finanziaria globale del 2008, da cui il mondo e soprattutto l’Italia stentano ancora a riprendersi, è solo il sintomo di un mutamento complessivo delle relazioni internazionali. Il capitalismo inteso come forma storica della produzione e dell’accumulazione, mediata dalla funzione distributiva della politica, in cui ciascun Paese tende ad avere un equilibrio strutturale al proprio interno e verso l’estero, fa fatica a muoversi in una serie di relazioni più ampie e complesse. Dinamiche storiche e mutamenti geopolitici hanno cambiato l’essenza stessa della finanza, la funzione delle relazioni commerciali internazionali, l’architettura dei modelli della crescita economica. I punti di snodo che hanno cambiato la fisionomia del mondo a partire dal 1989 sono la caduta del Muro di Berlino, l’unificazione della Germania, la dissoluzione dell’URSS e poi lo shock che ha colpito gli Usa nel 2001. Le relazioni tra i diversi Paesi ne sono uscite profondamente trasformate e di conseguenza si sono erosi concetti tradizionali, come quello di sovranità, in particolare la sovranità finanziaria, che è divenuta limitata.

Sono venuti meno i presupposti dell’equilibrio strutturale dei conti con l’estero su cui si basavano gli Accordi di Bretton Woods. Settanta anni fa, ancor prima che la seconda Guerra mondiale fosse conclusa, si erano poste le fondamenta del nuovo ordine monetario, in cui la convertibilità in oro del solo dollaro rappresentò il ruolo centrale degli Usa nel sistema capitalistico. Tutto girava, però, attorno a un preciso modello di sviluppo economico, equilibrato in ciascuno dei Paesi aderenti, fondato sulla dinamica dei salari e sulla accumulazione del risparmio che avrebbero alimentato la domanda interna e gli investimenti. Il sussidio internazionale era solo eccezionale ed episodico. Ciascun sistema bancariosi basava sulla raccolta dei depositi dei residenti e sulla erogazione del credito. Le banche centrali regolavano di conseguenza liquidità e tassi di interesse per combattere l’inflazione e favorire l’equilibrio della bilancia dei pagamenti correnti. La libertà di circolazione dei capitali era molto limitata e la piena occupazione era l’obiettivo comune delle politiche economiche. Il sistema di cambi fissi era quindi possibile solo in un assetto equilibrato degli scambi con l’estero.

Molto si è insistito sulla centralità del dollaro e sul suo status peculiare, che ha consentito agli Usa di avere per lunghi periodi una bilancia dei pagamenti deficitaria. Ma i riaggiustamenti, anche per il dollaro, sono stati inevitabili: ai disavanzi non riassorbiti per via degli interventi bellici in Corea e Vietnam conseguirono nel 1971 la dichiarazione unilaterale di cessazione della convertibilità del dollaro e quindi una serie di accordi valutari.

La crisi finanziaria del 2008 conclamata dal fallimento della Lehman Brothers è una crisi da mancato riaggiustamento valutario, determinato non solo dal passivo americano crescente, quanto dalla creazione di attivi strutturali da parte di altri paesi, principalmente Cina, Germania e Giappone, che li hanno reimpiegati in titoli di debito ovvero aventi come sottostante un debito. Il sistema finanziario ha mutato natura: per evitare altre bolle azionarie come quelle di inizio 2000, si è preferito puntare sull’indebitamento dei cittadini nei Paesi deficitari. I mutui subprime delle famiglie americane erano cresciuti a dismisura anche per via di una loro ampia cessione all’estero, dopo averli cartolarizzati e segmentati. Lo stesso è accaduto in Europa, dove sono stati indebitati dall’estero Paesi fondamentalmente sani dal punto di vista delle finanze pubbliche, come Irlanda e Spagna. L’ampia disponibilità di mezzi liquidi sui mercati interbancari all’ingrosso ha creato interdipendenze pericolose. La bolla del debito si è fatta incontenibile, nonostante la creazione di una quantità smisurata di strumenti finanziari derivati, volti a fornire copertura dal rischio e garanzie. Ogni strumento di debito ne genera un numero multiplo.
Quando l’onere si è fatto insostenibile, il default dei debitori ha creato lo sconquasso: dalle famiglie alle imprese, dalle banche agli Stati. Le perdite sui titoli di debito sono state ingenti, quelle sui corsi azionari ancor più gravi. I debiti pubblici si sono accresciuti per il salvataggio delle banche ed il
sostegno all’economia. Se la crescita economica viene meno, gli attivi bancari peggiorano progressivamente di qualità e si innesta un circolo vizioso: più perdite sui crediti, meno credito erogabile, più crisi nell’economia,
più perdite sui crediti e così via.

Il reimpiego all’estero dei proventi del capitalismo mercantile, quello che si fonda sulla piena occupazione sostenuta da un avanzo strutturale della bilancia commerciale, ha portato a una sorta di colonialismo finanziario: alcuni Paesi, come la Germania, hanno una posizione attiva sull’estero, tra investimenti diretti ed impieghi di portafoglio, che consente loro di accumulare risorse finanziarie ulteriori rispetto al surplus commerciale. L’impoverimento dei Paesi indebitati può divenire insostenibile.
All’interno della Unione europea le tensioni sono cresciute in funzione del peggioramento degli indicatori economici e dell’aumento della disoccupazione.

E ultimamente sono sempre più forti le proteste dei Paesi emergenti le cui monete vengono penalizzate dal deflusso dei capitali esteri che accompagna il normalizzarsi della politica monetaria, eccezionalmente espansiva negli scorsi anni, della Fed. La prospettiva di uno yuan pienamente convertibile che affianchi il dollaro e l’euro come valuta di scambio e di riserva, è
molto lontana. Non basta riassorbire gli squilibri commerciali: probabilmente bisognerà ritornare ai principi di Bretton Woods. Si è ancora in tempo per scegliere, ricordando sempre e con orrore che le guerre mondiali più sanguinose sono sempre nate da squilibri economici e finanziari. Il saggio che segue di Guido Salerno Aletta legittima che una svolta, per evitarle, debba esserci.
Paolo Panerai

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