Amir, Samin. Eurocentrismo, 2022

Amir, Samin
Eurocentrismo : modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi / Samir Amin ; a cura di Giorgio Riolo. – Napoli ; Potenza : La Città del Sole, 2022. – 274 p. ; 21 cm.. – [ISBN] 978-88-8292-552-9.

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Il Report contiene

Indice
Descrizione editore
Prefazione di Samir Amin all’edizione del 2022
Introduzione di Giorgio Riolo
Nota per l’edizione del 2022
Recensione di Monica Quirico

Indice

Introduzione di Giorgio Riolo p. 7
Nota per questa edizione 27
Samit Amin
EUROCENTRISMO
Modernità, religione e democrazia.
Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi
Prefazione 31
Capitolo I
MODERNITÀ E INTERPRETAZIONI RELIGIOSE
I. La modernità 37
II Modernità e interpretazioni religiose 46
III. Materialismo storico e marxismi storici 75
Capitolo II
CULTURE TRIBUTARIE CENTRALI E PERIFERICHE
I. Per una teoria della cultura. Critica dell’eurocentrismo 109
II La formazione dell’ideologia tributaria nell’area euro-orientale 116
Capitolo III
LA CULTURA DEL CAPITALISMO
I. L’universalismo troncato dell’eurocentrismo e l’involuzione culturalistica p- 161
II. L’affrancamento dalla metafisica e la re interpretazione della religione 166 III. La costruzione del culturalismo eurocentrico 173
IV. Il marxismo di fronte alla sfida del capitalismo realmente esistente 196
V. La fuga in avanti culturalistica: provincialismi e e fondamentalismi 201
VI. Elementi per una cultura veramente universale 207
Capitolo IV
PER UNA VISIONE NON EUROCENTRICA DELLA STORIA
I. Il modo di produzione tributario, forma universale della società precapitalistica avanzata 220
II II feudalesimo europeo, modo tributario periferico 230
III. Il mercantilismo e la transizione al capitalismo: lo sviluppo ineguale, chiave del miracolo della singolarità europea 235
IV L’eurocentrismo e il dibattito sulla schiavitù 243
V. L’eurocentrismo nella teoria della nazione 248
VI. Il capitalismo realmente esistente e la mondializzazione del valore 151
Nota bio-bibliografica 271
Bibliografia minima 273

Descrizione editore

Già dalla prima edizione del 1988, Eurocentrismo è divenuto un classico del pensiero radicale e alternativo. Questa seconda edizione amplia la visione dell’autore. L’eurocentrismo è la deformazione ideologica con cui si ricostruisce l’intera storia umana a partire dal pregiudizio della “superiorità bianca”. È l’occasione per una rassegna storica con cui si esaminano criticamente le varie formazioni economico-sociali e soprattutto i “culturalismi” che accompagnano queste formazioni. Sottolineando fortemente comunque le reciproche influenze e i reciproci prestiti delle varie culture, malgrado le pretese sedicenti unicità e assolute peculiarità. È l’occasione qui per svolgere un’ulteriore critica dell’economicismo. Le idee, le visioni filosofiche, le religioni, le culture in generale sono fermamente padroneggiate e descritte da Amin. Dall’antichità greca e romana, al cristianesimo, al feudalesimo fino alla “modernità” e al sistema capitalistico, le ideologie e le culture sono reinterpretate alla luce della giusta considerazione del ruolo svolto da altre civiltà e da altre culture del pianeta…

Prefazione di Samir Amin

In questo saggio propongo una critica di ciò che si può definire “il/ì culturalismo/i”, intendendo con ciò qualsiasi teoria costituita, in apparenza coerente e di portata che si vorrebbe distica, fondata sull’ipotesi di invarianti definite “culturali”. Le quali avrebbero il po­tere di persistere oltre le trasformazioni eventualmente apportate dai sistemi economici, sociali e politici. La specificità culturale diventa allora il motore di percorsi storici forzatamente diversi.

In Europa la modernità si è costituita a partire dal Rinascimen­to, rompendo con la “tradizione” del continente, dominato fino ad allora da un’ideologia da me definita “tributaria” (con riferimento a un modo di produzione tributario del quale il feudalesimo rappre­senta una variante). La modernità si costruisce sul principio che gli esseri umani, individualmente e collettivamente (le società), fanno la loro storia, mentre fino ad allora, in Europa come altrove, se ne attribuiva la responsabilità a Dio (o a forze sovrannaturali).

Ormai la modernità associa Ragione ed emancipazione, apre la via della democrazia (anch’essa moderna per definizione), ed implica la laicità, la separazione fra religione e Stato, rinnovando così la politica.

La modernità è il prodotto del nascente capitalismo e proseguirà il suo cammino in stretto collegamento con l’espansione mondializ­zata di quello, e quindi — per la logica insita nelle leggi fondamentali che ne regolano lo sviluppo — sarà polarizzante, cioè assumerà un carattere di disuguaglianza e di asimmetria sempre crescenti, confi­nando le società delle periferie nell’impossibilità di “recuperare” per diventare a loro volta simili ai centri del sistema, oggi la triade Stati Uniti-Europa-Giappone. Tale distorsione interroga a sua volta la modernità quale si è costituita nella realtà del nostro mondo finora capitalistico, cioè una modernità sempre monca. La cultura del capitalismo si costituisce e si sviluppa assumendo le esigenze di questa realtà asimmetrica, associando le sue pretese universalistiche di prin­cipio ad argomentazioni culturalistiche, se necessario eurocentriche, al punto che così ne viene annullata la loro portata.

La modernità ha imposto, con la forza delle cose, una reinter­pretazione delle credenze religiose, per renderle compatibili con la sua affermazione fondamentale, secondo la quale l’Essere umano può e deve fare la propria storia. Il culturalismo eurocentrico ha dato alle revisioni religiose (in particolare alla Riforma protestante) il posto di causa prima della trasformazione. In ciò dissento da queste teorie, in particolare da quella di Max Weber. Le reinterpretazioni religiose sono state infatti non tanto le cause quanto il prodotto delle esigenze della trasformazione sociale. Hanno avuto comunque una grande importanza, sia che abbiano facilitato il cambiamento o l’abbiano ritardato, che habbiano avviato verso un particolare percorso evolu­tivo oppure verso un altro.

Oggi la modernità è in crisi perché le contraddizioni del capi­talismo mondializzato, che si sviluppano sul terreno della società reale, sono diventate tali che il capitalismo mette ormai in pericolo la civiltà umana tutta intera. Il capitalismo “ha fatto il suo tempo”.

La dimensione distruttiva che il suo sviluppo ha sempre comportato ha ormai un ampio sopravvento sulle dimensioni costruttive, deter­minanti il ruolo progressista che esso ha svolto nella storia.

La crisi della modernità è essa stessa il segno della senilità del sistema. L’ideologia borghese, che in origine avanzava ambizioni universalistiche, vi ha rinunciato per sostituirvi il discorso postmo­dernista delle “specificità culturali” irriducibili (e, in forma volgare, lo scontro inevitabile delle culture). Di contro a questo discorso, in­vito a una riflessione che parta da una visione della modernità come processo sempre incompiuto, in grado di superare la tappa di crisi mortale in corso solo andando avanti, reinventando valori universali tali da mettere in moto una ricostruzione economica, sociale e poli­tica di tutte le società del pianeta.

Nella mia opera II virus liberale, la guerra permanente e l’americanizzazione del mondo* ponevo l’accento sulla forma estrema assunta dal capitalismo contemporaneo, da me definita appunto “virus liberale”. Esso riduce il contenuto dell’organizzazione sociale a due principi e soltanto due: la libertà (concepita principalmente come libertà dell’impresa privata) e la proprietà. Questa riduzione, da me considerata come prodotto dell’involuzione subita dall’ideologia del­la modernità nella formazione storica della cultura degli Stati Uniti, è al centro della tragica situazione in cui rischia di trovarsi rinchiusa oggi la nostra civiltà. Le società europee, la cui cultura più sofisticata permette che si manifesti il conflitto dialettico fra economia e politica, e le società del Sud, principali vittime della pauperizzazione connessa all’accumulazione del capitale, sapranno affrontare la sfida?

Oppure subiranno passivamente “l’americanizzazione del mondo”, col suo seguito di guerre permanenti e di genocidi?

Circa vent’anni fa avevo proposto una critica sistematica della deformazione eurocentrica nella visione del mondo, del suo passato e del suo futuro. Credo che le tesi e le analisi esposte in L’Eurocentrisme. Crìtique d’une ideologie siano sempre valide e ancor più attuali oggi di ieri. Per questo le riprendo qui quasi integralmente, togliendo soltanto la presentazione e le ultime pagine della prima edizione, le quali, centrate sull’attualità di quella particolare fase storica, hanno perso ogni interesse per il lettore di oggi. Penso inoltre che le tesi esposte allora vengano rafforzate da quelle che presento nel primo capitolo di questo libro.

1 Le Temps des cerises, Paris, 2005 (trad. it. Il virus liberale. La guerra per­manente e l’americanizzazione del mondo, coedizione Asterios ed Edizioni Punto Rosso, 2004).

Introduzione di Giorgio Riolo

Il marxismo di Samir Amin e il progetto di emancipazione per i popoli delle periferie del mondo Una nota introduttiva a Eurocentrismo 

Samir Amin rientra tra coloro i quali più si sono attenuti alla feconda interazione e al reciproco sostanziarsi di teoria e di storia, di astratto e di concreto, di conoscenza e di realtà fattuale storico-sociale. E’ il suo un contributo di grande valore per dare coerenza teorica e categoriale a questo materiale empirico, reale. E’ in lui soprattutto la feconda interazione e la stretta interdipendenza di impegno politico militante e di necessaria riflessione teorica e culturale. La quale riflessione teorica e culturale era concepita da Amin non come semplice orpello.

Il militante (comunista, terzomondista-internazionalista, an­timperialista, altermondialista ecc.) dialoga e illumina l’intellettuale marxista. E viceversa. E’ un pendolo, una oscillazione tra i due poli, costante. L’intera sua parabola di vita, e il suo apporto per noi, si dispiega dalla precoce adesione ai valori (morali, etici, intellettuali) socialisti e comunisti e dalla precoce lettura di Marx fino alla scom­parsa nel 2018 come continuo confronto con la storia reale, con il capitalismo realmente esistente (locuzione da lui preferita), con Marx e con i marxismi storici, con la storia del movimento operaio, socialista e comunista, e dei movimenti dì liberazione nazionale del Sud del mondo, con il socialismo reale e con le varie rivoluzioni nel­le periferie (Cina, Vietnam, Cuba, Algeria ecc.), con la concezione generale dell’alternativa socialista.

I.

Nell’ampia produzione intellettuale e teorica di Samir Amin, costituita di opere sistematiche e di numerosi saggi e articoli, Eurocentrismo occupa un posto particolare. Già nella prima edizione del 1988, ma soprattutto nella stesura fatta per la seconda edizione, la cui traduzione italiana qui presentiamo.

In essa Amin affronta tante questioni e tanti temi, già trattati ne L’accumulazione su scala mondiale (1970) e ne Lo sviluppo ineguale (1973) e poi in vari saggi come La loi de la valeur e le matérialisme historique (1977), Classe et natìon (1979) e La déconnexion (1985).

Ma qui, nella presente opera, alcuni sviluppi sono inediti.

Il modo di operare di Amin testimonia della sua tendenza a te­nere aggiornata la sua analisi. Senza preoccupazione eccessivamente filologica e senza pensare alla sistematicità. Il libro, il saggio o l’articolo sono a suo avviso semplici strumenti. Il fine è sempre l’efficacia nella conoscenza e nell’azione. Spesso egli riprende, precisa e affina analisi e categorie già esposte nelle opere precedenti.

II.

Il compito mio in questa introduzione è, a grandi linee natu­ralmente, quello di soffermarmi sul peculiare marxismo di Amin e sui suoi apporti al sistema di idee che origina da Marx. E di rendere conto della storia reale della sua militanza politica come apporto originale al progetto di emancipazione umana che chiamiamo so­cialismo, in primo luogo per i popoli e per le classi subalterne delle periferie del mondo.

In particolare, richiamerò alcuni passaggi e alcuni sviluppi che ritengo importanti contenuti nella presente opera.

III.

La prima mossa è sempre una mossa etica, una scelta morale, una scelta di campo. Questo è per tutti nella vita, ma è soprattutto per chi non si accontenta dello stato di cose e si accinge a impegnarsi per cambiare. Il ragazzo Amin proviene da un ambiente famigliare e sociale relativamente privilegiato, non ricco, ma abbiente.

Nella realtà di un Egitto povero, sotto protettorato britannico, la visione di bambini e coetanei condannati alla miseria non lo lascia in­differente. Nella scuola media francese in cui studia metà degli studen­ti si professa “nazionalista” e metà “comunista”. Con ovvia idea molto vaga di cosa ciò significhi e comporti. A 15 anni legge il Manifesto del partito comunista e a 18 II capitale, ma ora è a Parigi per completare gli studi. Si iscrive al Partito comunista francese. Come militante co­munista egiziano, nel 1950 ha la possibilità di assistere a una riunione informale di esponenti di vari partiti comunisti asiatici e africani.

Costoro non aderiscono alla posizione espressa dalla relazione di Zdanov del 1948 con cui l’Urss di Stalin sanciva la definitiva e codificata, com’era abitudine nella gerarchia mondiale comunista di allora, teoria del mondo diviso in due campi. A Ovest il campo occidentale capitalistico, a guida Usa, e a Est il campo orientale socialista, a guida Urss. Era nondimeno quella la reazione sovietica alla dichiarazione della cosiddetta “guerra fredda”, contenuta nella dottrina Truman del 1947.

Questi comunisti, diversamente dai partiti comunisti occiden­tali e latinoamericani, di stretta osservanza sovietica, reagiscono e af­fermano, anche se non ancora pubblicamente, che il mondo in realtà è diviso in tre poli, in tre campi. Esiste un terzo campo, il Sud del mondo, alla mercé del colonialismo, del neocolonialismo, dell’im­perialismo. Un campo impegnato nelle lotte per affrancarsi da questi sistemi di dominio e dì oppressione. E il cosiddetto “terzo mondo”, come lo denominerà nel 1952 il sociologo francese Alfred Sauvy.

IV.

La svolta storica, la data periodizzante è rappresentata dalla Con­ferenza di Bandung, in Indonesia, nell’aprile 1955. L’India di Nehru, l’Egitto di Nasser, l’Indonesia di Sukarno, la Jugoslavia di Tito e tanti altri paesi, con il beneplacito e la partecipazione della Cina, e con la presenza di Chou En-Lai, danno avvio al movimento o “era di Ban­dung”, con rinnovato impulso alla decolonizzazione e allo sviluppo nazionale e popolare autonomo. Con il successivo avvio del movi­mento dei paesi non-allineati con la Conferenza di Belgrado nel 1961.

E un’era non così lineare, con forti contraddizioni, ma è un processo nuovo su scala mondiale. L’Urss e i partiti comunisti favo­riscono questo processo. Questi sviluppi storici interagiscono con il coevo lavoro teorico di Amin per la tesi di dottorato.

La questione all’ordine del giorno, la domanda cruciale è “per­ché esiste il cosiddetto sottosviluppo?”. La risposta immediata non è il ritardo nella traiettoria lineare degli “stadi di sviluppo”, non è mancanza di sviluppo, teorie degli anni cinquanta poi rese coerenti dal lavoro di Walt W. Rostow nel I960. Il “divario” non è possibile colmarlo con opportune politiche economiche. Il sottosviluppo è il prodotto necessario, speculare e dialettico dello sviluppo (o sovrasviluppo, nel generale “malsviluppo”, come noi “terzomondisti”, tra fine anni sessanta e anni settanta, preferivano denominare) dei paesi dominanti del centro capitalistico. Essendo il capitalismo una formazione storico-sociale caratterizzata dallo sviluppo polarizzante e asimmetrico a vocazione planetaria.

Le coppie dialettiche Nord-Sud, Centro-Periferia, Sviluppo-Sot­tosviluppo costituiscono la chiave per capire come realmente funzio­na il capitalismo, come funziona il mondo. Tutto ciò confluirà nella prima opera sistematica di Amin L’accumulazione su scala mondiale.

Critica del sottosviluppo del 1970 e ancor più rigorosamente, dal punto di vista teorico, nella successiva opera del 1973 Lo sviluppo ineguale.

V.

Va da sé che queste acquisizioni retroagiscono sulla interpre­tazione di Marx e dei vari marxismi storici e del socialismo come movimento reale. Ad Amin non interessa la cosiddetta “marxologìa”, lo studio accademico, l’interpretazione dei testi, ritenuti “sacri”, di Marx. “Partire da Marx”, ripete sempre Amin, non per “andare oltre Marx”, bensì “con Marx” svilupparlo, rivederlo (nozione legittima di “revisionismo”), correggerlo anche, pensare con la propria testa. In breve, proseguire la sua opera.

Un Marx condizionato dal proprio tempo e dal non aver avuto modo di completare la propria opera. Un Marx condizionato da un certo “eurocentrismo”. E soprattutto il Marx degli articoli scritti per la New York Daily Tribune nei primi anni cinquanta dell’Ottocento, sulla dominazione britannica in India, sulla Cina ecc. È una visione da “missione civilizzatrice del capitalismo”. Tutto questo poi rivisto e corretto dall’ultimo Marx, dal 1870 in poi, quando si confronta con la Russia e con i rivoluzionari russi e con le letture di opere di storia, di etnologia, di antropologia ecc. (vedi i Quaderni etnologici, pubblicati postumi nel 1972 dall’etnologo Lawrence Krader).

Come è noto, Marx nei vari piani di stesura del Capitale, pose il titolo “mercato mondiale” al futuro, e mai scritto, Libro VI dell’o­pera. Egli finì la stesura e curò personalmente solo il Libro I. Il Libro II e Libro III li curò l’amico Engels, ricavandoli dai suoi numerosi quaderni e dalle stesure provvisorie.

Il risultato è che Marx studiò da par suo statica e dinamica del modo di produzione capitalistico a partire dalla sede classica, l’Inghil­terra, di questa formazione storico-sociale. La forma-merce, il fetici­smo delle merci, il denaro, il capitale, la categoria del valore e poi del plusvalore e via via tutte le numerose acquisizioni e categorie dal Libro I fino al Libro III sono aspetti rilevanti del microcosmo della fabbrica e dell’economia su scala nazionale (anche se già il Libro III allarga il di­scorso “ai tanti capitali” e alla loro interazione, alle crisi del sistema ecc.).

Ora però si tratta di considerare la compiuta formazione sto­rico-sociale capitalistica. Amin pone al centro la nozione di “for­mazione sociale” rispetto alla pur necessaria nozione di “modo di produzione”. In questo modo si cerca di evitare lo “economicismo” e il “determinismo” dei marxismi storici, semplificati, scolastici ed eu­rocentrici. E una totalità in cui interagiscono i vari momenti, l’eco­nomico, il sociale, il culturale, il politico,  l’ideologico ecc. Anche se il momento economico è da considerarsi “egemonico”, come dice Marx nei Lineamenti di critica dell’economia politica, i famosi Grundrisse.

En passant, su questi temi, da un versante più propriamente filo­sofico, e apparentemente non conoscendosi i due famosi marxisti, ha molto sviluppato Gyórgy Lukàcs, soprattutto nell’ultima sua opera Ontologia dell’essere sociale.

Si tratta insomma di considerare lo “organismo intero” e non solo la “cellula”, i vari organi e apparati. È il capitalismo nella sua evoluzione su scala mondiale, come sistema mondiale, come unità di analisi quindi, e non come semplice sommatoria di formazioni nazionali giustapposte. Nella logica intrinseca di questo sistema è l’intero che determina, che soverchia e plasma le sue sìngole parti.

In questo senso, Amin considera la centralità del “materialismo storico” e quindi della storia come campo di interazione delle di­namiche strutturali, economiche, sociali ecc., e delle dinamiche un tempo dette sovrastrutturali, del momento ideologico, delle culture profonde, nei centri capitalìstici e nelle periferie. Eurocentrismo si sofferma molto su questa visione.

VI.

Il marxismo come sistema, come scolastica, nasce nel contesto della Seconda Internazionale e dei tanti partiti socialisti di ispirazio­ne marxista dal 1870 in avanti. Nasce a opera di Kautsky, di nove altri, È una interpretazione di Marx in senso economicistico e deterministico, confacente a una fase storica in cui la classe operaia occidentale, grazie alla “rendita imperialistica”, come la definisce Amin, grazie ai sovrapprofitti da sfruttamento coloniale e imperia­listico, può ottenere relativamente più alti salari, rispetto ai salari da fame della precedente epoca del capitalismo industriale ottocentesco, E l’epoca della seconda mondializzazione capitalistica, del capi­tale finanziario, del capitale monopolistico (l’epoca degli “oligopoli”, come dice giustamente Amin), dell’imperialismo classico e della nuova espansione mondiale del capitalismo.

Già lo stesso Engels aveva messo in guardia i socialdemocratici tedeschi a non considerare il socialismo alla stregua di un “capitalismo senza capitalisti”, E dopo ci torniamo a proposito del socialismo reale.

E, dice Amin, la “alienazione economicistica”, tipica nella società ca­pitalistica, Dal momento che la legge del valore dagli ambiti propria­mente economici si estende a ogni ambito della società e della vita degli individui e dei gruppi umani, investe ogni forma di vita, individuale e collettiva. L’economicismo è la religione vera della società capitalistica.

Di contro alla “alienazione metafisica” delle formazioni sociali precapi­talistiche. E tuttavia economicismo e alienazione economicistica inve­stono anche coloro i quali dovrebbero trasformare questo stato di cose.

La forma di lotta tradunionistica, come dirà in seguito Lenin, per più alti salari rappresenterà la forma principale di lotta in Occi­dente. Già Engels, il quale muore nel 1895, aveva intravisto la nascita della cosiddetta “aristocrazia operaia”, condizionante molto la com­plessiva classe operaia inglese. La “rendita imperialistica”, all’origine di detta aristocrazia operaia, era ricavata in primo luogo dallo sfrutta­mento coloniale dell’Irlanda e poi delle altre colonie, soprattutto l’in­dia, e poi dal corso “normale” dell’imperialismo su scala mondiale.

Inoltre questi marxismi storici condividevano una concezione li­neare, stadiale, dei modi di produzione e delle formazioni sociali nel­la storia. La cosiddetta “teoria dei cinque stadi” e soprattutto il rap­porto meccanicistico base-sovrastruttura completano questa conce­zione della storia, distorta rispetto alla concezione originale di Marx, Amin innova rispetto a questa concezione e nella presente opera vi si trova ampia trattazione. Ai cinque stadi canonici occorre sosti­tuire una teorìa dei tre stadi (comunitario, tributario e capitalistico).

Già ne Lo sviluppo ineguale aveva introdotto la nozione di “modo di produzione tributario”, a indicare l’intero corso storico dalla fine del modo comunitario al modo di produzione capitalistico. Questa nozione unifica quello che veniva designato come modo di produ­zione asiatico (tributario centrale, caratteristico delle civiltà monu­mentali, Egitto, Mesopotamia, India, Cina ecc.) e quello designato come modo di produzione feudale (tributario periferico, Europa e (Giappone). Secondo Amin, il modo di produzione schiavistico è trascurabile, essendo confinato temporalmente e geograficamente, interstiziale rispetto al contesto più vasto tributario.

Altra innovazione operata da Amin si riferisce alla periodizzazione storica. Nell’Eurocentrismo è argomentato come il medioevo debba essere esteso temporalmente, dal 300 a. C., epoca di Alessan­dro Magno e dell’ellenismo, al 1500, esordio del capitalismo dell’era mercantilistica, E sempre nella presente opera Amin insiste sulla suddivisione tra capitalismo ancora non compiuto, ancora non maturo nella transizione mercantilistica, tra 1500 e 1800, e il capitalismo compiuto e maturo dell’era industriale a partire dal 1800.

VII.

La cosiddetta “accumulazione originaria” o “primitiva” (è il famoso capitolo XXVI del Libro I del Capitale), descrive bene il processo storico che conduce alla nascita del capitalismo compiuto.

Già Marx affermava che era da intendersi anche come condizione permanente al fine di produrre e riprodurre il processo capitalistico stesso. Amin sottolinea “accumulazione permanente”, “accumula­zione per espropriazione-spoliazione” (in ciò riprendendo Giovanni Arrighi). Espropriazione-spoliazione dapprima dei contadini e la loro conseguente espulsione dalle campagne, costretti ad andare a vendere la propria forza-lavoro nelle fabbriche, nelle città. E poi espropriazione e spoliazione dei  popoli su scala mondiale.

I contadini, espropriati dei beni comuni o demaniali, ancestrali (boschi, pascoli, terre, fiumi ecc.), per mezzo delle “recinzioni”, e del­le leggi che autorizzavano questo processo, i famosi Enclosures Acts, Oltre ai furti, alle violenze (“la violenza, forza economica essa stessa”, Marx nel capitolo sopraccitato), ai soprusi ecc. I popoli, espropriati per mezzo della espansione predatoria e polarizzante del capitalismo.

Nel Libro I del Capitale, Marx a un certo punto dice che nel ca­pitalismo la ricchezza scaturisce “minando al contempo le due fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio”. In sostanza, amplia il discorso Amia, per “terra” si intende la “natura” e per “operaio” si intendono gli esseri umani. Il giusto rilievo fatto da Marx occorre ampliarlo e aggiungere una terza fonte, “i popoli oppressi”.

VIII.

Da Marx in avanti la classe-soggetto per eccellenza della trasfor­mazione era considerata, ed è tuttora considerata da molti marxismi, la classe operaia, il proletariato urbano e di fabbrica.

Si riteneva che il soggetto contadino, i contadini, fosse una classe destinata a scomparire nel processo evolutivo e nella marcia trionfale del capitalismo, almeno in Occidente. Oppure veniva considerata “riserva della reazione”, soprattutto nell’esperienza francese, nella fat­tispecie della Vandea prima, nel contesto della grande rivoluzione del 1789, e poi nel contesto della rivoluzione del 1848 e della Comune di Parigi del 1871, tutti fenomeni parigini o cittadini in generale. Kautsky aveva trattato della “questione agraria”, in ambito della Seconda Internazionale. Ora in Amin, la questione diventa “contadina”.

Nel “marxismo della periferia”, come preferisco definire questa cor­rente di pensiero e di movimento reale, la classe-soggetto “i contadini” ha un posto centrale. A partire dalla semiperiferia Russia (e ricordiamo le avvertenze di Lenin, nella costruzione del socialismo, e poi di Bucharin, di preservare la preziosa alleanza operai-contadini), le rivolu­zioni del Novecento saranno soprattutto rivoluzioni contadine. Cina, Vietnam, Cuba, Algeria ecc. Mao, Ho Chi Minh, Giap, Josè Carlos Mariategui, Frantz Fanon, Fidel e il Che e tanti altri rientrano in questo marxismo. Amin è uno dei principali esponenti di questa corrente. E la “vocazione terzomondista del marxismo”, come egli ricorda spesso.

Da qui la propensione di Amin per la via cinese, per la Cina, per Mao. Già dal 1957 e poi decisamente dall’avvio nel 1960 dell’ormai aperto conflitto cino-sovietico.

Il modello cinese serve anche ad Amin per compiere un’analisi e una critica del socialismo reale e del modello sovietico.

IX.

Per completare l’apporto di Amin nel proseguire l’opera di Marx, occorre fare riferimento ad alcuni sviluppi del suo pensiero, in relazione anche ad altri sviluppi.

In primo luogo, per rendere conto delle profonde trasforma­zioni del capitalismo su scala mondiale, da fine Ottocento in avanti, si erano avuti i contributi di Rosa Luxemburg (L’accumulazione del capitale del 1913), di Lenin (L’imperialismo, fase suprema del capita­lismo del 1916, in realtà nell’originale russo “più recente”, “ultima”), aiutato dalle opere di Hilferding (sul capitale finanziario) e di Hobson

(sull’imperialismo come politica), e di Bucharin (L’economia mondiale e l’imperialismo del 1915).

Dopo il 1945 si erano venute precisando tre scuole, a proposito di rapporto Nord-Sud, centro-periferia, sviluppo-sottosviluppo in ordine di tempo: 1. la “scuola dell’accumulazione polarizzante” di Samir Amin; 2. la “scuola della dipendenza” (Fernando Henrique Cardoso, divenuto in seguito presidente liberista del Brasile, Celso Furtado, Theotonio dos Santos, Andre Gunder Frank), anche come critica del “desarrollismo”, lo “sviluppismo”, in America Latina concepito da Raul Prebisch, al quale si devono, tra l’altro, le nozioni di “centro” e di “periferia”; 3. la “scuola del sistema-mondo” di I. Wallerstein, alla luce anche della lezione dello storico francese Fernand Braudel.

Nella concezione della rendita imperialistica e quale contributo innovativo di Amin rientra “la legge del valore mondializzato” a misura delle differenze nazionali dei salari, dei prezzi della forza-la­voro. Soprattutto su scala mondiale, nella frattura decisiva tra Nord Globale e Sud Globale. In un contesto nel quale dei tre fattori della produzione capitalistica (merci, capitali, forza-lavoro) solo i primi due circolano liberamente nel mondo, mentre la forza-lavoro, il lavo­ro salariato giocoforza (corpi, esseri umani) ha impedimenti enormi in questa circolazione.

Quella che Immanuel Wallerstein ha definito “differenziazione etnica della forza-lavoro”, quale carattere permanente del capitalismo storico, a partire dalla tratta degli schiavi fino a oggi (migranti ecc.), in Amin diventa “differenziazione nazionale dei salari”, una delle componenti fondamentali dell’enorme trasferimento di valore dalle periferie sottosviluppate e subalterne ai centri sviluppati e dominanti del mondo.

X.

Amìn deve molto a chi, nel secondo dopoguerra, si è prodigato per proseguire l’opera di Marx e per rendere conto delle trasforma­zioni del capitalismo nel Novecento. Sono soprattutto i marxisti at­torno alla rivista Usa Monthly Review. In particolare Paul M. Sweezy e Paul Baran.

Già a partire dagli anni cinquanta essi elaborarono la categoria di “surplus”, non nuova, essendo categoria esplicativa dello sviluppo umano, della civiltà, dalla rivoluzione neolitica in avanti (eccedenza, sovrappiù, plusprodotto). Ora come aspetto importante nella ripro­duzione capitalistica, come categoria per capire la riproduzione com­plessiva del sistema, come risorsa per la spesa pubblica, soprattutto il surplus per la spesa militare. Ritorna il “militarismo” come categoria importante. Aveva iniziato Rosa Luxemburg nell’indicare come il mili­tarismo fosse non solo fenomeno antropologico, sociologico, culturale, politico (politica di potenza, camarille guerrafondaie, violente ecc.), ma fosse un aspetto importante come settore della produzione complessiva sociale. Fosse parte organica, e non estemporanea, della produzione capitalistica e della riproduzione del capitalismo nel suo complesso.

Questi marxisti proposero, e propongono tuttora, di aggiungere ai due settori tradizionali, studiati da Marx nel Libro II del Capita­le , della produzione complessiva sociale, il primo settore “mezzi di produzione” e il secondo settore “mezzi di consumo”, anche il terzo settore dei “mezzi di distruzione di massa”. Le armi e l’industria mi­litare in sostanza. Il famoso complesso militare-industriale.

Baran e Sweezy sono gli autori del libro fondamentale del 1966 Il capitale monopolistico, diventato poi uno dei “libri del c68”. Nel quale si fa soprattutto riferimento alla “struttura economica e sociale americana”, al ruolo egemonico Usa, al suo militarismo ecc.

In questo libro, i due autori statunitensi esprimono in modo netto e diretto l’assunto di tutto questo “marxismo della periferia” e dei movimenti di liberazione del Sud del mondo. Una sorta di lapi­dario manifesto del terzomondismo, nelle periferie del mondo e nei movimenti giovanili in Occidente. “L’iniziativa rivoluzionaria che prima era appannaggio del proletariato europeo è ormai passata alle masse diseredate delle periferie del mondo”.

In questo rovesciamento, in questa “rivoluzione copernicana”, in questa visione anche palingenetica, messianica anche in settori del terzomondismo occidentale, delusa dal proletariato occidentale, considerato ormai “integrato nel sistema”, secondo la concezione anche di Marcuse, agiva anche l’altra visione apocalittica provenien­te dalla Cina. Da Lin Piao nel 1965, poco prima dell’avvio della “rivoluzione culturale”. In un suo famoso intervento spiegava come i popoli oppressi di Asia, Africa e America Latina, la “campagna mondiale”, dovessero accerchiare la “città mondiale”, formata dalle potenze imperialistiche, Usa in primo luogo. Il calco nello scenario mondiale della rivoluzione cinese, svoltasi e vinta avente come base le campagne e i contadini.

XI.

Dicevamo che il modello cinese aiuta molto Amin nella sua va­lutazione del socialismo reale e del sistema sovietico. Un suo saggio riporta il titolo appunto “Trent’anni di critica del sistema sovietico 1960-1990”.

Dapprima Amin sembra aderire alle tesi dell’altro maoista francese Charles Bettelheim. Le nozioni usate erano “capitalismo di stato” e “borghesia di stato”. Ma poi Amin si avvicina alle tesi di Sweezy per capire in che cosa consista il socialismo di tipo sovietico.

Amin ricorda Engels. Come si diceva prima, l’amico e compagno di Marx diffidava i socialdemocratici tedeschi dal concepire il socia­lismo come “capitalismo senza capitalisti”. Non si tratta solo di svi­luppo delle forze produttive, soprattutto nell’arretrata Russia appena uscita dalla rivoluzione. Non si tratta solo di rattrapage, come dice Amin, di sforzo, tensione, per “colmare il divario”, come si prescrive nella teoria degli stadi di sviluppo ai paesi cosiddetti sottosviluppati.

In questo caso, a causa dell’arretratezza, per raggiungere il livello di sviluppo industriale e di benessere dei paesi capitalistici sviluppati.

Bensì si tratta, sempre nelle parole di Amin, di faire un’autre chose. Si tratta di costruire altri rapporti sociali, di pensare che la più grande forza produttiva è l’uomo stesso, che occorre porre fine all’alienazione mercantile e al rapporto alienato processo produttivo-operaio sovietico ecc.

La deriva di Stalin (criticato dallo stesso Mao nei suoi appunti di lettura “Stalin ignora la politica e le masse, mette in rilievo solo la tecno­logia e i quadri tecnici” e “Stalin non prende in considerazione l’uomo.

Vede le cose, non l’uomo”) era, secondo Amin, preparata anche dalla concezione di Lenin secondo il quale, e secondo la sua celebrezione, il socialismo era “Soviet+elettrificazione del Volga”. Tanto che poi, esautorati i soviet, è rimasta solo l’elettrificazione”. Inoltre, sem­pre secondo Amìn, Lenin condivideva la concezione, dominante nella società borghese, della cosiddetta neutralità della scienza e della tecnica.

Anche se Amìn spesso cita il Mao nel suo discorso del 1963 rivolto ai quadri del Partito comunista cinese (“Voi avete costruito una borghesia. Non dimenticatelo; la borghesia non vuole il socia­lismo, vuole il capitalismo”) tuttavia rigorosamente, per Sweezy, e poi per Amìn stesso, nel sistema sovietico non di borghesia si tratta.

Perché non c’è accumulazione e non esiste proprietà privata. Esiste bensì una “nuova classe”, dominante, privilegiata, che controlla la proprietà statale, non collettiva, dei mezzi di produzione e controlla la distribuzione dei beni. Una nuova classe che si riserva l’accesso a consumi privilegiati, di lusso, molti importati solo a beneficio di que­sta classe dall’occidente. Una classe che per continuare a dominare intrattiene rapporti clientelari-mafiosi con il resto del popolo. Come elargizioni di favori e di effimeri privilegi, comportando questo in basso narcosi sociale, apatia.

Queste dinamiche hanno condotto alla deideologizzazione e alla spoliticizzazione diffuse, di massa, nel popolo sovietico, come rilevava Lukàcs in una delle sue ultime interviste nel 1970.

XII.

Per Amìn il socialismo è da concepire come “transizione”, come lungo processo storico, al pari della lunga transizione e gestazione del capitalismo. Il capitalismo europeo impiegò secoli per giungere alla sua fase compiuta, dai prodromi della rivoluzione comunale del XI secolo fino al Rinascimento e soprattutto nella transizione mer­cantilistica tra Rinascimento e avvio della rivoluzione industriale, tra 1500 e 1800, come Amìn indica.

Questa possibile alternativa socialista deve confrontarsi oggi con la nuova globalizzazione-mondializzazione, che noi chiamiamo del neoliberismo trionfante e che Amin preferisce chiamare degli “oligopoli generalizzati”, in presenza di potenti oligarchie finanziarie transnazionali. Nel contesto della fine
1. a Ovest, nell’occidente capitalistico, dei compromessi sociali (il “compromesso socialdemocratico”) tra capitale e lavoro, come risultato della vittoria sul nazifascismo e della forza acquisita dal movimento operaio e dalle forze politiche della sinistra
2. a Est, del socialismo reale e del sistema sovietico
3. a Sud, con la fine di Bandung e del primo “risveglio del Sud” 

La ripresa del socialismo come transizione su scala mondiale esige una “Bandung 2”, un nuovo “risveglio del Sud”. Col relativo, nuovo, possibile “Movimento dei paesi non-allineati”.

In presenza dì un mutato quadro del contesto mondiale, dal momento che nella nuova globalizzazione-mondializzazione è si consentita e incoraggiata l’industrializzazione di alcuni paesi, alcuni detti emergenti, ma sempre come sviluppo dipendente grazie ai “cinque monopoli” (tecnologia, mezzi di comunicazione, controllo delle risorse, finanza, armi di distruzione di massa) appannaggio dei paesi della cosiddetta “Triade”, dell’imperialismo collettivo di Usa, Europa e Giappone.

Allora ritorna a essere fondamentale per il Sud Globale la nozio­ne di “sviluppo autocentrato” di contro allo “sviluppo extravertito”, al servizio dello sviluppo dei paesi dominanti. E la concezione dello sviluppo autonomo, rispondente ai bisogni della nazione e del popo­lo. Si tratta di produrre beni per il proprio fabbisogno e non beni per l’esportazione (caffè, cacao, soia, mais ecc. a beneficio dei consumi dei paesi dominanti, per l’allevamento di animali da carne ecc.).

Per fare questo occorre la mossa preliminare della déconnexion, del delinking, dello “sganciamento” (come abbiamo reso questa ca­tegoria nella traduzione italiana) dalla logica dello sviluppo capita­lìstico nel quale le periferie debbono soggiacere allo “aggiustamento strutturale” continuo secondo i voleri dei paesi dominanti del centro.

Questo sviluppo decisivo nella visione di Amin, quale alter­nativa al capitalismo realmente esistente, è affrontato dapprima diffusamente nel libro del 1985 La déconnexion, ma poi anche in Eurocentrismo.

XIII.

In questo processo, un passaggio fondamentale è rappresentato dalla costruzione di un “mondo multipolare” antiegemonico. Contro il dominio unilaterale, unipolare, degli Usa. E contro il suo continuo tentativo di “controllo militare del pianeta”. L’egemonia Usa è messa in discussione da alcuni paesi come la Cina, la Russia, l’india, l’Iran ecc. Dai cosiddetti paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Con l’avvertenza che questi paesi svol­gono sì un ruolo “antiegemonico”, appunto, ma non “antisistema”, non anticapitalistico. Non mettono in discussione il capitalismo. Anzi. Tut­tavia così facendo contribuiscono a creare un mondo multipolare, re­troterra necessario per futuri avanzamenti sociali e politici antisistemici.

XIV.

Amin definisce il capitalismo come “una parentesi della storia”.

Come sistema ormai “obsoleto”, “senile”, “in declino”, addirittura dal 1880, dalla fase degli oligopoli e dell’imperialismo, dalla grande crisi detta “grande depressione” del 1873-1896, Quella fase inaugura un’e­poca di guerre e di rivoluzioni che si dispiega in tutto il Novecento.

La questione ambientale è questione cruciale e Amin ne è con­sapevole. Già attivo dalla Conferenza di Stoccolma del 1972, nella costruzione in Africa di Enda (Azione Ambientale e di Sviluppo nel Terzo Mondo) e nella successiva costruzione, a inizio degli anni ot­tanta, del Forum du Tiers Monde.

Infine, entro il Forum Mondiale delle Alternative, su impulso di Amin e di Houtart, ci siamo impegnati per accogliere il contributo del Global Footprint Network (la Rete mondiale dell’impronta Ecologica promossa soprattutto da Mathis Wackemagel) e quello di Elmar Altvater (“socialismo solare”) e di John Bellamy Foster, attuale direttore della Monthly Review. Altvater e Bellamy Foster, con Michael Lòwy e Joel Kovel, fautori di quel “socialismo ecologico” o “ecosocialismo”, tanto più necessario oggi, a fronte delle sfide e delle minacce per l’equilibrio e la sopravvivenza della vita nei pianeta. In questo la con­traddizione capitale-lavoro si coniuga strettamente, e non gerarchica­mente, con la contraddizione uomo-natura e produzione-ambiente.

XV.

Con Amin e Houtart abbiamo contribuito a creare e sviluppare il Forum Mondiale delle Alternative. In ciò precorrendo la nascita del Forum Sociale Mondiale, da Porto Alegre 2001 in avanti.

L’assunto era contenuto nello slogan “convergenza nella diversi­tà” delle varie correnti, tendenze, culture, movimenti, partiti ecc. che si opponevano alla globalizzazione-mondializzazione neoliberista. Il cosiddetto movimento altermondialista origina da lì. In Italia tale movimento si è palesato soprattutto al vertice G8 dì Genova nel luglio 2001.

Il Forum Sociale Mondiale si è mosso sempre tra due poli. Nella metafora usata da Houtart, e ripresa da Amin, tra la “Woodstock sociale”, come happening, come spazio aperto in cui ritrovarsi e conoscersi, ma senza alcuna implicazione organizzativa, senza parole d’ordine vincolanti ecc., e una sorta di “nuova Internazionale”, con implicazioni organizzative e misure vincolanti. Amin è stato critico nel vedere prevalere entro il Forum le potenti Ong occidentali.

Com’egli diceva, una concezione edulcorata della lotta al neoliberi­smo, consona a un capitalismo che si degna di 

1. “dare una verniciata di verde”, con il cosiddetto sviluppo sostenibile;
2. concedere la “lotta alla povertà”, come mitigazione delle gravi sperequazioni e ineguaglianze diffuse;
3. promuovere la governance il “buon governo” degli organismi sovranazionali, questi ultimi senza alcuna legittimazione de­mocratica e responsabili di molti squilibri a livello planetario.

Negli ultimi tempi sosteneva che le lotte sociali decisive nel mondo ormai si svolgevano fuori dal contesto del Forum Sociale Mondiale, perdendo così quest’ultimo ruolo e importanza nell’arena mondiale, dopo le esaltanti e promettenti fasi iniziali dei primi forum.

Propugnava la versione antisistemica più radicale nella creazione della cosiddetta “V Internazionale”. A suo parere, possibile, auspica­bile. Malgrado le serie difficoltà che personalmente ritengo presenti in una simile impresa. Auspicabile, ma, a misura della frammenta­zione, delle scissioni, delle diverse traiettorie di partiti, di movimenti ecc. nel mondo, molto difficile a realizzarsi.

XVI.

Sempre entro il Forum Sociale Mondiale, Amin ha insistito sulla ripresa della nuova “questione agraria”. La vera e propria “questione contadina” contemporanea.

La micidiale azione dello agro business, l’agricoltura capitalistica fortemente meccanizzata e a intenso uso dì fertilizzanti chimici e di pesticidi continua a rovinare la piccola agricoltura familiare di sus­sistenza. Vale a dire a rovinare l’esistenza di metà della popolazione mondiale, circa 3,5 miliardi di persone. Ciò comporta un’ulteriore espulsione di contadini e delle loro famiglie dalle campagne del Sud del mondo. In presenza di uno sviluppo dell’industria asfittico su scala mondiale, non piùi capace di assorbire questa manodopera resa libera, queste espulsioni si risolvono in un ingrossamento a dismisura dell’e­sercito industriale di riserva, di persone allo sbando nello Slum Planet, nella “bidonvillizzazione del mondo”, con le molte città delle perife­rie del mondo, accerchiate da enormi favelas, slums, bidonville! ecc.

Circa un miliardo di persone sono migrate in questo modo in questi ultimi decenni, in questi “quaranta gloriosi” di dominio del capitalismo neoliberista, essendo la migrazione Sud-Sud ormai dominante, rispetto alle poche centinaia di migliaia di persone della spesso disperata migrazione Sud-Nord.

XVII.

Nell’espansione polarizzante del capitalismo e dell’imperialismo a essere distrutte sono anche identità, appartenenze, culture, comu­nità. Spesso le reazioni spontanee dei popoli investiti sono state, e sono, di legittima chiusura difensiva identitaria, “culturalistica”, come la definisce Amin.

Il culturalismo è un problema, poiché è un ripiegarsi e un vol­gersi al passato, è passatismo. Nell’area storica interessata dall’islam, invece di volgersi, come “passatismo”, alle fiorenti civiltà egizia, mesopotamiche, arabo-persiana ecc. la prima identità che viene assunta è proprio l’islam.

Amin non distingue tra “islam moderato” e “islam radicale e fondamentalista”. Si tratta in entram bi i casi di “islam politico”, antidemocratico, repressivo, oscurantista, lesivo della dignità della donna. Un potente freno all’autentico processo di emancipazione delle classi subalterne e dei popoli delle periferie. Questo detto dal versante di una profonda conoscenza del contenuto propriamente religioso e culturale in generale, della storia complessiva dei sistemi religiosi, dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam in particolare.

In Eurocentrismo Amin dispiega una sorprendente, profonda, ricca conoscenza delle dinamiche filosofiche e culturali dell’ellenismo e poi delle “tre religioni del Libro” (appunto ebraismo, cristianesimo islam). In più a proposito dell’islam, agevolato com’è dall’accesso diretto in lingua araba all’ampia letteratura primaria e secondaria.

L’autore procede a una efficace relativizzazione storica delle pretese radici giudaico-cristiané e greche dell’Europa.

Essendo manifestamente il cristianesimo, religione e movimen­to reale, tipicamente “orientale”. Almeno fino al 1000 d. C. Anche dopo che venne elevato a religione di Stato con l’imperatore Teodosio nel 380 d. C. Ed essendo la Grecia margine occidentale dell’Oriente.

Ampiamente debitrice la civiltà greca delle civiltà monumentali, egizia, mesopotamiche, fenicia, persiana ecc. L’autore cita Martin Bernal e il suo famoso libro Black Athena e il fatto che metà del les­sico della lingua greca ha origini egizie e fenicie.

XVIII.

L’eurocentrismo, del pari, è un culturalismo. E speculare ai culturalismi delle periferie. Il capitalismo si accompagna alla moder­nità e agli sviluppi culturali dal Rinascimento all’illuminismo e alla rivoluzione francese. L’assunto è l’affrancarsi dalla “alienazione meta­fisica”, con la ferma consapevolezza, un pregiudizio laico e razionale, che l’individuo è artefice del proprio destino, è colui che fa la storia.

Modernità, democrazia, progresso, sviluppo materiale e civile ecc. sostanziano il pregiudizio primigenio della “superiorità bian­ca” dell’europeo, e dell’occidentale in generale. Nel colonialismo e nell’imperialismo classici era normale parlare di razze e culture “su­periori” e di razze e culture “inferiori”. Oggi, argomenta Amin, un discorso apertamente razzista non è così esplicito, tranne che in certi movimenti e in certi partiti politici occidentali. L’assunto è piuttosto implicito e la categoria di eurocentrismo è sempre all’opera.

Si parla di “differenza culturale”. In una intervista, alcuni mesi prima della scomparsa nell’agosto 2018, disse “Gli europei rimango­no persuasi che il loro modo di vita è differente e superiore”.

L’universalismo proclamato dalla modernità, dal Rinascimento all’illuminismo, alla rivoluzione francese, in realtà è un universali­smo monco, troncato, dal momento che al contempo si proclama la “superiorità bianca”, europea e occidentale.

La sfida per i movimenti antisistemici, per i popoli delle perife­rie del mondo, risiede nella possibilità che, nel proprio fondarsi sulla identità, sul recupero della propria storia e della propria cultura, come risposta, come resistenza, rispetto al tentativo della omoge­neizzazione-omologazione, e in definitiva negazione, da parte dei dominanti, non rappresenti tutto ciò chiusura ed esclusione iden­titaria, bensì rappresenti apertura universalistica, includente e non escludente.

XIX.

Samir Amin rientra nella generale corrente, tra Ottocento e Novecento, dello “ottimismo storico”. Una forza e una dinamica necessarie che hanno sospinto potenti movimenti, potenti masse umane, hanno consentito potenti resistenze, grandi trasformazioni, rivoluzioni riuscite o fallite, importanti riforme, grandi conquiste sociali e politiche di varia natura ecc.

Oggi, alla luce dell’esperienza storica e in questo contesto dì crisi generalizzata delle forze antisistema, abbiamo qualche difficoltà ad accogliere le posizioni di Amin a proposito del capitalismo “obso­leto”, “senile”, “parentesi della storia” ecc. Eppure ci sono esponenti non marxisti, valenti studiosi, che parlano di “postcapitalismo”, com’è proprio il titolo del libro di Paul Mason.

La fiducia e il fermo convincimento in Amin secondo cui c’è sempre una via d’uscita, c’è sempre un orizzonte, la storia non è fi­nita, erano tuttavia contagiosi. Com’erano contagiosi il suo costante equilibrio e il suo costante buon umore, il suo istintivo impulso a confrontarsi sempre, con il colto e con lo sprovveduto, con il giovane militante inesperto e con il vecchio attivista, carico di esperienza, senza differenza.

Il capitalismo ha contribuito fortemente a sviluppare le capacità umane (scienza, tecnica, specialismi, macchine, mezzi di produzione, “forze produttive” in generale). E questo è importante, sempre co­munque ricordando lo sviluppo apportato dalle tante civiltà extraeu­ropee della storia globale. In gioco però è soprattutto lo sviluppo della personalità umana. Vale a dire l’etica, le qualità umane di relazione, la cultura, l’apertura mentale e morale ecc. La lotta per il socialismo, ol­tre al cambiamento economico-sociale, strutturale, come si diceva, è anche questo. Samir Amin rappresenta una personalità di questo tipo, nella processualità storico-collettiva e nella processualità individuale.

Di sé diceva che il suo posto lo considerava sempre nel terzo mondo africano e arabo. E ne era fiero. Eppure era anche figlio dell’illuminismo della grande tradizione rivoluzionaria francese. Da parte di madre, aveva antenati giacobini della rivoluzione del 1789- Da parte della moglie Isabelle, tra gli antenati, c’era Camille Desmoulins, l’avvocato rivoluzionario che arringò la folla per dare l’assalto alla Bastiglia, inizio della rivoluzione.

Benché fermamente convinto della succitata “vocazione terzo­mondista del marxismo , tuttavia egli ha disposto, proprio come se­gno del suo essere fino in fondo internazionalista, nella necessaria vi­sione universalistica del marxismo e del comunismo, che alla sua mor­te venisse inumato al cimitero Pére Lachaise di Parigi. Accanto alle tombe degli eroici combattenti della Comune di Parigi e alle tombe dei volontari delle Brigate Internazionali della guerra civile spagnola.

Una degna sepoltura a conclusione di una vita piena, ricca, intensa. Una vita degna di essere vissuta.

Nota all’edizione del 2022

Desidero qui ringraziare Massimiliano Lepratti per la continua, feconda collaborazione e per la comune assiduità con l’opera di Samir Amin. Opera che ha ispirato, tra le altre influenze e ispirazioni, da Marx a Immanuel Wallerstein a Fernand Braudel, il nostro recente libro comune Un mondo di mondi. Un’avventura umana dalla scoperta deU’agricoltura alle crisi globali contemporanee, Asterios editore, Trie­ste 2021.

Un ringraziamento particolare a Nunzia Augeri. Da decenni un’amicizia rara ci lega. Una reciproca stima, con capacità di ascolto e di comprensione, nell’intento di sempre della militanza, da una parte, e del necessario retroterra del lavoro culturale, dall’altra.

Infine ringrazio l’editore La Città del Sole che si è reso dispo­nibile a pubblicare la presente edizione italiana di un lavoro così importante di Amin.

L’edizione italiana ha tenuto conto dell’originale francese, pub­blicato nel 2008 da Parangon, e della traduzione inglese del 2009 presso Monthly Review Press (edizione africana della stessa tradu­zione presso Pambazuka Press).

Nel 2014 l’originale francese è comparso in edizione digitale a cura delle NouvellesEditìons Numériques Africaines (NENA), in un progetto complessivo per rendere disponibile in Africa, a un largo pubblico, l’intera opera di Samir Amin.

Come spesso è avvenuto con le sue opere, proprio perché libri e saggi e articoli concepiti come “semplici strumenti” al fine della conoscenza e dell’azione, qui l’autore è intervenuto per piccoli cambiamenti formali nella suddivisione interna dei capitoli e dei paragrafi, soprattutto inserendo la numerazione nell’articolazione interna dei paragrafi. E inserendo in pochissimi luoghi qualche riga per una maggiore esplicitazione e comprensione di riferimenti di fatti, di nozioni, di persone.

Abbiamo pertanto ritenuto di fare riferimento soprattutto a quest’ultima versione in ordine di tempo. Avendo nondimeno pre­senti le sopraccitate edizioni francese e inglese.

Recensione

Samir Amin: eurocentrismo, malattia congenita del capitalismo
di Monica Quirico*

(link all’articolo su Sinistrainrete : Monica Quirico: Samir Amin: eurocentrismo, malattia congenita del capitalismo (sinistrainrete.info)

Nel 1988 usciva Eurocentrismo, di Samir Amin. La casa editrice La città del sole ha reso disponibile in italiano la seconda edizione dell’opera – Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a cura di Giorgio Riolo, traduzione di Nunzia Augeri, Napoli/Potenza, 2022) – uscita in francese nel 2008 con una Prefazione e un capitolo conclusivo che aggiornano la versione originale.

Trentacinque anni fa (1988) usciva Eurocentrismo di Samir Amin (1931-2018) che, sfidando la rappresentazione dominante della storia e della cultura occidentali (introiettata anche da una parte del marxismo), contribuiva a innovare radicalmente le categorie interpretative del capitalismo. In un’epoca contrassegnata da movimenti e partiti identitari (in Occidente come altrove), bene ha fatto la casa editrice La città del sole a rendere disponibile in italiano la seconda edizione dell’opera (Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a cura di Giorgio Riolo, traduzione di Nunzia Augeri, Napoli/Potenza, 2022), uscita in francese nel 2008 con una Prefazione e un Capitolo conclusivo che aggiornano la versione originale. Tra la prima e la seconda edizione la storia è sembrata prima “finire”, con il crollo del socialismo reale, e poi regredire verso la barbarie generalizzata, con l’attentato alle torri gemelle preso a pretesto dagli USA per imporre il loro controllo militare sull’intero pianeta; un’involuzione che per Amin non è affatto una sorpresa: “l’ideologia borghese, che in origine avanzava ambizioni universalistiche, vi ha rinunciato per sostituirvi il discorso postmodernista delle ‘specificità culturali’ irriducibili (e, in forma volgare, lo scontro inevitabile delle culture)” (p. 32).

Nella sua Introduzione, Riolo ripercorre la vita di Amin dalla nascita in Egitto agli studi in Francia, suo paese di adozione. Il giovane ricercatore, che a Parigi si iscrive al PCF, si trova a lavorare alla sua tesi di dottorato in una fase in cui la Conferenza di Bandung (1955) e successivamente la Conferenza di Belgrado (1961) pongono all’ordine del giorno il processo di decolonizzazione e insieme l’emergere del movimento dei paesi non allineati.

Diventa così urgente un confronto sulle cause dell’”arretratezza” (nella terminologia occidentale) del Sud del mondo. Amin figura, insieme con Giovanni Arrighi, Andre Gunter Frank e Immanuel Wallerstein, tra i fondatori della scuola che guarda al capitalismo come sistema globale, il cui centro (l’Occidente) prospera impedendo lo sviluppo dei paesi periferici, per poter estrarre valore dalla loro forza-lavoro e depredarne le risorse naturali. Tuttavia, rispetto agli altri capostipiti di questo filone di studi Amin è quello che più si mantiene ancorato agli strumenti concettuali coniati da Marx (in particolare, quelli di modo di produzione e formazione sociale), pur ricollocandoli in una dimensione globale. Inoltre, diversamente da Wallerstein rifiuta di considerare la periferia del mondo come una mera variabile dipendente del centro: il capitalismo ingloba infatti formazioni sociali che, pur soggette alle leggi del mercato mondiale, vedono la sopravvivenza di modi di produzione precapitalistici.

In opere come L’accumulazione su scala mondiale. Critica del sottosviluppo (1970) e Lo sviluppo ineguale (1973), l’economista franco-egiziano sviluppa la tesi che il divario tra l’Occidente e i paesi periferici non sia affatto imputabile a un ritardo di questi ultimi, bensì costituisca la condizione necessaria dell’esistenza stessa dell’ordine fondato sul mercato. Proporre di colmare lo squilibrio con l’adozione, nel Sud del mondo, di politiche modellate sul percorso dei paesi occidentali è dunque mistificatorio. L’approccio di Amin, che nei primi anni Settanta fece scalpore, oggi potrebbe suonare scontato, essendo stato acquisito da un ampio spettro di studi (sociologici, femministi, economici). Lo è davvero? Le politiche finanziarie degli organismi transnazionali e perfino gli aiuti umanitari rimangono modellati (in termini economico-sociali, culturali e “morali”) sui punti più alti, in termini di profitto, del sistema capitalista. I risultati ben li conosciamo.

Nel Capitolo I di Eurocentrismo, dedicato a Modernità e interpretazioni religiose, Amin discute il concetto di modernità così come emerso dall’Illuminismo, che, a differenza delle culture precedenti, riconosce all’uomo la capacità di fare la propria storia; tale libertà tuttavia è viziata dalla subordinazione alle esigenze del capitalismo. La “ragione emancipatrice” è infatti una ragione borghese, con precise determinazioni temporali e geografiche; essa identifica la libertà con il mercato e, sul piano politico, con la democrazia, che – a dispetto della retorica trionfalistica – è sic et simpliciter un sistema in cui lo Stato ha una funzione ancillare rispetto agli imperativi dell’economia. Nella deriva rappresentata dall’”ideologia libertaria di destra” (Hayek) scompare ogni finzione: gli esseri umani rimangono artefici della propria storia, ma il teatro in cui si muovono è una giungla. È l’epoca dell’americanizzazione del mondo. Si impone una ragione degenerata e distruttiva, che non solo rinuncia a ogni parvenza di emancipazione, ma assume la funzione – scrive Amin con formula incisiva – di “impresa di demolizione dell’umanità” (p. 43) e del pianeta tutto.

Il marxismo è lo strumento per comprendere il mondo e trasformarlo, a patto – sul punto l’autore insiste – di partire da Marx, anziché riproporne meccanicamente le analisi. Da Marx nondimeno Amin riprende la centralità del binomio struttura-sovrastruttura, depurandolo dalle tentazioni deterministiche che ne hanno segnato l’utilizzo e facendone la bussola dello studio non del mero modo di produzione, ma delle formazioni sociali nella loro totalità, risultato del rapporto dinamico tra l’istanza economica, quella politica e quella culturale-religiosa. Forte di una robusta conoscenza della storia delle religioni e della filosofia (e naturalmente di storia africana), Amin indaga il ruolo che le diverse religioni e culture hanno svolto in relazione allo sviluppo del capitalismo. Un’operazione decisamente sui generis, nella storia del marxismo, che porta l’autore a smontare il mito del cristianesimo in generale o di una sua specifica declinazione (la Riforma protestante) come fucina della modernità capitalistica, in virtù di peculiarità – assenti in altre religioni – che avrebbero partorito il “miracolo europeo”. È vero semmai il contrario, osserva l’autore: le religioni, tutte, si sono conformate alle esigenze del modo di produzione capitalistico, ma lo hanno fatto in modo diverso, come Amin illustra nella ricostruzione del rapporto fra le tre religioni monoteiste e il contesto politico-economico dell’epoca.

Perché l’Europa ha rotto con il modo di produzione tributario e il mondo musulmano no? A questa domanda, gli occidentali rispondono puntando il dito contro le specificità della : un tema agitato anche da quello che Amin chiama islam politico, espressione che raggruppa tanto i moderati quanto i fondamentalisti; tra i due gruppi l’autore non scorge distinzioni sostanziali, imputando a entrambi una forma di “eurocentrismo rovesciato”. Il motivo per cui la modernità (capitalistica) non si è realizzata nei paesi musulmani, come nelle altre aree del sud del mondo, è che il capitalismo esige l’esistenza di un centro e di periferie subordinate. Manovrati da borghesie nazionali complici, e succubi, delle classi dominanti europee e nordamericane, i fondamentalisti (inclusa la Repubblica islamica dell’Iran) addebitano il degrado dei loro paesi all’Occidente, senza mettere mai in discussione la vera causa della loro subalternità, il capitalismo.

Quanto al cristianesimo, esso non ha creato la società borghese; piuttosto, si è rivelato più adattabile, in virtù di due assenze, rispetto alle altre due religioni: la rinuncia a costruire il regno di Dio sulla terra e la mancanza di una traduzione giuridica dei principi del Vangelo.

In breve, “i due discorsi del capitalismo mondializzato e dell’islam politico non sono in conflitto, ma perfettamente complementari” (p. 95). Entrambi neutralizzano le contraddizioni di classe spostando il piano dello scontro sull’incompatibilità di presunte “identità” collettive. L’élite occidentale e in particolare quella statunitense hanno quindi tutto l’interesse a fomentare il fondamentalismo islamico (come si è ben visto in Afghanistan): esso non solo garantisce che i popoli periferici rimangano subalterni al capitalismo mondiale, ma può sempre essere addotto come pretesto per legittimare interventi militari all’estero e pugno di ferro contro i musulmani in casa.

Nel Capitolo II, Per una teoria della cultura. Critica dell’eurocentrismo, l’autore presenta la sua innovativa lettura della storia globale. Occorre ripercorrere la storia, anzi, le storie, delle diverse aree geografiche per capire con quali tempi, modalità e peculiarità vi si sia affermato il capitalismo, anziché liquidare la questione con il presunto primato culturale dell’Occidente, che ne spiegherebbe lo sviluppo precoce. Amin prende di mira le due declinazioni della storiografia eurocentrica, che, nel loro apparente antagonismo, condividono un approccio teleologico, sia pure con approdi diversi. La prima è quella liberale, che istituisce una continuità fra l’età classica (il mondo greco-romano, arbitrariamente identificato con l’Occidente e contrapposto all’Oriente), l’età feudale (cristiana) e l’avvento del capitalismo. La seconda è quella di matrice marxista, nota come teoria degli stadi, presente negli scritti giovanili di Marx ed Engels (successivamente attenti ad analisi storiche più articolate) e poi canonizzata dai partiti comunisti e da teorici marxisti non solo ortodossi. Benché Amin non sia certo l’unico a prendere le distanze dall’idea che la storia dell’umanità parta da forme di comunismo primitivo, per passare poi attraverso lo schiavismo e il feudalesimo e infine approdare al capitalismo, la ricostruzione alternativa della storia globale che offre in Eurocentrismo racchiude una sfida non solo al dogmatismo della vulgata marxista, ma alla storiografia tout-court.

Se già la nozione di comunismo primitivo scompare per lasciare il posto a quella di comunitarismo (una rete di piccole comunità cementate dalla parentela), l’operazione più dirompente è la marginalizzazione geografica e cronologica del feudalesimo, inserito nel più ampio modo di produzione tributario, i cui elementi caratterizzanti sono una struttura politica centralizzata che estrae surplus economico da un’area agraria e il ruolo ideologico legittimante delle grandi religioni. Nella categoria coniata da Amin sono ricompresi tanto il marxiano modo di produzione asiatico (Egitto, India, Cina), che ne costituisce il nucleo centrale, quanto il feudalesimo europeo, che del modo di produzione tributario appare come un capitolo tutto sommato marginale rispetto alla longevità dei sistemi tributari africani e asiatici. Se Marx si è limitato ad abbozzare il modo di produzione asiatico, in Eurocentrismo esso è alla base, come cuore del sistema tributario, della rottura operata con la periodizzazione tradizionale: la cesura fra antichità e medioevo (collocata dalla storiografia eurocentrica alla fine dell’impero romano d’occidente) viene retrodatata all’epoca dell’unificazione ellenistica dell’Oriente (300 a.C. circa).

Pur mantenendo la centralità della struttura economica nell’interpretazione dei processi storici e sociali, Amin propone una tipologia dualistica dei modi di produzione che muove da un concetto di totalità a dominante: mentre nei sistemi precapitalistici lo sfruttamento delle classi subalterne è diretto, immediatamente visibile e l’istanza dominante è quella politico-ideologica, nel capitalismo lo sfruttamento è, per così dire, mascherato dal contratto fra datore di lavoro e proletario e dall’impalpabilità del plusvalore. In esso è l’istanza economica a governare direttamente le società, attraverso una mercificazione universale che ingloba perfino la forza-lavoro.

Dopo aver analizzato l’evoluzione di cultura e religione (strettamente intrecciate) nelle società tributarie delle diverse aree del mondo, nel Capitolo III, La cultura del capitalismo, Amin ripercorre l’unificazione forzata del globo a opera del capitalismo, cui corrisponde una Weltanschauung (la Ragione) solo formalmente universalistica. La globalizzazione infatti non implica affatto l’omogeneizzazione: un mondo in cui nove miliardi di persone godano del tenore di vita degli occidentali è semplicemente inconcepibile; il sistema pretende anzi la polarizzazione fra centro e periferia e l’eliminazione (manu militari o tramite ricatti del Fondo Monetario Internazionale) di quei paesi che resistono alla (finta) globalizzazione. “L’ideologia dominante legittima così sia il capitalismo come sistema sociale sia la diseguaglianza su scala mondiale che lo accompagna. […] Il mito filocristiano, quello dell’antenato greco, la costruzione antitetica e artificiale dell’orientalismo connotano il nuovo culturalismo europeo ed eurocentrico, condannandolo irrimediabilmente ad accettarne l’anima dannata: il razzismo ineliminabile” (p. 165, corsivo mio). Amin si spinge oltre: il nazismo, lungi dal rappresentare un’aberrazione della storia, è una possibilità sempre attuale. Al fallimento di un’autentica globalizzazione, che per sua stessa natura il capitalismo non può realizzare, pena il suo tracollo, gli esseri umani reagiscono con salti nel vuoto identitari, in conflitto fra loro, mentre la natura viene irrimediabilmente distrutta.

Quale contributo possono offrire Marx ed Engels a un’analisi del capitalismo realmente esistente, ossia globale ma polarizzato? In questo capitolo il giudizio di Amin è più severo di quello espresso nel Capitolo I, in cui a Marx viene riconosciuto di aver colto in alcuni scritti come la polarizzazione tra centro e periferia sia intrinseca al capitalismo, dunque non superabile. Qui prevale invece l’opinione che Marx non si sia affrancato dall’ottimismo evoluzionistico di matrice illuministica della sua epoca, il che spiega la sua fiducia nella tendenza all’omogeneizzazione (cioè europeizzazione) del mondo, con i paesi “arretrati” che recuperano il loro ritardo, lungo una traiettoria lineare. Sarà questa l’interpretazione prevalente nella II Internazionale. Per andare oltre Marx Amin propone di convertire la sua legge del valore (ritagliata sul punto più alto del sistema capitalista, quello occidentale) nella “legge del valore mondializzata”, che darebbe conto di una doppia polarizzazione: quella fra centro e periferie e quella all’interno delle periferie; mentre nei paesi centrali il consenso alla democrazia borghese è “comprato” con un aumento costante dei salari, nelle periferie solo le borghesie vassalle del centro vedono aumentare il proprio tenore di vita, ricorrendo a regimi autocratici per soffocare il malcontento della popolazione.

Che fare? Il capitalismo non è il destino dell’umanità, bensì una parentesi. Da esso ci si può affrancare soltanto con un’operazione che l’autore felicemente definisce come “sganciamento” dal centro del sistema dei popoli delle periferie mondiali. La proposta di Amin è lo sbocco naturale di una teoria imperniata sui concetti di sviluppo ineguale e di imperialismo (mutuato da Lenin). Le rivoluzioni nazionali delle periferie, con la formazione di Stati realmente autonomi, è solo il primo passo di una transizione dal capitalismo globale a un socialismo inevitabilmente altrettanto mondiale (è evidente qui la presa di distanza dallo stalinismo, del resto costantemente criticato nella produzione di Amin, e dall’operaismo tout court); una transizione che sarà inevitabilmente lunga e non programmabile ex ante. D’altra parte, l’alternativa è la “barbarie capitalistica eurocentrica” (p. 215).

Amin non è stato solo un teorico; ha partecipato attivamente, come racconta Riolo, alla fondazione e alle attività del Forum mondiale per le alternative, dove ha sollevato con forza i problemi posti dallo sviluppo ineguale, a partire dalla questione contadina, inseparabile da quella ambientale; ha altresì combattuto il fuoco amico, l’eurocentrismo delle influenti ONG occidentali che al Forum avevano aderito: una deriva che lo condotto a invocare il lancio di una V Internazionale. È con quell’esperienza che si chiude il Capitolo V, Per una visione non eurocentrica della storia, in cui l’autore sintetizza il suo contributo al dibattito globale sul capitalismo, affinando ulteriormente l’analisi storica dei diversi modi di produzione (e del ruolo dello Stato nazionale), rispondendo al contempo alle critiche mossegli da esponenti del marxismo occidentale.

Eurocentrismo è un saggio di non facile lettura sia per lo stile sia per il modo di affrontare i temi, che tornano più volte nei diversi capitoli ma da angolazioni diverse. Chi legge non troverà la genealogia dei concetti che Amin impiega (evidenti, ma non esplicitati, sono i debiti verso Gramsci, Althusser e Poulantzas, tra gli altri): il suo è un testo militante, non di marxologia, cui l’autore indirizza qualche frecciata. Oggi saltano all’occhio alcune lacune del suo approccio. Pur condannando a più riprese la condizione in cui versano le donne nell’islam, l’autore non fa del patriarcato un elemento costitutivo dello sfruttamento capitalistico. Un certo spaesamento (per chi conosce la passione politica di Amin) suscita il tono per certi versi asettico della scrittura: manca la vita quotidiana, la concretezza delle lotte, gli esseri umani sembrano agiti da forze economico-sociali trascendenti. Va poi rimarcato che fenomeni epocali come la finanziarizzazione estrema dell’economia e l’impatto sociale e antropologico di digitalizzazione e automazione sono assenti, nelle parti aggiunte per la seconda edizione (benché Amin sia ben consapevole che finanza e tecnologia sono due degli strumenti di cui il centro si avvale per tenere soggiogate le periferie).

Pur con questi limiti, Eurocentrismo lascia il segno per la capacità dell’autore di cogliere, già nel 1988, fenomeni che si sarebbero dispiegati pienamente solo nei decenni successivi, come la formazione di un mondo multipolare (condizione necessaria, per Amin, di una transizione al socialismo) e la resistenza che a esso avrebbero opposto gli Stati Uniti nonché la drammatica rilevanza della questione contadina, di quella frattura metabolica fra umanità e natura che Marx trattava nel suo opus magnum, Il Capitale come potenzialmente foriera della distruzione della vita sul pianeta. Inoltre, chi ancora riconosce il valore euristico, e politico, del materialismo storico non può non apprezzare una ridefinizione delle categorie marxiane che, depurate dal vizio eurocentrico, diventano pienamente spendibili per studiare il “capitalismo realmente esistente” oggi. La richiesta di Amin di essere sepolto al Père Lachaise di Parigi, accanto a comunardi e combattenti delle Brigate internazionali nella guerra civile spagnola, rappresenta l’ultimo atto del suo imperituro internazionalismo, che sta a noi raccogliere, scrollandoci di dosso quella sinistra che si strappa i capelli per il ritorno del fascismo in Europa dimenticando che per la maggior parte dei popoli del pianeta oppressione, discriminazione e povertà sono da secoli la norma della loro storia.

(*) Questo testo è la versione integrale di un contributo che, in forma abbreviata, apparirà sul numero di gennaio 2024 della rivista “Materialismo Storico”.

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