Giacomo Marchetti: La crisi del Modo di Produzione Capitalistico e la Rivoluzione in Occidente
La crisi del Modo di Produzione Capitalistico e la Rivoluzione in Occidente
di Giacomo Marchetti
Nel quadro dell’annuale Fête de l’Association National des Communistes si è svolto il dibattito “Di fronte alla militarizzazione dell’economia globale, come lottare per la pace e il progresso sociale?” con gli interventi di Charles Hoareau (ANC de France), Saïd Bouamama (Rassemblement Communiste), Marie-Josée Ngomo e Mariam Bah (Dynamique Unitaire Panafricaine). Un dibattito ricco, interessante e proficuo sul ruolo dei comunisti nella nuova fase della competizione internazionale e di crisi dell’egemonia dell’imperialismo occidentale. Di seguito l’intervento di Giacomo Marchetti (Rete dei Comunisti).
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Nell’agosto del 2021, commentando la precipitosa fuga dell’Occidente dall’Afghanistan, scrivevamo nell’editoriale del nostro quotidiano Contropiano.org: «I talebani hanno vinto, le potenze occidentali hanno perso. Gli sconfitti si portano dietro quel sistema di relazioni, ormai oggettivamente indebolite, che aveva caratterizzato la fine del mondo bipolare.
Perde quindi un mondo che aveva scommesso sul complesso militar-industriale e le “guerre infinite” come motore principale di sviluppo – tagliando sul Welfare e aumentando il Warfare – in una mutazione castrense e poliziesca della funzione dello Stato. Gli USA avevano pensato che quel meccanismo inaugurato di fatto dalla Reagan-Economics, con la corsa agli armamenti contro l’Unione Sovietica, avrebbe pagato all’infinito.
Un mondo che, come riflesso culturale indotto, non si accorgeva che oltre il suo Limes mentale un paese della periferia integrata – la Cina – stava diventando “la fabbrica del mondo” di prodotti ad alto valore aggiunto, mentre la Russia cessava di essere una “potenza regionale”, come la definì Obama in maniera quasi spregiativa, per diventare un global player cui non è conveniente pestare i piedi».
Mario Reale: La fede nella ragione critica ed emancipativa nel lavoro di Stefano Petrucciani
La fede nella ragione critica ed emancipativa nel lavoro di Stefano Petrucciani
di Mario Reale
Una riflessione di Mario Reale sul pensiero e la ricerca di Stefano Petrucciani in questi anni di attività accademica. Discorso tenuto presso il dipartimento di Filosofia della “Sapienza” in Roma il 14 novembre 2023. Il presidente di Filosofia in Movimento traccia un profilo intellettuale del filosofo e studioso romano
Il primo libro di SP (Stefano Petrucciani) dal titolo Ragione e Dominio. Autocritica della razionalità occidentale in Adorno e Horkheimer, Salerno Editrice, 1984, meriterebbe senz’altro, a quarant’anni esatti dalla sua uscita, una seconda edizione. Anzitutto perché, con padronanza dei testi e della letteratura critica, vi si esamina, in una sorta di amplissimo commento a Dialettica dell’illuminismo, la prima opera a quattro mani dei due fondatori della «scuola di Francoforte», e quindi perché vi sono chiamati in causa e discussi con acutezza, molti e impegnativi autori rilevanti per il tema prescelto: da Hegel e Marx, a Schopenhauer, Nietzsche e, con particolare cura, Lukàcs. Ma, più ancora, il testo si raccomanda per la maturità e novità dell’interpretazione che, per illustrare un’originale tesi circa la critica all’illuminismo dei due autori, si serve di tutte le possibili risorse della «razionalità occidentale», nella convinzione che mai dalla ragione – né sembri una cosa ovvia – si possa uscire, e che per «ragione» debba intendersi uno strumento critico e d’intrinseca ricchezza, come già in nuce nel pensare-dire di Aristotele in Metafisica IV, 4, quasi alle origini della tradizione del pensiero nato in occidente e che Kant riconosceva ancora necessariamente nostro. Da ogni immersione critica la ragione sembra riemergere quasi chiedendo una nuova definizione, poiché esce rafforzata ogni volta che, conoscendo il mondo, allarga altresì la sua forza e la consapevolezza di sé.
La ragione è una realtà che si mantiene, per quanto forti siano le critiche che possano esserle rivolte, e che debbono essere di necessità risolte per SP in auto-obiezione, in un movimento che va entro di sé, per uscirne più avvertito e vigoroso.
Nicola Lamri: Una guerra senza vie d’uscita
Una guerra senza vie d’uscita
di Nicola Lamri
Per cogliere il senso dell’attacco del 7 ottobre e del conflitto attuale come scontro dentro uno stato segregazionista, bisogna incrociare le mappe con il territorio, considerare i flussi demografici, tenere presente il modello coloniale
«La mappa conta», ricordano Christine Leuenberger e Izakh Schnell in un recente saggio incentrato sulla sfida cartografica posta dal conflitto israelo-palestinese. La mappa conta poiché contribuisce a imporre l’immagine, altrimenti intangibile, della nazione. Essa conta, poiché fonda l’unione della carta e del territorio, del piano della rappresentazione e di quello reale, conditio sine qua non per l’esistenza della comunità immaginata, all’interno della quale il popolo di una nazione moderna diviene pensabile. La mappa conta poiché è uno strumento politico, che tradisce lo sguardo di un’epoca sulla realtà circostante. «L’arte di irrigidire la vita in un sistema di segni», per dirla con Franco Farinelli, è il presupposto per qualsiasi interpretazione esaustiva dei fatti del mondo.
A ogni intensificazione degli attacchi israeliani contro le popolazioni palestinesi, torna a circolare online una mappa stilizzata, volta a illustrare il processo di progressiva espansione territoriale dello Stato ebraico a scapito di quello arabo. Ne esistono varie versioni, ma una delle più popolari è la carta in cui la sorte della Palestina viene comparata a quella dei nativi americani. Come nel caso delle popolazioni indigene dell’America settentrionale, si legge fra le righe, i palestinesi sarebbero destinati a finire nelle riserve.
Illusione ottica
Da qualche tempo, la visione della mappa rappresentante le «Palestinian lands», ridotte progressivamente a una serie di enclaves territoriali, circondate dalle ben più omogenee «Israeli lands», è fonte per me di turbamento.
Geminello Preterossi: La riforma e le vedove del pilota automatico
La riforma e le vedove del pilota automatico
di Geminello Preterossi
Il governo ha presentato un disegno di legge di revisione costituzionale stringato, centrato su quattro articoli (59, 88, 92, 94), che riguardano alcuni punti nevralgici della forma di governo: la modalità di legittimazione del presidente del Consiglio, i poteri del presidente della Repubblica, il rapporto tra i due presidenti e quelli di entrambi con il Parlamento. Subito si è levato un coro di proteste e di analisi critiche, le quali hanno messo giustamente in luce gli aspetti problematici del progetto: l’unicum di un capo del governo eletto dal popolo, cioè di un presidenzialismo tutto “esecutivo”, in assenza di un vero e proprio presidenzialismo all’americana, o alla francese, oltre che dei necessari contrappesi.
Ritengo però che tali critiche, pur corrette, tendano a ignorare l’elefante nella stanza (delle riforme). A mio avviso il progetto si propone soprattutto di ridimensionare il ruolo del presidente della Repubblica, senza però affrontare di petto la questione, anzi in qualche modo aggirandola. Ovvero che da più di dieci anni viviamo di fatto in un regime semipresidenziale strisciante, ma senza legittimazione democratica diretta.
Giorgio Paolucci: Sull’ultimo vertice dei Brics
Sull’ultimo vertice dei Brics
di Giorgio Paolucci
Per evitare che il pianeta diventi “il grande cimitero dell’umanità”
non basta abbattere la dittatura del dollaro,
occorre farla finita con il capitalismo
“Quando un paese dotato di un esercito potente
e grandi riserve di oro cominciava a dedicarsi
alla costruzione di imperi di facili fortune
con cui alimentare il proprio benessere domestico,
esso segnava inevitabilmente l’inizio
del proprio declino” (Ron Paul – Sen. Usa )¹
È ancora presto per capire se il vertice dei paesi Brics (Brasile, Russia, Cina e Sudafrica) che si è tenuto a Johannesburg dal 22 al 24 agosto scorso passerà alla storia come la data simbolo della fine del cosiddetto secolo americano, ma non c’è dubbio che sia destinato a imprimere un forte accelerazione al declino dell’impero a stelle e strisce.
Alfonso Gianni: Il rating dell’Italia salvato dai pensionati
Il rating dell’Italia salvato dai pensionati
di Alfonso Gianni
Il duo Meloni-Giorgetti tira per ora un sospiro di sollievo. L’Italia è passata sotto le forche caudine del rating (ovvero della valutazione) delle maggiori agenzie, Standard & Poor’s, Dbrs Morningstar, Fitch e Moody’s, sostanzialmente incolume, anzi con qualche miglioramento. Infatti il giudizio di Moody’s sul debito pubblico italiano, giunto nella serata di venerdì scorso, a mercati chiusi, non si limita a confermare il dato precedente, ma cambia in meglio l’outlook, ovvero la previsione sull’andamento futuro, portandolo da “negativo” a “stabile”. Intendiamoci, di per sé non è gran cosa. Si pensi, tanto per fare un esempio, che nella stessa seduta l’agenzia statunitense ha fatto fare un balzo alla valutazione sul Portogallo, portando il rating di due gradini avanti, da “Baa2” a “A3”, sebbene quel paese si avvii alle elezioni anticipate, solitamente fattore di instabilità (a pensar male si potrebbe dire, proprio per questo, dato che a dare le dimissioni è stato il primo ministro socialista Antonio Costa: quasi un’eccezione in questa Europa).
Silvia Ingusci: Il ritorno di Kevin Spacey
Il ritorno di Kevin Spacey
di Silvia Ingusci
Le sporadiche volte in cui, negli ultimi anni, Kevin Spacey è apparso in pubblico sono sempre state, per me, un’occasione per chiedermi a quanto siamo disposti a rinunciare in termini culturali e artistici per mettere a tacere, se pure momentaneamente, il senso di colpa nei confronti delle vittime della violenza di genere.
Kevin Spacey è uno dei migliori interpreti della sua generazione e dal 2017, da quando cioè l’attore Antony Rapp lo accusò per primo di aver subito molestie sessuali a quattordici anni (Spacey all’epoca ne aveva ventisei), non partecipa più a nessuna produzione – anzi, è stato letteralmente licenziato in tronco da quelle che aveva in corso non appena emersero le accuse. Quando provò a difendersi, dopo essersi scusato pubblicamente con Rapp per il proprio comportamento di allora, lo fece con una dignità rara, interpretando – per l’ultima volta, finora – il suo iconico personaggio di Frank Underwood: respinge le accuse che lo coinvolgono e chiede agli spettatori di «non correre alle conclusioni senza prove o formulare un giudizio senza fatti» e, con piglio spiccatamente underwoodiano, sfonda la quarta parete per dire a tutti che non intende pagare per azioni che non ha commesso.
Enrico Tomaselli: Palestina: strategie a confronto
Palestina: strategie a confronto
di Enrico Tomaselli
Proviamo a indagare l’attuale fase del conflitto israelo-palestinese sotto il profilo strettamente militare: le strategie, le tattiche, le scelte fatte – e le condizioni oggettive – di una guerra in cui comunque interagiscono, direttamente o indirettamente, molti attori, ciascuno con i propri interessi e le proprie esigenze. Proprio per ciò, un puzzle complicato da risolvere.
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In ogni conflitto non c’è solo lo scontro tra forze militari. Ci sono sempre (questo anche prima) due strategie che si confrontano. E se, come ci ricordava von Clausewitz, la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi, allora queste strategie non sono mai esclusivamente militari.
Il parlare di strategie, però, implica l’idea che ci sia un disegno, un piano, che tenga insieme degli obiettivi da conseguire con le mosse necessarie per conseguirli. Il che, a sua volta, comporta che vi sia un prevalere del calcolo razionale, rispetto al dato emotivo, che pure è ineludibile.
La prima cosa da chiedersi, dunque, è se vi siano effettivamente strategie che si stanno confrontando, nell’ambito del conflitto israelo-palestinese, così come esso si è andato delineando dal 7 ottobre in avanti. E, solo successivamente, se è il caso, indagarle.
Ora, in un conflitto così lungo (quasi secolare) e così aspro, è ovvio che vi siano componenti che affondano le proprie radici nei sentimenti e nelle emozioni; il dolore, la nostalgia, la rabbia, la paura, l’odio. Quindi, non possiamo aspettarci di non trovarne traccia, da ambo le parti. Si tratta piuttosto di capire in quale misura tutto ciò agisca nel determinare le scelte degli uni e degli altri.
Paolo Arigotti: Il complesso militare e industriale degli Stati Uniti (e dell’Europa)
Il complesso militare e industriale degli Stati Uniti (e dell’Europa)
di Paolo Arigotti
Il segretario di stato (leggi, ministro degli Esteri) degli USA, Anthony Blinken, ha tenuto lo scorso 13 settembre un discorso alla John Hopkins School of Advanced International Studies[1], considerato uno dei “templi” della strategia a stelle e strisce, nel quale, pur ribadendo l’avversione dell’Amministrazione Biden nei confronti della Russia, ha confermato che la maggiore sfida alla leadership (o dominio, se preferite) politica, economica e militare degli States è rappresentata, specie nel lungo periodo, dalla Cina; tenuto conto del livello di “autonomia” del quale godono gli “alleati” di Washington (pensiamo solo a Giappone o Europa, Italia in primis) è ovvio che questo messaggio rappresenta una sorta di “direttiva” non ufficiale per tutte le “province” dell’impero.
In sostanza, il cambio di “colore” dell’Amministrazione statunitense non sembra aver inciso più di tanto sull’orientamento politico di Washington, che già al tempo di Donald Trump aveva individuato nella Repubblica popolare il principale avversario, forse l’unico in grado di tenere testa e/o contrastare, per lo meno nel lungo periodo, i disegni egemonici di Washington e scardinare quella sorta di unipolarismo scaturito dalla fine della guerra fredda.
La potenza americana deriva innanzitutto da quella militare. Le forze armate USA sono stanziate in circa 170 paesi sparsi per l’intero globo, e sono almeno 76 gli stati che ospitano le circa 642 basi presenti nei quattro angoli del mondo[2]; per la cronaca nella nostra penisola le basi NATO sono 120, cui se ne aggiungerebbe una ventina di non ufficiali[3]. Gli Stati Uniti surclassano nettamente il resto del pianeta anche per quanto concerne la spesa militare: nel 2022 il budget di Washington ha toccato gli 876 miliardi di dollari, cifra da sola equivalente a quella stanziata da undici tra le più grandi nazioni: Cina, Russia, India, Arabia Saudita, Gran Bretagna, Germania, Francia, Corea del sud, Giappone, Ucraina e Canada.
Ruba Salih: Gaza. Disumanizzazione e ottimismo della disperazione
Gaza. Disumanizzazione e ottimismo della disperazione
di Ruba Salih
Solitamente odiamo i silenzi ingombranti, quelli dei momenti dove una conversazione incespica e uno iato riempie goffamente lo spazio. Naturalmente facciamo ciò che possiamo per evitarli. Tuttavia, questo non è il caso di Gaza. Qui amiamo il silenzio, perché significa una pausa dalla morte e distruzione. Finché non è brutalmente rotto di nuovo dal rumore dei missili, che fanno traballare le nostre case e danzare i nostri cuori di paura… La scorsa notte siamo rimasti tutti nelle nostre stanze, ma mentre i bombardamenti divenivano sempre più fuori controllo e frequenti, abbiamo deciso di stare tutti insieme in una stanza nel mezzo della casa. Quella notte nessuno ha dormito fino all’alba. Alcune notti passano e finalmente il bombardamento si ferma. Ma la distruzione ha lasciato un segno di morte nei cuori della mia famiglia. Una parte significativa della nostra storia è stata ora distrutta. So che molti altri residenti di Gaza hanno sofferto molto di più. Le bombe hanno distrutto molte vite, molti sono diventati orfani, intere famiglie sono state distrutte e alcuni sono ancora sepolti sotto le loro case, mentre altri sono stati bombardati mentre fuggivano, in strada. Alcuni sono rimasti amputati e menomati. Chi è sopravvissuto ha perso una parte della sua anima…
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Le parole di Yusef Maher Dawas, tratte dal sito We are not numbers di cui è stato fondatore, raccontano del bombardamento israeliano a Gaza, a cui è sopravvissuto nel maggio 2022. Yusef è morto insieme a numerosi membri della sua famiglia quando la sua casa a Beit Lahia è stata bombardata il 14 ottobre 2023.
Paolo Bartolini: L’epoca dell’intranquillità. Un libro per l’azione
L’epoca dell’intranquillità. Un libro per l’azione
di Paolo Bartolini
È da poco uscito, per l’editore Vita e Pensiero, un ottimo volume scritto a quattro mani: L’epoca dell’intranquillità. Lettera alle nuove generazioni di Miguel Benasayag e Teodoro Cohen. Il filosofo e psicoanalista di origine argentina, insieme a un giovane amico impegnato nel collettivo Malgré Tout, ci consegnano un’agile riflessione sull’impegno culturale e politico nell’epoca oscura che stiamo vivendo. Forse più che una lettera alle nuove generazioni, siamo di fronte a un invito pubblico affinché gli adulti gettino dei ponti per riaprire il dialogo con i giovani, coinvolgendoli e lasciandosi coinvolgere in un processo comunicativo bidirezionale. L’apparato filosofico sotteso alle argomentazioni degli autori è, difatti, tanto affascinante quanto lontano dalle conoscenze e dal linguaggio comune dei ragazzi. In altre parole, questo testo è davvero importante per chi, come lo scrivente, ha più di quarant’anni e frequenta da tempo i tragitti del pensiero critico. Difficile credere, invece, che giovani e giovanissimi, presi nella rete di una pervasiva spettacolarizzazione e virtualizzazione dell’esistenza, siano dotati dei mezzi per comprendere a pieno tutte le sfumature presenti in queste pagine. Il tentativo dei nostri autori è comunque sincero e potrebbe agganciare le istanze critiche che si muovono, principalmente, nel circolo dei giovani attivisti ecologisti, interessati ai diritti di genere e alla difesa del territorio.
Elena Basile: Le mie sei domande rivolte alla Dottoressa Gruber
Le mie sei domande rivolte alla Dottoressa Gruber
di Elena Basile*
“C’è un diffuso malcontento nella società civile e l’impressione che non sia più possibile analizzare gli eventi di politica internazionale con strumenti culturali idonei approfondendone le cause storiche. Nelle democrazie occidentali nelle quali la libertà di pensiero e di espressione sono pilastri della società liberale, si ascolta lo stesso catechismo, gli stessi slogan sono ripetuti sui media europei. Chi non si conforma rischia di essere criminalizzato, isolato e linciato.” Come l’AntiDiplomatico è per noi un grande onore poter rilanciare questo testo, queste 6 domande essenziali rivolte alla giornalista di La 7, Lilli Gruber, da parte dell’ex ambasciatrice Elena Basile.
Buona lettura.
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Gentilissima Dott. ssa Gruber,
vorrei rivolgerle alcune domande che mi sono state indirizzate da molti cittadini italiani sui social media. Sono seguita su FB e altri social in quanto ex Ambasciatrice in grado di avere un pensiero non dipendente dalla narrativa occidentale, a volte di aspra critica alla politica degli ultimi decenni degli Stati Uniti e della NATO.
Sergio Scorza: Bagatelle per un genocidio
Bagatelle per un genocidio
di Sergio Scorza
Stasera ho rimosso dalle mie amicizie fessbucchiane una illustre filosofa e uno scribacchino eccentrico e presuntuoso.
Ambedue, dal 7 ottobre scorso, sono in preda a un incontenibile delirio allucinatorio veementemente filo-israeliano, prigionieri di una deriva egomaniacale di cui, tuttavia, ebbi qualche sentore anche prima che cadessero in questo stato di confusione emotiva e mentale.
A titolo meramente esemplificativo, vi cito, di seguito, solo uno dei post che uno dei due tromboni in questione ha scritto, appena qualche giorno fa, sulla sua bacheca: “tutte queste cose che dicono – la colonizzazione, la nakba e il ’48, il sionismo, Balfour, eccetera – sono bagatelle per un massacro”. Incommentabile sciocchezza.
Alla filosofa “di sinistra”, nonché garbata docente universitaria, la quale, nel corso di un talk, ha affermato che non si può usare la parola “genocidio” riferendosi alla gigantesca carneficina di inermi civili in corso di svolgimento a Gaza, pena “svuotare la parola stessa di significato“, faccio semplicemente presente che, alla data del 15 novembre (“ieri”, quando scrivo), 11.500 palestinesi sono stati uccisi nei bombardamenti israeliani dall’inizio del “conflitto”. Tra i decessi registrati finora ci sono 4.710 bambini e 3.160 donne.
Luca Busca: Mai discutere con un idiota, ti porta al suo livello e ti batte con l’esperienza
Mai discutere con un idiota, ti porta al suo livello e ti batte con l’esperienza
di Luca Busca
All’ennesimo femminicidio contro l’indignazione generale si sono levati gli eroi della polemica da tastiera, tra cui eccelle, al grido di “anche le donne sono cattive”, il Prof. Amadori, scelto dal Ministero dell’Istruzione e del Merito per coordinare il progetto sulle relazioni tra maschi e femmine nelle scuole. Sulla scia dell’insigne e competente esperto, orde di barbari sono insorte contro la colpevolizzazione del maschio latino.
C’è chi si è fatto forte delle statistiche che vedono le vittime di femminicidio ammontare a un irrilevante 0,00000X per cento delle donne italiane. Percentuale non troppo distante da quella di poveri maschi e disgraziati figli, per lo più neonati, uccise da mogli e madri indegne. Qualcun altro ha citato tutti quei poveri maschi penalizzati da divorzi con mogli infedeli e ingorde li hanno messi sul lastrico (indubbiamente non pochi).
Gli idioti della polemica tendono a portarti al loro livello e a batterti con la loro esperienza nell’omettere, un po’ come tende a fare il mainstream con le due guerre in atto.
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