Ascanio Bernardeschi: Nel mondo “democratico” uno Stato sempre più autoritario
Nel mondo “democratico” uno Stato sempre più autoritario
di Ascanio Bernardeschi
La pulsione presidenzialistica di questo governo non è sorprendente perché rientra nel disegno di portare a termine il processo di attuazione del “piano di rinascita democratica” di Licio Gelli. Tutte le altre indicazioni sono state realizzate nel tempo dai governi sia di centrodestra che di centrosinistra: il concentramento in mani sicure dei grandi media, il sistema elettorale maggioritario, l’eliminazione o lo snaturamento dei grandi partiti di massa, la deriva corporativa dei maggiori sindacati, lo stesso cambiamento della natura della Repubblica, ridotto a uno Stato minimo di tipo ottocentesco che rinuncia a intervenire nel governo dell’economia, o meglio torna a essere il comitato d’affari della borghesia intervenendo sì, ma solo per redistribuire la ricchezza e il potere a favore del capitale. Insomma si è avuto lo stravolgimento della nostra costituzione materiale e di buona parte di quella formale. La legge viene scritta in funzione del “diritto” del Governo a governare e non, come invece dovrebbe, della garanzia contro lo strapotere del Governo. Le opposizioni vengono marginalizzate insieme al ruolo del Parlamento. Pertanto si tratta di un progetto pericoloso e da contrastare con ogni mezzo perché comporta l’ulteriore abbattimento dei già ridottissimi spazi di partecipazione delle classi lavoratrici e una nuova compressione della stessa democrazia.
Prima di analizzare il le cause strutturali di queste trasformazioni sovrastrutturali è opportuno dare un’occhiata al senso della proposta del Governo Meloni. Intanto un elemento non secondario di gravità è sul piano del metodo che segna una torsione di tipo autoritario: la Costituzione, cioè il patto fondativo della nostra Repubblica fra diverse forze antifasciste, verrebbe a essere cambiato profondamente non attraverso un nuovo patto ma su proposta di un governo installatosi a seguito di una legge elettorale che gli ha conferito una larga maggioranza parlamentare pur non godendo esso della maggioranza assoluta dei consensi.
William Van Wagenen: Il 7 ottobre è stato un massacro di Hamas o di Israele?
Il 7 ottobre è stato un massacro di Hamas o di Israele?
di William Van Wagenen
La controversa politica militare di Israele di uccidere i propri cittadini per preservare la sicurezza nazionale potrebbe essere l’errore determinante del 7 ottobre. Ci sarebbe stato un “massacro” quel giorno se Israele non avesse adottato la Direttiva Annibale?
Recentemente si è tenuta una cerimonia di addio per la dodicenne Liel Hezroni, una ragazza israeliana del Kibbutz Be’eri morta durante l’operazione militare Al-Aqsa guidata da Hamas il 7 ottobre. Non c’è stata alcuna sepoltura tradizionale, ma solo una cerimonia, perché il suo corpo non è mai stato ritrovato.
Inizialmente i funzionari israeliani affermarono che quel giorno la resistenza palestinese uccise 1.400 israeliani, di cui 112 a Be’eri. Sebbene Liel sia morta nel “ giorno più buio di Israele ”, nessun funzionario governativo ha partecipato alla cerimonia di addio per offrire le condoglianze alla sua famiglia. Né il governo israeliano ha indagato sulla sua morte né ha detto ai suoi parenti come è morta.
Questo perché Leil probabilmente non è stata uccisa da Hamas, ma dall’esercito israeliano.
Liel è morta quando le forze militari israeliane hanno sparato due colpi di carro armato contro una casa a Be’eri che eranno tenuti 15 ostaggi israeliani dai 40 combattenti di Hamas che li avevano fatti prigionieri.
Yasmin Porat, 44 anni, è uno dei due israeliani sopravvissuti all’incidente. È rimasta con Liel e altri ostaggi per diverse ore nella casa, sorvegliata, dice, da combattenti che li trattavano “umanamente” e il cui “obiettivo era rapirci e portarci a Gaza. Non per ucciderci.
La rivelazione bomba di Porat è stata che quando le forze israeliane sono arrivate, “hanno eliminato tutti, compresi gli ostaggi”, ha detto alla emittente israeliana Kan una madre di tre figli . “C’è stato un fuoco incrociato molto, molto pesante.”
Gianfranco Pala: Lo sviluppo economico capitalistico e la guerra
Lo sviluppo economico capitalistico e la guerra
di Gianfranco Pala
In memoria di Gianfranco Pala, ex docente di Economia alla Sapienza di Roma e deceduto il 14 di questo mese, si intende ricordarlo con la pubblicazione di un suo articolo sullo sviluppo economico capitalistico e la guerra, scritto nel 2005, 18 anni fa. Nonostante alcuni riferimenti ovviamente datati, l’analisi si presenta nella sua difficile ma pregnante attualità. In un presente perennemente dilaniato da crisi economica e guerre – al momento non si sa se potenzialmente estensibili a teatri bellici più ampi – un’analisi marxista che riconduce alle cause e agli obiettivi di un sistema che domina il mercato mondiale, può reindirizzare una riflessione generale che per lo più induce alla povertà ideologizzante della comunicazione mainstream. Il frastuono e l’emotività che la violenza bellica fa emergere non deve limitare, o peggio impedire, la comprensione razionale di chi guadagna sulla distruzione e morte altrui, del potere e delle istituzioni mondiali che presiedono al potere economico sempre nascosto, ma operante, dietro gli schermi da lui creati in apparente autonomia [Carla Filosa]
* * * *
N.B.: La guerra è sviluppata prima della pace:
modo in cui attraverso la guerra e negli eserciti, ecc.,
determinati rapporti economici come lavoro salariato, macchine, ecc.,
si sono sviluppati prima che all’interno della società borghese.
Anche il rapporto tra forze produttive e scambio
diviene particolarmente evidente nell’esercito.
[Karl Marx, Lf, q.M, f.21]
Marx, in conclusione dell’inedita Introduzione del 1857, lasciata nei manoscritti dedicati ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, al primo punto di un “notabene: alcuni punti che sono da menzionare qui e non devono essere dimenticati” pose la questione della <guerra> (riportata nell’esergo qui posto a mo’ di occhiello).
Fabrizio Poggi: I tabù di ‘Il Fatto quotidiano’ sulla guerra in Ucraina
I tabù di ‘Il Fatto quotidiano’ sulla guerra in Ucraina
di Fabrizio Poggi
A Kiev è un ininterrotto viavai di ministri, commissari europeisti, cancellieri e presidenti, preoccupati per la situazione in Ucraina, sia al fronte che in casa; premier e presidenti del consiglio spiattellano ormai in faccia al mondo di non poterne più di mandare soldi e armi ai ras di un regime che, in vista della fine, tirano a “far ciccia” e intascarsi ogni ben di dio.
Ma in Italia c’è invece chi, “dati alla mano”, si intestardisce a dimostrare che “no”, là “al fronte le forze russe sono messe proprio male”, “le perdite si contano a centinaia di migliaia di uomini” e decine di migliaia di mezzi corazzati e blindati.
Anzi, a dirla tutta, la “democrazia ucraina” godrebbe come non mai di ottima salute ed è meglio gettare alle ortiche la propaganda russa su una nuova majdan, un nuovo golpe che defenestrerebbe il nazigolpista-capo Vladimir Zelenskij, ormai diventato un peso anche per i padrini occidentali.
Al contrario, «Nella guerra di invasione dell’Ucraina, il governo russo si è impegnato strenuamente a nascondere il vero bilancio delle vittime».
Piccole Note: Gaza. La tregua e le domande sull’ospedale al Shifa
Gaza. La tregua e le domande sull’ospedale al Shifa
di Piccole Note
Tregua di 4 giorni a Gaza, tensioni fra ultradestra e parenti degli ostaggi israeliani. I misteri dell’ospedale al Shifa e la guerra delle notizie
Iniziata la tregua tra Israele e Hamas, Gaza tira un sospiro di sollievo. Netanyahu ha dichiarato che la guerra riprenderà alla scadenza, cioè tra quattro giorni, ma la diplomazia può tentare di prolungare e magari elaborare un Endgame alla mattanza che si sta consumando nella Striscia.
Knesset: l’ultradestra contro la tregua e la lite con parenti degli ostaggi
I partiti dell’ultradestra hanno votato contro la pausa del conflitto, ma d’altronde avevano già tentato di mandare all’aria i negoziati in tutti i modi, in particolare portando alla Knesset un disegno di legge che condannava a morte i rapitori, contro il quale si sono scagliati i familiari degli ostaggi perché condannava a morte i loro cari.
Ne è nata una lite furibonda tra gli esponenti dell’ultradestra e questi ultimi, con scene alquanto disgustose, come hanno sottolineato diversi giornali israeliani.
Mario Lettieri e Paolo Raimondi: Usa: gli interessi sul debito superano le spese militari
Usa: gli interessi sul debito superano le spese militari
di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Le guerre e gli scontri geopolitici in corso hanno oscurato certe preoccupanti tendenze economiche negli Usa e anche nel resto del mondo. Non hanno cancellato le realtà. Basti osservare attentamente gli andamenti finanziari di oltre oceano.
L’agenzia di stampa Bloomberg News stima che a fine ottobre 2023, il pagamento degli interessi sul debito pubblico federale, calcolato su 12 mesi, ha raggiunto circa 1.000 miliardi di dollari. Il livello annualizzato degli interessi pagati è raddoppiato rispetto alla fine di marzo 2022.
E’ l’effetto combinato del Quantitative Easing e dell’immissione di liquidità, con i quali la Federal Reserve ha sostenuto il sistema durante la crisi pandemica, e poi con i successivi aumenti del tasso di sconto per contenere l’inflazione, prodotta in parte proprio dal QE.
Il governo americano pagherà più interessi sul debito anche rispetto alle già stratosferiche spese militari!
Nell’anno fiscale 2023, che è terminato il 30 settembre, il deficit di bilancio è stato di 1.700 miliardi di dollari, un aumento di 320 miliardi, cioè il 23% in più rispetto a quello dell’anno fiscale precedente.
Scott Ritter: La soluzione a due Stati e l’opzione nucleare di Israele
La soluzione a due Stati e l’opzione nucleare di Israele
di Scott Ritter – consortiumnews.com
Un nuovo Stato palestinese non potrà mai essere libero finché il suo vicino, Israele, possiederà armi nucleari
Il 25 ottobre, il giorno prima dell’attacco a sorpresa di Hamas contro Israele e la successiva rappresaglia israeliana su Gaza, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden aveva dichiarato in un discorso televisivo che, per quanto riguarda le relazioni tra Palestina e Israele, “non si può tornare allo status quo del 6 ottobre“.
Le parole di Biden avevano fatto eco a quelle del segretario di Stato, Antony Blinken, che, il giorno prima, aveva dichiarato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che non ci sarebbe stata pace in Medio Oriente se il popolo palestinese “non avesse realizzato il suo legittimo diritto all’autodeterminazione e a un proprio Stato“.
Blinken aveva dato seguito a questa dichiarazione il 3 novembre, affermando in conferenza stampa che gli Stati Uniti erano impegnati in una soluzione a due Stati per gli Stati israeliani e palestinesi. “La migliore strada percorribile, anzi l’unica, è la soluzione dei due Stati“, aveva dichiarato Blinken. “L’unico modo per porre fine al ciclo di violenza una volta per tutte“.
Giorgio Agamben: Sui vantaggi di non essere ascoltati
Sui vantaggi di non essere ascoltati
di Giorgio Agamben
Inattuale è innanzitutto quella parola che si rivolge a un pubblico che in nessun caso potrà riceverla. Ma proprio questo definisce il suo rango. Se un libro che si rivolge solo ai suoi lettori deputati è poco interessante e non sopravvive al pubblico cui era diretto, il prezzo di un’opera si misura invece proprio dalla temerarietà con cui interpella coloro che non potranno accettarla. Profezia è il nome di questa speciale temerarietà, destinata a restare inaudita e illeggibile. Ciò non significa che essa conti di essere un giorno – per ora lontano – riconosciuta: un’opera resta viva solo finché vi sono lettori che non possono accettarla. La canonizzazione, che rende obbligatoria la sua accettazione, è infatti la forma per eccellenza del suo deperimento. Solo in quanto mantiene nel tempo una parte di inattualità l’opera può trovare i suoi autentici lettori, cioè quelli che dovranno scontare l’indifferenza o l’avversione degli altri.
L’arte della scrittura non consiste perciò soltanto, com’è stato suggerito, nel dissimulare o lasciare non dette le verità a cui si tiene maggiormente, quanto innanzitutto nella capacità di selezionare il pubblico che non vorrà riceverle.
Big Serge: Guerra Russia-Ucraina: la resa dei conti
Guerra Russia-Ucraina: la resa dei conti
L’Ucraina è alle corde
di Big Serge – bigserge.substack.com
La guerra russo-ucraina è stata un’esperienza storica inedita per diverse ragioni, e non solo per le complessità e i tecnicismi dell’impresa militare in sé. È stato il primo conflitto militare convenzionale nell’era dei social media e della cinematografia planetaria (sotto la costante presenza delle telecamere). Questo ha consentito di dare uno sguardo (anche se solo una sbirciatina) all’essenza stessa della guerra, che, per millenni, si era rivelata solo attraverso le forze mediatrici dei notiziari via cavo, dei giornali stampati e delle steli della vittoria.
Per gli eterni ottimisti, c’erano dei lati positivi nell’idea che una guerra ad alta intensità potesse essere documentata da migliaia di video in prima persona. Dal punto di vista della curiosità intellettuale (e della sagacia militare), la marea di filmati provenienti dall’Ucraina consente una visione dei sistemi e dei metodi di armamento emergenti e permette di ottenere una notevole quantità di dati tattici. Invece di aspettare anni le analisi dei rapporti post-azione e poter ricostruire la dinamica degli scontri, siamo a conoscenza in tempo quasi reale dei movimenti tattici.
Sfortunatamente, si sono verificati anche tutti gli ovvi inconvenienti della trasmissione di una guerra in diretta sui social media. La guerra è stata immediatamente sensazionalizzata e saturata da video falsi, fabbricati o con didascalie errate, saturi di informazioni che la maggior parte delle persone e degli pseudo-esperti non è semplicemente in grado di analizzare (per ovvie ragioni, una persona normale non è in grado di fare distinzioni tra due eserciti post-sovietici che utilizzano equipaggiamenti simili e parlano una lingua simile o addirittura la stessa).
Paolo Arigotti: Javier Milei eletto Presidente della Repubblica Argentina
Javier Milei eletto Presidente della Repubblica Argentina
Una rivoluzione solo demagogica?
di Paolo Arigotti
Si è chiusa domenica 19 novembre, col ballottaggio, la corsa alla Casa Rosada, sede della presidenza della Repubblica Argentina. Fino all’ultimo c’è stata incertezza circa l’esito finale del duello, che ha visto fronteggiarsi il peronista Sergio Massa, ministro dell’Economia, e Javier Milei[1], candidato ultraliberista: come noto, il confronto si è concluso appannaggio di quest’ultimo. Il 72 per cento circa degli aventi diritto recatosi alle urne, percentuale di poco inferiore a quella registrata al primo turno (nel paese esiste un parziale obbligo di voto), ha assegnato a Milei il 55,69 per cento dei suffragi, contro il 44,31 andato al rivale: il vincitore ha ottenuto complessivamente più voti di qualsiasi altro candidato presidenziale dal 1983 (parlando sempre del secondo turno), con un importante successo nelle regioni dell’interno.
Milei ha potuto contare sull’appoggio dei leader del centrodestra di “Uniti per il Cambio”, formazione arrivata terza al primo turno col 24 per cento dei voti (candidato Patricia Bullrich): tra i suoi leader figura l’ex presidente della Repubblica Mauricio Macri[2], che ha offerto il suo sostegno a Milei nonostante i molti dissensi presenti all’interno della sua stessa compagine.
Un ulteriore e importante sostegno per la vittoria di colui che si è definito “anarco capitalista” è arrivato dagli elettori più giovani, che hanno intravisto in Milei un’opportunità di cambiamento radicale, in quanto candidato che si opponeva dichiaratamente al “sistema”[3].
Sul fronte opposto, a favore di Massa si erano schierati diversi leader latino-americani, tra i quali l’ex presidente uruguaiano José “Pepe” Mujica, considerato vicino all’allora governo argentino guidato da Cristina Fernández de Kirchner.
Andrea Zhok: Patriarcato e guerra tra i sessi
Patriarcato e guerra tra i sessi
di Andrea Zhok
Ci sono temi più importanti e preferirei tacere su tutto il circo che è partito dalla vicenda dell’ultimo omicidio volontario di una donna. Preferirei tacere anche per preservare la salute psichica, perché ogni qual volta ci si scontra con il muro ideologico costruito dai media correnti la frustrazione è inevitabile.
Ma alla luce del fatto che il ministro Valditara sta davvero prendendo sul serio le fiabe ideologiche correnti, una parola mi sembra necessaria.
Speravo in uno scherzo, ma leggo che il ministro dell’istruzione, in una pregevole armonia di intenti con l’opposizione, sta davvero proponendo un’ora a settimana di “educazione alle relazioni” nella scuola secondaria. Non solo, la proposta prevede anche l’intervento in queste ore di educazione sentimentale di “influencer, cantanti e attori per ridurre le distanze con i giovani e coinvolgerli”.
Forse fraintendiamo l’intervento del ministro, che probabilmente ha il solo scopo di incrementare l’afflusso alle scuole private. Come spiegare altrimenti questa ulteriore accentuazione della tendenza della scuola pubblica a diventare un interminabile catechismo dell’ovvio, che ripete in bianco e nero gli stessi contenuti che si ritrovano, a colori, su una rivista media da parrucchiere?
Domenico Moro: Il ritorno della gabbia del patto di stabilità
Il ritorno della gabbia del patto di stabilità
di Domenico Moro
Negli ultimi anni la questione europea, ossia la questione delle regole di bilancio e dell’euro, è caduta nel dimenticatoio. Una delle ragioni sta nel fatto che dal 2020 il Patto di stabilità è stato sospeso. Infatti, la pandemia aveva duramente colpito l’economia dei Paesi europei e, per farvi fronte, la decisione unanime fu di sospendere le regole restrittive di bilancio contenute nel Patto di stabilità. Oggi, la questione europea si accinge a riprendere la sua centralità dal momento che a gennaio 2024 avrà fine il periodo di sospensione. Inoltre, c’è la possibilità che le regole del Patto di stabilità vengano cambiate entro dicembre. Ma, se su questo non dovesse esserci un accordo tra i Paesi europei, verranno ripristinate le vecchie regole.
Vediamo quali sono. Il Patto di stabilità, sottoscritto nel 1997, si prefigge di garantire la disciplina di bilancio degli stati membri dopo l’introduzione della moneta unica. Il patto di stabilità contempla i cosiddetti parametri di Maastricht: il limite al deficit pubblico del 3% sul Pil e il limite al debito pubblico del 60% sul Pil.
Antonio Castronovi: Femminicidio. Contro la narrazione dominante
Femminicidio. Contro la narrazione dominante
di Antonio Castronovi
Ci sono uomini che uccidono donne? Si. Ci sono donne che uccidono uomini? Si. Ma se il valore quantitativo di questi delitti è relativo, non lo è il suo valore qualitativo e soprattutto non lo è il valore mediatico e simbolico che gli viene attribuito. Ci sarebbe da capire e da indagare sul perché e sulle motivazioni di questi delitti, sul loro lato qualitativo, sullo scandalo della morte che evidentemente permea la coscienza e i sentimenti di una umanità che sperimenta invece quotidianamente la desacralizzazione della vita, in cui la morte viene giustificata nelle infinite guerre umanitarie e di civiltà, o assunta come fredda necessità e inevitabile destino del lavoro, tributo indispensabile alla macchina produttiva e al nostro benessere. Lo scandalo della morte si ripresenta sotto le vesti di una sua forma particolare: l’omicidio di una donna per mano di un uomo, catalogato con un termine, “femminicidio”, che sta a indicare la volontà omicida di un genere, quello maschile, su quello femminile. Cioè l’uomo, in quanto sessualmente connotato, sarebbe posseduto da una potenziale violenza omicida verso la donna, in quanto femmina.
coniarerivolta: Il Governo precetta, lo sciopero non può attendere
Il Governo precetta, lo sciopero non può attendere
di coniarerivolta
Nei giorni in cui il Governo attacca volgarmente il diritto di sciopero dei lavoratori e i sindacati confederali confermano di non avere la forza e la volontà di opporsi a questa deriva, è bene rispolverare un po’ di evidenze sul grado di conflittualità della società italiana, per smascherare alcune menzogne che spesso fanno capolino nel dibattito pubblico. Mentre Salvini accusa il segretario della CGIL di indire lo sciopero generale di venerdì per poter godere di un week-end lungo e la narrazione dell’Italia come il Bengodi degli scioperi che bloccano le magnifiche sorti e progressive del paese si diffonde, la realtà dice tutt’altro.
Secondo i dati ISTAT, in Italia nel 2023 le ore di lavoro perse a causa di scioperi sono soltanto 0,5 ogni mille, in discesa rispetto al 2022 e al 2021 quando erano state pari a 0,6 e 0,8. Una riduzione della conflittualità ancora più significativa se confrontata con il primo dato disponibile risalente al 2005, quando le ore di sciopero erano state ben 2,5 per ogni 1000 ore lavorate. Se si guarda ai dati forniti dall’European Trade Union Institute (ETUI) si ha un quadro chiaro di come il nostro paese rappresenti sì un’anomalia, ma al contrario.
Emiliano Brancaccio: Una fiaba ideologica le valutazioni delle agenzie di rating
Una fiaba ideologica le valutazioni delle agenzie di rating
di Emiliano Brancaccio
Ora che Meloni ha ricevuto pure il bacio di Moody’s, il colmo sembra raggiunto. Per i tribunali della finanza mondiale ormai è pari a Draghi. E per l’opposizione in comodità è uno smacco
Gli altissimi giudici di Moody’s hanno dunque graziato il governo Meloni. Per la potente agenzia di rating, la valutazione sul debito pubblico italiano resterà ancora un pelo al di sopra dei cosiddetti titoli «spazzatura».
Pagella tutt’altro che edificante, certo. Ma il punto politico è che risulta identica a quella che l’agenzia assegnava ai governi precedenti, incluso quello di Draghi. Per un certo modo di intendere l’opposizione si tratta di uno smacco. Per lungo tempo ci hanno abituati alla narrazione secondo cui esisterebbero minacciose forze populiste e destrorse che scassano i conti pubblici e aizzano lo spread, e ci sarebbe per fortuna un centrosinistra a trazione tecnocratica che rimedia ai guasti finanziari e riporta il sereno sui mercati. Tra i cantori di questa storia, qualcuno è arrivato a credere che si possa fare opposizione senza nemmeno scendere in piazza. Basta solo diffondere inquietudine al minimo aumento dei tassi d’interesse sul debito.
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