Newsletter Sinistrainrete 20231129

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Matteo Bortolon: Capitalismo woke

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Capitalismo woke

di Matteo Bortolon

Carl Rhodes: Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia, Fazi, 2023

imagesmoigbnk.jpegIl capitalismo è diventato di “sinistra”? Quello che parrebbe un paradosso, più che una provocazione, è un quesito al centro di un testo, (C. Rhodes, Capitalismo woke, Fazi 2023) di estrema attualità, e forse persino anticipatore per quanto riguarda il dibattito italiano ed europeo. Si dedica a un fenomeno tipicamente statunitense, che ancora pare non abbia lambito significativamente il Vecchio Continente, e cioè l’attitudine delle aziende a sostenere cause progressiste quali l’ambiente, le cause LGBT, l’antirazzismo, i diritti delle donne e simili.

Il libro in poco più di 300 pagine svolte il tema in 13 capitoli, leggibili quasi indipendentemente dal resto; il primo di essi enuncia la questione in termini generali, e ciascuno dei seguenti lo specifica e arricchisce in base a esempi specifici.

L’elemento di riferimento centrale è il termine woke, di cui l’autore fornisce una essenziale ma completa illustrazione: come si descrive nel terzo capitolo (Il capovolgimento dell’essere woke), la parola (che letteralmente significa “risvegliato” o per estensione semantica “consapevole”) nel suo senso politico deriva la sua accezione da un discorso di Martin Luther King e dal milieu del movimento per i diritti dei neri negli Usa, ma è stata resa celebre al di là di tale ambiente dalla cantante soul Erykah Nadu nel 2008, finché il movimento Black Lives Matter l’ha consacrata nel 2013 come parola chiave del progressismo contemporaneo.

Successivamente woke da termine molto connotato in una radicalità sociale (antirazzismo ma anche anticapitalismo, antimperialismo ecc.) ha avuto uno slittamento semantico per designare una attenzione un po’ ipocrita e ostentativa a cause progressiste di moda quali il razzismo, il cambiamento climatico, la parità femminile, e simili.

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Alastair Crooke: Lo scorpione israeliano pungerà la rana statunitense?

comedonchisciotte.org

Lo scorpione israeliano pungerà la rana statunitense?

di Alastair Crooke

Netanyahu sta preparando la scena per intrappolare l’amministrazione Biden, facendo in modo che gli Stati Uniti abbiano poca scelta se non quella di unirsi a Israele

F 4hc VboAALsFi 930x520 1.jpgL’allegoria è quella dello scorpione che ha bisogno della rana per poter attraversare un fiume in piena, facendosi trasportare sulla schiena della rana. La rana diffida dello scorpione, ma accetta con riluttanza. Durante la traversata, lo scorpione punge fatalmente la rana mentre nuota con lui sulla schiena. Entrambi muoiono.

Si tratta di un racconto dell’antichità che intende illustrare la natura della tragedia. La tragedia greca è quella in cui la crisi al centro di ogni “tragedia” non nasce per puro caso. In senso greco, la tragedia è quella in cui qualcosa accade perché deve accadere, per la natura stessa dei partecipanti, perché gli attori coinvolti lo fanno accadere. E non hanno altra scelta se non quella di farlo accadere, perché questa è la loro natura.

È una storia che è stata raccontata da un ex diplomatico israeliano di alto livello, esperto di politica statunitense. La sua versione della favola della rana vede i leader israeliani impegnati a scrollarsi disperatamente di dosso la responsabilità per la disfatta del 7 ottobre, con un Gabinetto che tenta in tutti i modi di trasformare (psicologicamente) la crisi da disastro colpevolizzabile a epica opportunità da presentare al pubblico israeliano.

La chimera che viene presentata è che, tornando indietro alla vecchia ideologia sionista, Israele possa trasformare la catastrofe di Gaza – come ha sostenuto a lungo il ministro delle Finanze Smotrich – in una soluzione che, una volta, per tutte “risolva unilateralmente la contraddizione intrinseca tra le aspirazioni ebraiche e palestinesi – ponendo fine all’illusione che sia possibile qualsiasi tipo di compromesso, riconciliazione o spartizione“.

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Carlo Crosato: Giorgio Agamben

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Giorgio Agamben

di Carlo Crosato

Fin dalle sue primissime battute, la filosofia di Giorgio Agamben si è impegnata in una profonda critica del pensiero occidentale, studiando la natura nichilistica della sua metafisica, e le sue implicazioni politiche. Strutturandosi attorno a una innovativa ontologia politica, l’oggetto di maggiore interesse è del pensiero agambeniano è l’umano occidentale, la sua azione, la conoscenza, il linguaggio. La combinazione di ontologia politica e critica dell’antropologia occidentale è giunta a produrre, con la serie Homo sacer, una filosofia politica fortemente coinvolta nel rapporto fra la politica e la vita: una biopolitica, in cui è in gioco la stessa definizione della natura umana.

* * * *

Giorgio Agamben nasce a Roma nel 1942. Si laurea in giurisprudenza nel 1965 discutendo una tesi sul concetto di persona nella filosofia di Simone Weil. Il suo vero primo incontro con la filosofia, tuttavia, avviene nel 1966 e nel 1968, quando è invitato a partecipare a due seminari tenuti a Le Thor da Martin Heidegger, su Eraclito e Hegel. Sono altrettanto fondamentali lo studio di Walter Benjamin e il metodo di Aby Warburg, con cui il trentaduenne Agamben entra in contatto a Londra presso la biblioteca del Warburg Institute, dove lavora al suo secondo libro, Stanze. Se Heidegger influenza Agamben nello studio critico della metafisica occidentale, e Benjamin è descritto da Agamben come l’antidoto per la filosofia di Heidegger, rappresentando un’ispirazione per la riflessione sul tempo e sulla salvezza, l’ammirazione agambeniana per il metodo di Warburg segna il suo intero lavoro filosofico imprimendogli un carattere fortemente multidisciplinare.

Negli anni londinesi e parigini, l’influenza del metodo di Warburg porta Agamben a preconizzare una «scienza generale dell’umano»: una scienza che, mettendo in dialogo le più diverse discipline, producesse una diagnosi dell’umano occidentale.

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L’Antidiplomatico: Fabio Mini: “La mattanza a Gaza è pianificata dalla dottrina Dahiya”

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Fabio Mini: “La mattanza a Gaza è pianificata dalla dottrina Dahiya”

di L’Antidiplomatico

“In pratica si risolve nel fatto di dover distruggere e ammazzare almeno la metà dei due milioni che sono presenti nella striscia di Gaza”.

Il generale Fabio Mini in un’intervista a l’AntiDiplomatico condotta da Clara Statello commenta l’operazione militare di Israele e quella che definisce la “mattanza” in corso contro la popolazione della striscia.

I reali obiettivi di Israele a Gaza – Fabio Mini (23 novembre) – YouTube

“È una situazione tristissima. Ed è anche una situazione che non ha nessun senso dal punto di vista militare. Non esiste nessuna dottrina militare in campo occidentale, ma neanche in quella orientale che può spiegare quello che Israele sta facendo a Gaza”, prosegue il generale.

Qual è l’obiettivo finale per il quale si possa dire che la che l’operazione si è conclusa con successo? Non c’è, o almeno quello che gli israeliani attualmente considerano come un successo è di ammazzare tutti quelli di Hamas. E se per ammazzare tutti quelli di Hamas bisogna ammazzare anche tutti quelli che non c’entrano niente e che semmai lo subiscono Hamas non importa.”, prosegue.

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Paolo Bartolini: Le parole vive contano: oltre il patriarcato e il neoliberismo

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Le parole vive contano: oltre il patriarcato e il neoliberismo

di Paolo Bartolini

La galassia del dissenso, ovvero l’area critica che dovrebbe mettere in discussione le coordinate del neoliberismo giunto anche per noi alla sua fase apertamente autoritaria (altrove, ad esempio in Sud America, il volto machista e violento del capitalismo contemporaneo è ben noto da decenni), vorrei fosse capace di produrre analisi e mobilitazione evitando di cadere nelle polarizzazioni di un dibattito pubblico orientato da precise strategie comunicative. Capita spesso, infatti, che gli eventi dell’attualità fomentino opposizioni sterili che distolgono dall’unica opposizione seria di cui abbiamo urgente bisogno: quella tesa a immaginare e costruire una società post-capitalista, equa, solidale e sostenibile. Purtroppo si continua invece ad alimentare testarde semplificazioni, simmetriche e complementari a quelle dominanti, incapaci di cogliere la complessità del presente e di attrarre a sé una massa critica.

Un esempio eclatante lo troviamo, dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin ad opera del suo ex fidanzato – l’ennesimo femminicidio su cui le istituzioni sorvolano come fanno, del resto, anche per le incessanti morti sul lavoro che funestano il nostro Paese con cadenza quasi giornaliera –, nel tentativo dei maestrini della contestazione di dichiarare fittizia la lotta al patriarcato invocata negli ambienti femministi, perché il patriarcato inteso in senso rigoroso sarebbe uscito dal radar delle società occidentali da parecchi anni, sotto la spinta di una fluidificazione imponente dei rapporti di genere e di potere.

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“Dante Di Nanni”: Più fedayn e meno “Sun Tzu de noantri”

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Più fedayn e meno “Sun Tzu de noantri”

di “Dante Di Nanni”

Immediatamente dopo il 7 ottobre, dai banchi della “sinistra radicale” italiana, alcuni compagni, evidentemente ancora freschi delle letture di Sun Tzu e Von Clausewitz, si sono alzati in piedi per far sapere al mondo che sì, va bene la solidarietà col popolo palestinese, ma che questa volta i militanti della resistenza avevano davvero sbagliato tutto, perché non era certo così che si sarebbe dovuta portare avanti una lotta di liberazione.

Dall’alto della loro “esperienza”, spesso facendo proprie le parole del nemico come “terroristi” e “fondamentalisti islamici”, questi compagni ci hanno quindi spiegato che Israele era troppo forte, che questa azione non avrebbe portato a nulla se non all’eliminazione della resistenza stessa, e che, piuttosto, si sarebbe dovuto far leva sulla componente pacifista e progressista in seno alla società civile israeliana.

Ci pare di poter dire che questo mese e mezzo di combattimenti e la tregua appena firmata abbiano dimostrato come questi compagni non solo sottovalutino le capacità strategiche della resistenza palestinese, ma dimentichino pure il fatto che la guerra di guerriglia, proprio perché combattuta contro un nemico militarmente più forte, è una guerra soprattutto politica ed è dunque anche, e soprattutto, sul piano politico che vanno valutati successi e sconfitte.

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comidad: Il politicamente corretto funziona da arma in mano alla destra

comidad

Il politicamente corretto funziona da arma in mano alla destra

di comidad

Il grande reset rimarrà probabilmente uno spot pubblicitario dei fumatori d’oppio di Davos; in compenso non ci si fa mancare i piccoli reset, soprattutto della memoria. Il dibattito sull’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione del Covid è stato l’occasione per la riscrittura di pagine di storia recente. In questa circostanza non è stata semplicemente una parte politica a cambiare la sua versione dei fatti, ma si è costituito un gioco di ruolo per cui si può litigare sui dettagli meschini ma non sulla trama della vicenda. In particolare suona strano l’entusiasmo inquisitorio della Lega nel salutare l’istituzione della commissione parlamentare sul Covid, dato che la versione italiana della pandemia da Covid è partita dalla Regione Lombardia, governata da una giunta guidata dal leghista Attilio Fontana. L’evidenza di questo dato storico è oscurata dal solito pregiudizio che considera la bistrattata Italietta inevitabilmente subordinata a poteri stranieri, come se non fosse fin troppo capace di provocare danni in proprio.

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Andrea Zhok: “Il patriarcato è superato, la guerra tra i sessi è in atto”

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“Il patriarcato è superato, la guerra tra i sessi è in atto”

Giulia Bertotto intervista Andrea Zhok

Zhok ok.jpgAndrea Zhok, professore di Filosofia Morale presso l’Università degli Studi di Milano, collabora con numerose testate giornalistiche e riviste. Tra le sue opere ricordiamo le più recenti: “Critica della Ragione Liberale” 2020, “Oltre Destra e Sinistra: la questione della natura umana”, quest’ultima opera è stata data alle stampe dalla coraggiosa casa editrice Il Cerchio, che ha pubblicato anche “La Profana Inquisizione e il regno dell’Anomia. Sul senso storico del Politicamente Corretto e della Cultura Woke” (2023).

In quest’ultimo, agile ma densissimo saggio, dotato di straordinaria forza critica, spiega come il potere della censura, una volta detenuto dalle istituzioni ecclesiastiche, sia oggi appannaggio di quel movimento liberal soprattutto americano, che condiziona anche il nostro sistema categoriale e valoriale.

Questo “atteggiamento di ispezione poliziesca del linguaggio” spiega, nasce in ambito accademico per non offendere alcuna minoranza oppressa, e si fonda su un importante scollamento intellettuale dal registro e dal linguaggio popolare. Ma si badi bene -non è solo una questione formale- perché le parole sono ontologicamente caricate e perché ai trasgressori del comandamento politicamente corretto viene resa inagibile la partecipazione al dibattito pubblico su temi fondanti come “l’educazione, la famiglia, la struttura della società, la procreazione, l’affettiva, la natura e la storia umane”. Così ben presto la difesa delle categorie lese diventa strumento di diffamazione contro chiunque intenda argomentare il dogma della vittima.

Nella società della Profana Inquisizione “Non esiste propriamente alcun valore, ma un unico disvalore: la violazione dello spazio altrui”.

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Nicola Pinzani: Numeri e forme

iltascabile

Numeri e forme

di Nicola Pinzani*

Il rapporto profondo tra algebra e geometria ne Il Teorema di Pitagora di Paolo Zellini

Proof of the Pythagorean
Theorem di Crockett Johnson.jpgL’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti. Rappresentato dalla celeberrima raffigurazione di quadrati, cateti e ipotenuse, il teorema fluttua come una sentenza sui quaderni e sulle lavagne di tutto il mondo. È diventato simbolo di un metodo, di un canone che dà importanza all’insegnamento dei fondamenti di una comprensione intuitiva dello spazio. Una parte esoterica dell’apprendimento, condivisione di antichi saperi silenziosi, ora praticamente muti nella loro stasi formale. Questa singolarità lapidaria diventa pretesto, più che vero protagonista, di un discorso che, nell’ultimo libro di Paolo Zellini, Il Teorema di Pitagora (Adelphi, 2023), attraversa millenni di storia del pensiero geometrico.

Non è facile accontentare lettori bulimici di dati, storie e fatti; i teoremi non se ne nutrono e non ne vengono nutriti, e raramente diventano argomento esplicito di discussione. Queste ambigue pietre miliari del pensiero non si possono comprendere esclusivamente nella loro veste formale, ma devono essere inserite e interpretate all’interno di canoni che appartengono all’arcaicità, a dimensioni che in virtù della loro estraneità temporale coinvolgono l’intera forma del pensiero.

Zellini è professore ordinario di analisi numerica all’Università di Roma Tor Vergata. La sua carriera accademica si muove all’interno dei confini dell’algebra lineare e dell’ottimizzazione numerica: discipline che sembrano stridere con l’afflato letterario della sua scrittura. È solo un pregiudizio, così come è un pregiudizio quello che porta molti scienziati a credere che solamente la matematica cosiddetta “pura” possa, con parsimonia, adornarsi di strappi nel tessuto formale, fenditure attraverso le quali intravedere una luce diversa dal caustico bagliore del formalismo.

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Afshin Kaveh: Il “Karl Korsch” di Giorgio Amico

antropocene

Il “Karl Korsch” di Giorgio Amico

Sulle opportunità di un nuovo dibattito “korschiano”

di Afshin Kaveh

Giorgio Amico:Karl Korsch. Dal consiliarismo al marxismo criticoMassari Editore, 2023

2014738065 1Giurista, filosofo, rivoluzionario di professione, ministro, cospiratore, soldato valoroso, pacifista coerente, Karl Korsch è stato tutto questo e molto di più. Amico personale di Amadeo Bordiga e di Bertold Brecht, ispiratore della Scuola di Francoforte, compagno di studi di Kurt Lewin, avversario di Stalin – Korsch ha segnato in molti modi la storia del Novecento.

* * * *

I

Nulla da togliere alle personalità che, più di cinquant’anni fa, hanno ruotato attorno alla presentazione e discussione critica delle prime edizioni italiane delle opere di Karl Korsch – tra gli altri, Colletti, Rusconi, Perlini e Vacca –, ma è sempre stata evidente la mancanza di uno studio serio che, tirando le somme, riuscisse a collocare Korsch nel suo contesto storico, di modo poi da poterlo proiettare e restituire a noi. Che quei contributi accumulati e invecchiati di cinque decenni, tra articoli in dotti volumi, introduzioni, prefazioni, saggi originali e brevi studi particolari, non soddisfino pienamente l’esigenza di cedere al signor Korsch il posto e lo spazio che merita nel contesto della critica radicale, non è di certo data dal tempo, il quale scorrendo come base naturale ha fatto decadere nel dimenticatoio la grande maggioranza di quegli scritti, se non proprio tutti. Il vero problema è stato il vuoto costituito dalla mancanza nel contesto nostrano di un interesse e di un dibattito serio su Korsch da una parte, e dall’assenza di un’opera realmente complessiva ed esauriente sulla sua vita e sul suo pensiero dall’altra.

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Patrizia Cecconi: Una peste chiamata Israele

lantidiplomatico

Una peste chiamata Israele

di Patrizia Cecconi

Tra le foto e i video strazianti inviati in diretta social – non trasmessi dai media televisivi perché mostrerebbero inequivocabilmente la mostruosa faccia sanguinaria di Israele – tra quelle immagini, in cui si vedono i corpi lacerati di adulti e di bambini estratti dalle macerie, o le penose lunghe file di sudari bianchi poggiati a terra negli spazi liberati dalle travi che li hanno uccisi, una m’ha toccato particolarmente, pur non essendo peggiore delle altre, né accompagnata dal pianto disperato di un bimbo terrorizzato e ferito o da corpi smembrati: la foto di un ragazzo che come tanti altri sopravvissuti aiutava, portando in braccio un corpicino coperto da un telo bianco.

Nei suoi occhi, nell’espressione del suo viso, e soprattutto nel modo in cui portava quel corpo c’era più che disperazione, direi più che sofferenza. Qualcosa che a me è sembrata un’offerta dolorosa e insieme un’angosciante attesa. Forse la stessa attesa che ho letto in tanti messaggi arrivati da Gaza in risposta alla mia richiesta di notizie: “sono ancora vivo ma so che domani forse raggiungerò i miei fratelli” oppure “per ora sono viva ma credo che raggiungerò presto mio padre e la mia bambina”, o ancora “il mio amico migliore non c’è più, io aspetto il mio turno”….

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Roberto Iannuzzi: Soluzione dei due stati: una foglia di fico che non porterà la pace a Gaza

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Soluzione dei due stati: una foglia di fico che non porterà la pace a Gaza

di Roberto Iannuzzi

Rievocare la prospettiva dei due stati, da parte di Biden e dei leader europei, non è che una manifestazione di ipocrisia. In aggiunta, alcune osservazioni sul cessate il fuoco a Gaza

Alcuni giorni fa, il Washington Post ha pubblicato un editoriale a firma del presidente Joe Biden, nel quale egli delineava la strada da seguire per porre fine al drammatico conflitto di Gaza e impedire che esso si ripeta.

Come sempre quando scoppiano gravi crisi in Palestina, il presidente ha rispolverato la soluzione dei due stati, affermando che “il popolo palestinese merita un proprio stato e un futuro senza Hamas”.

A tal fine, Biden afferma che la Striscia di Gaza e la Cisgiordania dovrebbero essere riunite sotto un’unica struttura di governo, un’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) “rivitalizzata”.

Porre fine alla catastrofe umanitaria in corso nella Striscia è prioritario, ma è altrettanto imprescindibile prospettare soluzioni realistiche, dopo che per anni il processo di pace israelo-palestinese è stato archiviato.

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Scott Ritter: Gaza: Ha vinto Hamas

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Gaza: Ha vinto Hamas

di Scott Ritter

Il cessate il fuoco recentemente annunciato è una benedizione sia per i Palestinesi che per gli Israeliani: un’opportunità per lo scambio di prigionieri, la distribuzione di aiuti umanitari a chi ne ha bisogno, e per calmare le emozioni di entrambe le parti in conflitto

Sebbene il cessate il fuoco, negoziato tra Israele e Hamas dal Qatar, sia stato concordato di comune accordo tra le due parti, nessuno si lasci ingannare pensando che si tratti di qualcosa di meno di una vittoria per Hamas. Israele aveva assunto una posizione molto aggressiva, dichiarando che il proprio obiettivo era di distruggere Hamas come organizzazione, e dunque non avrebbe accettato un cessate il fuoco a nessuna condizione.

Hamas, d’altro canto, si era proposta come obiettivo primario, nell’avviare l’attuale fase di lotta contro Israele, il rilascio dei prigionieri palestinesi, e in particolare delle donne e dei bambini detenuti da Israele. Visto in questa luce, il cessate il fuoco rappresenta un’importante vittoria per Hamas e un’umiliante sconfitta per Israele.

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Roberto Comandè: La lotta di classe non è finita, la stiamo semplicemente perdendo

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La lotta di classe non è finita, la stiamo semplicemente perdendo

di Roberto Comandè

Lo slogan principale con cui la politica, gli “intellettuali” e i canali d’informazione allineati all’attuale sistema di distribuzione del potere puntano con sempre più insistenza è così riassumibile: non esiste sistema migliore di quello neoliberale. Niente più che la riedizione in salsa capitalistica del motto leibniziano secondo cui staremmo vivendo nel migliore dei mondi possibili, perché voluto da Dio. Con la sostituzione Dio=Mercato.

In sostanza, chi sostiene questa posizione dichiara, più o meno esplicitamente, che nonostante la disuguaglianza paurosa, la povertà dilagante, la guerra continua, il cambiamento climatico, e così via, l’attuale assetto sociale è e resta la migliore opzione che abbiamo. Non solo, il corollario che consegue, pericoloso almeno quanto l’assioma, vuole additare chiunque provi a contestare l’assoluta superiorità del capitalismo liberale come un nemico della società, della pace e dei diritti, in combutta con oscure forze autocratiche che attendono nel buio di poter azzannare al collo i “valori occidentali”.

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Giorgio Agamben: Un altro silenzio

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Un altro silenzio

di Giorgio Agamben

Mentre i media dedicano tutto il loro spazio alla guerra in Ucraina e a Gaza e contano, come sembra amino fare, i morti palestinesi e israeliani, ucraini e russi, un altro popolo è stato ancora una volta ignorato: gli armeni, costretti per non essere sterminati a lasciare il paese dove vivevano. Dopo l’offensiva militare del settembre 1923 da parte degli Azeri, il Nagorno-Karabakh o Repubblica dell’Artsakh, come lo chiamavano i suoi abitanti armeni, non esiste più. Come è già avvenuto molte volte in questa regione, i confini verranno nuovamente disegnati e intere popolazioni decimate e spostate in nome della pulizia etnica. Quando alla fine della Prima guerra mondiale la Federazione transcaucasica, che era stato creata nel 1917 da armeni, azeri e georgiani, venne dissolta e il territorio conquistato dai russi, il Nagorno-Karabakh, benché fosse popolato per il 98% da armeni, fu assegnato da Stalin non alla repubblica socialista sovietica armena, ma a quella azera.

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