Domenico Moro: Il seme della violenza. Parte II
Il seme della violenza. Parte II
Dal 1948 al nuovo secolo
di Domenico Moro
Il periodo che va dalla fine della guerra del 1948, definita dai sionisti prima guerra di indipendenza e dai palestinesi Nakba (disastro), fino all’inizio del XXI secolo è caratterizzato da un quadro di grande complessità e denso di forti contraddizioni a livello sia regionale sia mondiale, che ha reso a tutt’oggi la questione palestinese ancora senza soluzione.
- 1. La fondazione del nuovo stato di Israele
La guerra del 1948 lasciò due questioni irrisolte. La prima fu il riconoscimento internazionale di Israele, che, sebbene riconosciuto dalla maggior parte dei Paesi (compresa l’Urss), non ebbe il riconoscimento dei Paesi arabi limitrofi. La seconda fu la questione della collocazione dei profughi palestinesi, che si ritrovarono senza terra e senza Stato.
Lo Stato sionista, comunque, beneficiò di alcuni vantaggi rispetto ai Paesi del Terzo mondo che, alla fine del colonialismo, si resero indipendenti. Mentre questi ultimi dovevano adattare le istituzioni ereditate dalla potenza colonialista o costruirle ex novo, Israele poteva contare su istituzioni formatesi nel corso del mezzo secolo precedente. Israele poteva beneficiare, inoltre, dell’aiuto degli ebrei della diaspora, che fornivano sostegno politico ed economico al nuovo Stato. Si trattava di una sorta di assicurazione economica di cui gli altri Paesi di recente costituzione erano privi.
Israele si caratterizzò sin dall’inizio come uno Stato confessionale. Infatti, mentre impediva il rientro dei Palestinesi fuggiti durante la guerra del 1948, sollecitava l’immigrazione degli ebrei provenienti da tutto il mondo. Nel 1950 il parlamento israeliano votò la cosiddetta Legge del ritorno, il cui primo articolo stabiliva: “Tutti gli ebrei hanno diritto a immigrare nel Paese”. Del resto, lo Stato sionista si appropriò del 94% delle proprietà dei palestinesi fuoriusciti, assegnandole a ebrei israeliani.
Massimo Maggini: Introduzione al “Manifesto contro il lavoro”
Introduzione al “Manifesto contro il lavoro”
di Massimo Maggini
Gruppo Krisis: Manifesto contro il lavoro e altri scritti, introduzione di Massimo Maggini, prefazione di Anselm Jappe, postfazione di Norbert Trenkle, Mimesis ed. 2023
Presentiamo qui l’edizione rinnovata ed ampliata del Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis. L’originale apparve in Germania nel “lontano” giugno 1999, in forma autoprodotta, e in Italia nel 2003 per i tipi di DeriveApprodi. Successivamente in Germania sono uscite altre tre edizioni, la seconda già nel settembre 1999, la terza nell’ottobre del 2004 e la quarta ed ultima nel gennaio 2019, in occasione del ventennale della prima uscita. In quest’ultimo caso, il Manifesto è stato corredato di una post-fazione scritta da Norbert Trenkle, che includiamo nel presente libro, con il quale in qualche modo proviamo a celebrare, anche in Italia, il ventennale della prima edizione italiana, arricchendola con altri testi.
Da quel primo anno, in cui è stato elaborato e ha preso forma il Manifest, molta acqua è passata sotto i ponti. Si sono succedute – e continuano a succedersi – guerre apocalittiche, movimenti sono nati e morti, emergenze su emergenze si sono avvicendate ed eventi decisivi hanno cadenzato la nostra esistenza. A fare da filo conduttore di tutti questi avvenimenti, solo apparentemente slegati fra loro, un motivo è però rimasto costante: la crisi strutturale del sistema capitalistico, che ha preso forma compiuta in modo inquietante e risoluto – benché già presente in nuce anche prima – almeno dalla fine degli anni ‘70, cioè in coincidenza, non casuale, della fine dei cosiddetti “30 anni gloriosi” e il boom economico che li aveva caratterizzati.
Ma cosa c’entra il “lavoro” con tutto questo? Soprattutto, perché muovergli una “critica” in tempi di crisi, quando molti, anzi, ne lamentano a gran voce la mancanza?
Jacopo Lorenzini: Dalla parte di Nebogatov. Il tranello della geopolitica e il degrado del dibattito sulla guerra
Dalla parte di Nebogatov. Il tranello della geopolitica e il degrado del dibattito sulla guerra
di Jacopo Lorenzini
Nel 1936 lo scrittore tedesco Frank Thiess dà alle stampe un libro destinato ad una duratura fortuna editoriale. Si intitola Tsushima. Il romanzo di una guerra navale. Nelle pagine della sua opera (un romanzo basato su fonti storiche rigorose, prototipo di un genere che proprio oggi conosce una rigogliosa fioritura) Thiess narra della disastrosa spedizione della Flotta russa del Baltico attorno al Capo di Buona Speranza per andare a combattere la flotta giapponese nelle acque dello Stretto di Corea: una spedizione conclusasi con la disfatta di Tsushima, appunto, e con l’umiliazione dell’Impero zarista nella guerra russo-giapponese del 1905.
Ma Thiess trasforma la storia di quello che è stato senza dubbio un disastro politico e militare, in una narrazione epica. Una narrazione che conosce solo eroi, sia tra i marinai russi che tra quelli giapponesi, tutti egualmente degni di rappresentare «il più puro spirito militare». Tutti tranne uno: il contrammiraglio Nikolaj Ivanovič Nebogatov.
Nebogatov è il comandante del terzo squadrone della flotta russa. Il suo contingente è composto da quattro vecchie corazzate, tre delle quali sono unità adatte a malapena per la difesa costiera. Sono navi tecnicamente superate, che lo stesso comandante in capo Rozhestvenskiy considera d’impaccio per il resto della flotta. Durante la battaglia di Tsushima lo squadrone di Nebogatov viene sostanzialmente ignorato dagli ammiragli giapponesi, che condividono la valutazione del collega russo e che lo lasciano da parte, concentrandosi piuttosto sulla distruzione delle più moderne corazzate avversarie.
Piccole Note: Haaretz: la Jihad ebraica e la guerra senza fine di Bibi
Haaretz: la Jihad ebraica e la guerra senza fine di Bibi
di Piccole Note
Gli ebrei apocalittici sono in estasi per la guerra di Gaza, che anche Netanyahu vede come un’opportunità. Dopo Blinken, anche Zelensky in Israele…
“Gli ultranazionalisti ebrei apocalittici sono in estasi” per “l’opportunità” che gli è stata offerta dalla guerra, scrive Uri Misgav su Haaretz. “I loro occhi luccicano. Sono estasiati. Dal loro punto di vista, questi sono i giorni del Messia. La grande opportunità. È parte integrante delle concezioni fondamentaliste, in tutte le religioni. La fede in un’apocalisse, Armageddon, Gog e Magog, come unico mezzo di redenzione”.
La Jihad ebraica contro quella di Hamas
“[…] Nel caso dei sionisti Haredi – prosegue Misgav – si tratta di una doppia fantasia: pieno dominio ebraico su tutta l’area che va dal Mar Mediterraneo al fiume Giordano, in concomitanza con la cancellazione dell’esistenza degli arabi e l’emergere di uno stato halakhico dalle ceneri dell’odierno Israele liberal-democratico” […] Ciò spiega i discorsi su una ‘seconda Nakba‘” e altre derive similari.
Giovanni Dall’Orto: Atteniamoci ai fatti, prego
Atteniamoci ai fatti, prego
di Giovanni Dall’Orto
Fra i mille commenti che hanno invaso i social chiedendo la guerra per salvare la pace, utilizzando la menzogna per salvare la verità, e pretendendo l’annullamento dei Diritti Umani per salvare i Diritti Umani, ne ho scelto uno per la sua chiarezza e semplicità.
Desidero commentarlo per mostrare come spesso il dibattito sembri o risulti infruttuoso perché le premesse e le informazioni in base al quale viene condotto sono, semplicemente, false.
Spesso lo sono per ignoranza (non si può sapere tutto), ma altrettanto spesso per quella forma di informazione intenzionalmente menzognera che si chiama propaganda, e che è connaturata alla guerra.
Il tweet è il seguente (ho cancellato il nome perché è irrilevante, in quanto il mio scopo è denunciare un certo metodo di argomentare, e non mettere alla berlina chicchessia). Eccolo:
“Gaza è stata liberata nel 2005. Dal 2007 Hamas la governa con un governo tutto suo. È uno stato di fatto con un suo esercito. Ora, ha mosso guerra ad Israele, mirando ad obiettivi civili. Guerra che ora subisce. L’unico obbligo di Israele è condurla secondo le leggi di guerra“.
Pierluigi Fagan: Macerie urlanti
Macerie urlanti
di Pierluigi Fagan
Occupandomi di tristi fatti di politica internazionale, morti e ingiustizie abbondano. Data la loro quantità è altamente sconsigliato indugiarvi, quindi non seguo foto, filmati e racconti raccapriccianti anche perché nulla aggiungono alla possibile comprensione. Credo che anche i medici del pronto soccorso sospendano il lavoro dei neuroni specchio e dei centri dell’empatia per svolgere la funzione di riparatori di ultima istanza. Debbono dividere il dolore da ciò che lo provoca per potersi continuativamente dedicarsi a questo.
Ho quindi letto un articolo da cui al titolo per un’altra ragione che non la simpatia umana. L’articolo riferiva delle macerie del centro profughi bombardato due volte dagli israeliani in quel di Gaza nord. I sopravvissuti stanno lì con le sole mani a cercar di togliere un po’ di massi, pietre e polvere per arrivare alle urla strazianti di chi è intrappolato sotto, per lo più invano. Di giorno e peggio di notte, le macerie urlano e piangono di dolore, paura, chiamano aiuto. Voci maschili, femminili, ragazzi, bambine. Se ne sentono sempre meno ma se ne sentono ancora e forse andranno avanti per un po’ come sappiamo da eventi simili, ad esempio terremoti di cui qui da noi c’è una certa esperienza.
Alberto Bradanini: Riflessioni su Guerra, Politica e Pace: un’analisi critica
Riflessioni su Guerra, Politica e Pace: un’analisi critica
di Alberto Bradanini
Il linguaggio politico è progettato per far sembrare vera la bugia, rispettabile l’omicidio e dare una parvenza di solidità al puro vento (G. Orwell)
Possiamo anche non occuparci della guerra, ma è la guerra che si occupa di noi. A seconda dei criteri di riferimento, le guerre possono classificarsi in giuste, opportune e legali, o anche in un intreccio di tali aggettivazioni.
Il criterio della giustizia dipende dall’ideologia o etica di chi lo invoca, possiede un forte contenuto di soggettività e ad esso fa ricorso in chiave giustificativa chi usa la forza militare per combattere una presunta ingiustizia (termine questo anch’esso aperto a un labirinto d’interpretazioni). Il criterio dell’opportunità si caratterizza invece per una forte valenza politica: a un certo punto, secondo il ragionare di alcuni, la guerra emergerebbe come sola risoluzione di contenzioni altrimenti irrisolvibili. Il criterio della legalità, infine, sulla carta appare il meno incerto, il solo che possieda i contorni di una qualche riferibilità oggettiva: per il diritto internazionale, infatti, la guerra diventa legittima in due casi: a) quando è autorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (evento invero assai raro); b) in caso di legittima difesa, ai sensi dell’art. 51 della Carta delle N.U., nel qual caso, per restare nel recinto della legittimità, la reazione deve rispettare i principi di moderazione e proporzionalità.
Sui teatri di guerra, alla violenza militare codificata dal diritto s’accompagna spesso un’altra pratica, il cosiddetto terrorismo, una pratica la cui nozione condivisa è tuttora assente tra le norme internazionali.
Luca Benedini: Effetti culturali dell’economia neoliberista
Effetti culturali dell’economia neoliberista
di Luca Benedini
I pesanti impatti del neoliberismo e della sua intrinseca mentalità patriarcale sulla vita quotidiana delle persone e sulla loro sfera interiore
(prima parte: un intreccio di precarietà e consumismo, con le facilitazioni fornite dalla pesantissima caduta qualitativa della “politica di sinistra” nel ’900)
Ci vuole tempo per amare
E libere menti per amare,
E chi è che ha tempo nelle mani?
– Jorma Kaukonen
dalla canzone Star track, incisa nell’album Crown of Creation (1968), dei Jefferson Airplane
Qui nella Buona-Vecchia-Dio-Salvi-L’America
La patria della gente coraggiosa e libera
Siamo tutti dei codardi, oppressi senza speranza
Da qualche dualità
Da una molteplicità senza posa
– Joni Mitchell
dalla canzone Don Juan’s reckless daughter, incisa nell’album omonimo (1977)
Si è già accennato – nel precedente intervento Il neoliberismo non è una teoria economica [1] – che il neoliberismo tende a trasformare nei fatti la società in una scoordinata aggregazione di persone mosse soprattutto da interessi materiali di tipo egoistico. Ciò innanzi tutto come effetto del fatto che i neoliberisti vedono il mondo come un’arena gladiatoria in cui le élite economiche possono utilizzare e manipolare pressoché a proprio piacimento le altre classi sociali – fino anche, come spesso accade, a logorarle sino allo sfinimento o a sostanzialmente stritolarle – usandole come ingranaggi, servi, oggetti, giocattoli oppure scarti [2]: un’arena in cui ciascuno è spinto ad arrangiarsi per sopravvivere e cavarsela, a titolo individuale o al massimo famigliare. E la realtà sociale degli ultimi decenni mostra che, di fatto, attualmente le élite in questione non solo valutano di poterlo fare, ma solitamente prendono anche in pratica la strada del farlo con grande applicazione….
Ilan Pappé: Il sionismo ideologia razzista di un movimento coloniale
Il sionismo ideologia razzista di un movimento coloniale
di Ilan Pappé
Quella che segue è una conferenza tenuta da Ilan Pappé il 19 ottobre scorso all’università di Berkeley in California (il titolo è nostro). Pappé, attualmente direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeterer nel Regno Unito, è uno storico che ha insegnato all’università di Haifa, dalla quale è stato espulso per le sue denunce del carattere razzista del sionismo e per il suo lavoro di storico che ha documentato in modo inoppugnabile la pulizia etnica della Palestina che i sionisti hanno sempre cercato di occultare attribuendola a cause diverse ma non a una loro deliberata programmazione. Il suo lavoro del 2006 su questo argomento è disponibile anche in italiano (La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore 2008). Sua tra molte altre anche l’opera su Gaza e Cisgiordania, anche questa disponibile in italiano (La più grande prigione del mondo, storia dei territori occupati, Fazi Editore, 2022).
Video originale sotto:
Giacomo Gabellini: Il 7 ottobre e la “crisi di nervi” di Israele
Il 7 ottobre e la “crisi di nervi” di Israele
di Giacomo Gabellini
Uno degli obiettivi cruciali perseguiti da Hamas attraverso l’operazione al-Aqsa Flood sferrata lo scorso 7 ottobre consisteva con ogni probabilità nel produrre una radicale destabilizzazione psicologica della società israeliana, in modo da disintegrare molte di quelle che i comuni cittadini israeliani consideravano alla stregua di certezze granitiche, a partire dall’infallibilità delle forze armate e dell’intelligence israeliana, nelle sue articolazioni del Mossad, dello Shin Beth e dell’Aman. La visione dei carri armati in fiamme, delle decine di mezzi caduti può considerarsi raggiunto, se è vero – come è vero – che con il suo operato da elefante in una cristalleria la classe dirigente di Tel Aviv sta guastando in sotto il controllo delle brigate al-Qassam, di migliaia di coloni in fuga o catturati e brutalizzati e/o assassinati hanno fatto pericolosamente vacillare il mito della invincibilità israeliana.
Sul quale va peraltro proiettandosi un’ombra, se possibile, ancor più inquietante, che emerge da alcune inchieste realizzate da «Haaretz» sulla base di testimonianze dirette rese da cittadini israeliani coinvolti nella vicenda. Tuval Escapa, un membro della squadra di sicurezza del kibbutz Be’eri che aveva istituito una linea di comunicazione diretta con l’esercito israeliano, ha dichiarato al quotidiano israeliano che, nel momento in cui le brigate al-Qassam sono dilagate nei territori limitrofi alla Striscia di Gaza, «i comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili, tra cui quella di bombardare gli edifici occupati dai terroristi, che avevano tuttavia portato con sé decine di ostaggi». Secondo «Haaretz», l’esercito è stato in grado di ripristinare il controllo su Be’eri solo dopo aver ammesso di aver “bombardato” le abitazioni degli israeliani che erano stati fatti prigionieri. «Il prezzo – riporta il quotidiano – è stato terribile: almeno 112 residenti di Be’eri sono stati uccisi».
Francesco Galofaro: Niente di nuovo sul fronte orientale? La scomparsa dell’Ucraina. Editoriale
Niente di nuovo sul fronte orientale? La scomparsa dell’Ucraina. Editoriale
di Francesco Galofaro, università IULM di Milano
Tra gli effetti negativi del conflitto tra Israele e Gaza, vi è senz’altro la scomparsa delle vicende della guerra in Ucraina dai quotidiani e dai TG. La controffensiva sembra aver lasciato il posto a una guerra di posizione, definita “stallo” dal presidente bielorusso Lukashenko, il quale ha sottolineato la necessità di una mediazione tra i contendenti. Parafrasando un grande romanzo, il comunicato “Niente di nuovo sul fronte orientale”, nasconde una crisi della funzione informativa dei media nostrani. Le notizie di agenzia si sono ridotte al minimo, e nessuna di esse è tale da meritare un titolo a otto colonne. Dopo aver occupato per due anni le pagine estere dei principali giornali italiani, la guerra in Ucraina è svanita. Ma si combatte ancora?
In questa situazione, mi sembra interessante fare il punto su alcune notizie della Tass (https://tass.com) che ci permettono di ricostruire il punto di vista russo sul conflitto. Il sito della Tass discute la guerra ucraina in due sezioni distinte: “Crisi ucraina” è dedicata alle novità dal punto di vista della politica internazionale, mentre “L’operazione militare in Ucraina” è dedicata al conflitto sul campo. Inoltre, mi sembra piuttosto interessante il fatto che due sezioni siano dedicate a conflitti deliberatamente dimenticati dai media occidentali: quello siriano e quello tra Armenia e Azerbaijan.
Dante Barontini: Sparare sulla Croce Rossa, il nuovo sport di Israele
Sparare sulla Croce Rossa, il nuovo sport di Israele
di Dante Barontini
Ultim’ora. Il segretario generale delle Nazioni Unite è rimasto “inorridito” dall’attacco delle forze israeliane contro un convoglio di ambulanze a Gaza avvenuto ieri, ha detto in un comunicato, aggiungendo che il conflitto “deve finire”. La Mezzaluna Rossa Palestinese ha riferito che una delle sue ambulanze è stata colpita “da un missile lanciato dalle forze israeliane” a pochi passi dall’ingresso dell’ospedale Shifa di Gaza City.
“Sono inorridito dall’attacco riportato a Gaza contro un convoglio di ambulanze fuori dall’ospedale Al Shifa. Le immagini dei corpi sparsi sulla strada fuori dall’ospedale sono strazianti”, ha detto Antonio Guterres nella dichiarazione.
*****
“Sparare sulla Croce Rossa”, in qualsiasi lingua, è un marchio di infamia indelebile. Il segno che sei da considerare fuori dall’umanità, essere spregevole non solo perché crudele, ma anche ottuso.
Ambulanze e ospedali infatti, obbedendo al cosiddetto “giuramento di Ippocrate”, raccolgono e curano chiunque, a prescindere da età, sesso, appartenenza, “buona o cattiva condotta”, ecc.
Il Chimico Scettico: Fosforo bianco
Fosforo bianco
di Il Chimico Scettico
Dedicai un ciclo di post alle armi chimiche (https://ilchimicoscettico.blogspot.com/search/label/Armi%20chimiche) e me lo ricordo come una serie di post accolti con un misto di interesse, orrore (giustificatissimo) e disgusto (sacrosanto).
L’arma chimica è più presente nell’immaginario contemporaneo di quella biologica e ormai anche più di quella nucleare. Da diversi anni il suo ruolo è quello di arma di distruzione di massa del “poveri” (e da molti anni i “poveri” sono “il nemico”). E per questo sono diventate un oggetto retorico e per un lungo periodo uno degli strumenti favoriti della propaganda. Per questo motivo nel tempo le armi chimiche erano diventate un topic generatore di infinite cazzate sui media e su isocial, quando era opportuno, cioè quando si diceva che i tizi cattivicattivi le avevano usate. Questo cominciò seriamente con la guerra in Siria, il moderno prototipo delle guerre per procura. dai più dimenticato – eppure c’era tutto, e continuo a chiedermi: ma quei forni crematori di Assad, che fine hanno fatto? Rimasti lì come una delle tante cose che non conviene smentire o ritrattare, tanto tutto fa? Per me è stata una delle più smaccate e sfacciate operazioni di guerra mediatica, tipo un upgrade della fialetta con la polvere bianca agitata da Colin Powers all’ONU per dire “Hanno l’antrace!”.
Francesco Saraceno: Le lezioni dell’inflazione per la politica economica
Le lezioni dell’inflazione per la politica economica
di Francesco Saraceno
Francesco Saraceno mette in discussione il luogo comune secondo cui l’inflazione può e deve essere contrastata solo con la politica monetaria e sostiene che, soprattutto quando l’inflazione ha radici in squilibri dal lato dell’offerta, come è accaduto con (e dopo) il Covid e con la guerra in Ucraina, bisogna andare “oltre le banche centrali”, come recita il titolo del suo ultimo libro. Ciò che occorre, in questi casi, è un insieme ben disegnato di strumenti di politica economica, tra loro coordinati
Dopo la crisi finanziaria globale, quella del credito sovrano e la pandemia, quest’epoca turbolenta ci ha portato in dote l’inflazione dell’ultimo biennio, un fenomeno che le generazioni nate dopo il 1970 non avevano mai sperimentato; anzi, gli anni Duemila Dieci sono stati caratterizzati da una difficile lotta delle banche centrali contro la tendenza deflazionistica dell’economia.
Un’inflazione strutturale. L’inflazione ha iniziato ad aumentare nell’estate del 2021. Dopo i lockdown si è assistito a una ripresa robusta di consumi e investimenti mentre in molti settori l’offerta, disarticolata dalla pandemia, stentava a ripartire.
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