Indice
Introduzione 3
1. 1358: la Jacquerie 7
2. 1378: il tumulto dei Ciompi 43
3. 1381: l’insurrezione inglese 85
4. 1386: la rivolta dei Tuchini 123
Conclusione 161
Per chi vuole approfondire 165
Scheda dell’editore Laterza
«All’arme! All’arme! I priori fanno carne!» grida un artigiano per incitare alla rivolta. È il 20 luglio del 1378, siamo a Firenze in piena rivolta dei Ciompi, una delle tante che infiammano l’Europa nel corso del Trecento.
Utilizzando le cronache del tempo, Alessandro Barbero ci fa rivivere la concitazione, l’entusiasmo, la violenza di quelle giornate in cui una massa di persone decise che il futuro così come lo vedeva non gli piaceva e provò a cambiarlo.
Arrivano completamente inaspettate. Durano pochissimo, talvolta solo qualche settimana, poi vengono represse. Ma in quel poco tempo succedono cose tali da rimanere per sempre incise nella memoria collettiva. Sono le rivolte popolari. La storia, almeno nell’ultimo millennio, è tutta punteggiata da momenti critici in cui una massa di persone decide che il futuro così come lo vede non gli piace, e prova a cambiarlo. Il Medioevo non fa eccezione: anche allora non sono mancati movimenti insurrezionali che nel loro sviluppo iniziale non sembrano affatto distinguibili dalle più travolgenti rivoluzioni moderne. In particolare nella seconda metà del Trecento se ne sono concentrati così tanti da costituire un’anomalia. Alessandro Barbero racconta proprio le più spettacolari fra queste insurrezioni. Per molto tempo gli storici hanno visto nel loro fallimento non solo la prova che i rivoltosi non avevano nessuna possibilità di riuscire, ma che non perseguivano neppure un obiettivo consapevole. Nulla di più falso: i rivoltosi sapevano quello che stavano facendo, avevano rivendicazioni precise e si battevano consapevolmente per realizzarle.
Recensione di Antonio Carioti in La Lettura 24 Sep 2023
La democrazia affonda le radici nel Medioevo
Le rivolte popolari del Trecento, sostiene Alessandro Barbero, rivelano nei protagonisti consapevolezza dei loro interessi e chiarezza di obiettivi. Furono semi gettati nel futuro
Il titolo del nuovo libro di Alessandro Barbero, in uscita il 3 ottobre, può apparire bizzarro: All’arme! All’arme! I priori fanno carne! (Laterza). Si tratta del grido, lanciato da un orologiaio, che diede il via al tumulto fiorentino dei Ciompi nella notte tra il 19 e il 20 luglio 1378: i priori erano i membri della giunta che governava la città, rappresentanti dei ceti abbienti; «fanno carne» significa «ammazzano la gente». A Firenze c’erano già stati disordini causati dai salariati dell’industria tessile e i priori, avvertiti circa un’imminente insurrezione generale, stavano interrogando i sospetti con largo uso della tortura. Le grida dei seviziati misero in allarme l’orologiaio e la situazione precipitò. Ma il volume di Barbero non tratta solo dei Ciompi, riguarda anche altre rivolte popolari scoppiate nella seconda metà del Trecento: in Francia, in Inghilterra, nel Canavese.
Qual è la specificità del moto fiorentino?
«In Italia, rispetto al resto d’Europa, c’è all’epoca una quota maggiore di popolazione urbana. E nei Comuni la partecipazione politica è molto intensa. In particolare a Firenze è assai sviluppata l’industria della lana, con una borghesia imprenditoriale, il “popolo grasso”, che organizza la produzione e domina la vita pubblica. Dalla parte opposta i Ciompi sono operai, la cui mentalità è medievale, ma la cui condizione di sfruttamento assomiglia a quella del proletariato ottocentesco. Per giunta sono esclusi dalla rappresentanza politica, quindi le loro rivendicazioni non sono soltanto sindacali, ma riguardano anche la gestione del potere in città».
Come mai la rivolta fallisce?
«I Ciompi sono numerosi, ma non sono la maggioranza assoluta dei fiorentini. In città c’è anche una nutrita piccola borghesia di artigiani e bottegai, che in un primo tempo solidarizza con gli operai, ma poi passa dalla parte dei ricchi, che riescono ad aizzarla contro i lavoratori più umili e a sopraffare il moto dei Ciompi».
Passiamo alle rivolte contadine. Lei sottolinea che a ribellarsi sono intere comunità.
«In Francia e in Inghilterra insorgono le campagne, ma se si analizzano le liste delle persone condannate o multate durante la successiva repressione, scopriamo che i moti non coinvolgono solo contadini, ma anche artigiani, commercianti, parroci. Gli abitanti delle zone rurali si sollevano collettivamente. Nella società del Basso Medioevo il villaggio è un luogo di vita comunitaria, fortemente organizzato, che difende i propri interessi e resta unito anche nel momento della ribellione».
Contro chi ci si rivolta?
«Il bersaglio immediato sono i nobili. Anche se nel Trecento le monarchie si sono rafforzate rispetto ai secoli precedenti, il grosso del peso che grava sulla gente è rappresentato dagli aristocratici del luogo. Sono loro, non il governo del re, che impongono tasse e requisizioni, compiono abusi, amministrano una giustizia ravvicinata e onerosa. Invece il monarca viene percepito come un potenziale protettore. Se si ritiene che il signore locale agisca in modo iniquo, si può mandare un ricorso al re. Il sovrano a sua volta vuole tenersi buoni i signori, ma tende anche a indebolirli per affermare il suo potere, quindi può capitare che dia ascolto ai contadini. Si crea insomma una triangolazione, con il re che fa da arbitro anche grazie all’alone di sacralità che ne circonda la figura».
Un altro dato importante è che i rivoltosi non sono disperati spinti dalla fame.
«Il Trecento è un periodo terribile di epidemie e carestie, ma le insurrezioni non si scatenano negli anni più tragici, non sono motivate dalla miseria e dalla fame. Scoppiano invece in situazioni nelle quali le zone rurali godono di un relativo benessere. D’altronde i cronisti dell’epoca, in genere ostili ai ribelli, riconoscono che gli insorti sono consapevoli dei meccanismi di sfruttamento a cui sono sottoposti e dei diritti che vogliono ottenere. Alcune rivendicazioni hanno un carattere millenaristico, come l’eliminazione della nobiltà. Ma altre sono fondate e realistiche: in Inghilterra i rivoltosi del 1381 non ottengono l’abolizione della servitù, ma poi ci si arriverà più avanti per la paura che la rivolta aveva instillato nella classe dirigente. Anche la richiesta dei Ciompi di essere rappresentati nel consiglio dei priori appare ragionevole».
I ribelli hanno una coscienza di classe?
«Quella medievale è una società in cui si fa politica. Questo è molto evidente nei Comuni italiani, dove le diverse Arti, le corporazioni dei mestieri, tutelano i loro interessi come la Confindustria e i sindacati di oggi. Ma anche gli abitanti della campagna si organizzano, discutono le questioni di loro interesse, trattano con i signori. Per esempio si negozia sulla ripartizione delle imposte tra la popolazione. Oppure c’è il problema di come gestire l’uso dei beni comuni come i pascoli e i boschi, che i ricchi vorrebbero privatizzare a proprio vantaggio».
Oltre a uccidere i nobili, i rivoltosi danno fuoco alle carte. Come mai?
«È un aspetto che dimostra una certa arretratezza culturale degli insorti, che vedono i documenti come il mezzo usato dai signori per imbrogliare il popolo. La società medievale presenta un alto tasso di violenza, ma è anche legalitaria, va avanti a forza di norme e contratti. Chi sa leggere ne approfitta. Di fronte alle rivendicazioni dei contadini analfabeti il nobile risponde: qui c’è scritto che avete degli obblighi verso di me. I poveri vedono perciò nelle carte lo strumento di una truffa ai loro danni e cercano di distruggerle. Ma si riscontrano anche comportamenti più maturi. In Inghilterra i contadini si presentano dai frati di un convento e dicono: sappiamo che avete un documento da cui risulta che noi non siamo servi».
È molto interessante il passo in cui lei sostiene che la democrazia è nata in Europa grazie al retroterra costituito dalla società feudale.
«Non ho un’idea precisa di come andassero le cose in altre civiltà del mondo. Ma è indubbio che nel nostro Medioevo c’erano meccanismi complessi di regolazione dei conflitti e tutela degli interessi, che coinvolgevano l’intera popolazione. È forte nei nostri avi la tendenza a organizzarsi collettivamente per ottenere un trattamento migliore. Ad esempio l’Università di Bologna nasce quando gli studenti forestieri, privi di diritti, scoprono che associandosi possono indurre il Comune a trattarli meglio. E tutto questo si riflette anche nei secoli successivi. Perciò mi pare si possa dire che la democrazia europea ha le sue radici nelle pratiche correnti del mondo medievale».