Ecologia del denaro / G. Gozzini

Il report contiene
Scheda bibliografica
Presentazione editore
Indice
Premessa
altri estratti offerti dall’editore
1.Come perdere apposta mezzo secolo
1.1. Effetto serra
1.2. Ritorno all’ordine
1.3. Business as usual
1.4. Lobbying e disinformazione
2. Finanza aziendale
2.1. Ricomprare le azioni

Ecologia del denaro : finanza e società nel mondo contemporaneo / Giovanni Gozzini. – Roma : Editori Laterza, 2024
ISBN carta: 9788858154144
ISBN digitale: 9788858154984

Argomenti e parole chiave
Presentazione dell’editore

Negli ultimi sessanta anni il denaro ha via via assunto una sorta di vita autonoma rispetto a quella dell’uomo, la specie che lo ha inventato e ne ha fatto il proprio mezzo principale. Questo libro vuole raccontare la vita di questo strumento e l’habitat umano che ha creato. In altre parole, una vera e propria ‘ecologia del denaro’, la storia di come si è creata una massa di denaro libera di girare per il mondo, di trovare rifugio in paradisi fiscali e di speculare su monete nazionali, prezzi e tariffe. Non è la storia di una cospirazione, è piuttosto la storia di compagnie e società private che abbandonano la strada degli investimenti produttivi in posti di lavoro per seguire quella più facile e immediata degli scambi di denaro con altro denaro. È così che il potere della finanza globale è cresciuto su se stesso. Senza una politica capace di regolarlo, il capitalismo finanziario genera ineguaglianza e smette di produrre innovazione e occupazione. Esiste una finanza buona che col microcredito aiuta i poveri della Terra e con le rimesse degli emigrati riduce le distanze geografiche e sociali. Quel che manca è la politica.

Indice del volume

Introduzione v
1. Come perdere apposta mezzo secolo 3
1.1. Effetto serra, p. 3 –
1.2. Ritorno all’ordine, p. 8 –
1.3. Business as usual, p. 13 –
1.4. Lobbying e disinformazione, p. 19
2. Finanza aziendale 26
2.1. Ricomprare le azioni, p. 26 –
2.2. Senza investire, p. 32 –
2.3. Petrodollari, p. 40 –
2.4. L’illusione del debito, p. 45
3. Finanza e geopolitica: la curva a U p. 56
3.1. Eurodollari, p. 56 –
3.2. Stati nazionali e finanza globale, p. 63 –
3.3. Uno sguardo dall’alto, p. 71 –
3.4. Derivati, p. 81
4. Finanza e geopolitica: investimenti esteri 93
4.1. Buoni argentini, p. 93 –
4.2. Troppa finanza?, p. 100 –
4.3. Riserve anti-crisi, p. 109 –
4.4. Nuove mappe del mondo, p. 116
5. Declino dell’Occidente? 125
5.1. Stagnazione secolare?, p. 125 –
5.2. Vecchiaia e miopia, p. 132 –
5.3. Il problema ineguaglianza, p. 140 –
5.4. Giustizia e libertà, p. 145
6. Ascesa dell’Oriente? 154
6.1. Spirali e no, p. 154 –
6.2. Catene del valore aggiunto, p. 162
6.3. La variante cinese: migrazioni e industrie, p. 172 –
6.4. La variante cinese: finanza e poveri, p. 176
7. Vincenti e perdenti 187
7.1. Poveri e microcredito, p. 187 –
7.2. Migranti e rimesse, p. 194 –
7.3. Povertà e globalizzazione, p. 202 –
7.4. Curve di Kuznets, p. 212
8. Sviluppo e civiltà 225
8.1. Prezzi delle materie prime e agricoltura, p. 225 –
8.2. La crescita economica è cosa buona?, p. 233 –
8.3. Felicità e scienza triste, p. 240 –
8.4. Beni comuni, p. 250
Indice dei nomi p. 261

Estratti dal sito dell’editore

Premessa

Pandemia e guerra hanno cambiato la nostra percezione del mondo e del tempo. La marea della globalizzazione – intesa come movimenti internazionali di merci, capitali, persone, informazioni e idee – si ritira e lascia un deserto pieno di piaghe, dove gli stati nazionali tornano a fare quello che da sempre sanno fare: combattersi, magari in una «terza guerra mondiale a pezzi» come ha detto il papa. Non è la prima volta che accade nella storia.

Il commercio e l’industria di un popolo non dipendono ormai più per nulla dalle sue frontiere politiche; le frontiere politiche ed economiche non coincidono per nulla fra di loro; la potenza militare non ha valore dal punto di vista sociale ed economico e non ha relazione con la prosperità della nazione che lo esercita; è impossibile per una nazione di annullare con la forza il benessere e il traffico di un’altra […] Nel mondo civile la ricchezza ha per base il credito e i contratti commerciali, rappresentando questi lo sviluppo della interdipendenza economica dovuta alla sempre crescente divisione del lavoro e allo aumentato incremento delle comunicazioni. Se il credito e i contratti commerciali sono minacciati dalla conquista del nemico vittorioso, la ricchezza (che dal credito, appunto strettamente dipende) non soltanto svanisce ma non lascia nulla al vincitore in cambio della sua vittoria, e, anzi, lo trascina nella sua stessa caduta; di sorta, se egli vuole che la sua vittoria non gli rechi alcun danno, tale supposto vincitore deve scrupolosamente rispettare la proprietà del vinto nemico; laonde, si può dire che sia sempre vana la vittoria, dal punto di vista economico […] La finanza internazionale è divenuta così interdipendente nei rapporti col commercio ed industria che l’intangibilità della proprietà del nemico è da considerarsi ormai come anche ai di lui commerci.

Sembrano parole scritte ieri, ma furono scritte poco prima della Grande Guerra dal giornalista inglese Norman Angell (poi premio Nobel per la pace nel 1933) in un libro che ebbe grande successo perché esprimeva le speranze di molti. Venivano alla fine di un lungo periodo di espansione senza precedenti degli scambi di merci, capitali e persone che occupò il trentennio precedente. E che fece scrivere a Jules Verne Il giro del mondo in ottanta giorni (1873). La torre Eiffel e le Expo internazionali, le olimpiadi, i fusi orari, i cavi telegrafici sottomarini, il premio Nobel: molte delle cose «globali» che usiamo ancora oggi risalgono a quel primo tempo di globalizzazione.

Eppure Angell si sbagliava e di grosso. Lo stesso titolo del libro fu scelto da Jean Renoir per il suo film del 1937, primo capolavoro di denuncia degli orrori della prima guerra mondiale. La politica e le armi possono arrestare e ribaltare la globalizzazione. Nel 1914 in ogni corte e cancelleria europea si agitava uno spirito di rivalsa che animava le casate nobiliari e militari di contro al ceto medio emergente dei commerci e degli affari. C’erano già state due guerre balcaniche (1912-1913) nella regione meno integrata sotto il profilo economico con il resto del continente. Ma la diplomazia era riuscita a contenerle e a imporre loro una fine negoziata. Il che paradossalmente autorizzò un eccesso di fiducia negli equilibri e nelle capacità mediatrici del concerto globale delle grandi potenze. Quelle maggiori si sentirono spinte a strategie di rischio sempre più azzardate, confidando più del dovuto in quegli equilibri e quelle capacità. Imperi deboli ma costretti a salvaguardare le apparenze (Russia e Austria) vennero spinti all’iniziativa da nazioni alleate (Francia e Germania) più aggressive e in cerca di rivincite. Fino al 1914 i rendimenti dei titoli di stato delle nazioni europee non avvertivano rischi e registravano una costante convergenza. Era la medesima confidenza che spinse i governanti europei come «sonnambuli» nel baratro, pensando di combattere una guerra preventiva di breve durata.

Le due guerre mondiali coincidono con la contrazione del commercio internazionale. La pace dopo il 1945 con la ripresa degli scambi e la loro liberalizzazione. Nel febbraio 2022, allo scoppio della guerra in Ucraina, sono più di 1.400 le imprese straniere operanti in Russia. Dopo più di un anno, un terzo di queste ha accettato l’invito pressante dei propri governi a chiudere e venire via. Un altro 15% ha deciso di rimanere: si stima che possano versare in tasse al governo russo circa 18 miliardi di dollari, equivalenti a più di un decimo di tutto il sostegno militare e assistenziale finora fornito all’Ucraina. Non è facile né conveniente vendere in fretta e per necessità il frutto di investimenti maturato negli anni. Il tempo lento dell’economia non coincide con quello veloce della politica.

La globalizzazione non è un complotto. Come altre decine di migliaia in giro per il mondo, quelle imprese stanno in Russia nella speranza di fare affari. Messe insieme producono spostamenti epocali. Uno dei maggiori è sintetizzato da un grafico di questo libro (la Figura 2.2a) che confronta popolazione mondiale e posti di lavoro in industria e servizi. In modo costante dal 1950 quei posti di lavoro sono tornati in Asia, Africa e America latina, dove risiede la grande maggioranza del genere umano. Dopo due secoli segnati dalla rivoluzione industriale, dal colonialismo e dall’ascesa dell’Occidente – quando un settimo dell’umanità ha dominato tutto il resto – il mondo torna a equilibri più naturali. Con i suoi posti di lavoro dove vive più gente. Alcuni di quei posti di lavoro potranno tornare indietro e ne parlerò. Ma solo alcuni. I paesi non occidentali rivendicano e conquistano spazi economici e commerciali: dietro la propaganda di Putin e Xi sta questo processo epocale irreversibile. L’Occidente può fare la guerra a questo spostamento, da uno contro sette. Non pare una grande prospettiva. Né può pretendere che il resto del mondo diventi simile a sé, adeguandosi al suo modello storico di democrazia: cosa semplicemente assente dal passato di Russia e Cina, come di molti altri paesi.

Sotto il profilo dell’integrazione nel commercio mondiale, la Russia non è un paese isolato. Lo è invece dal punto di vista della composizione di quell’interscambio, che – a differenza della Cina – vede l’assenza di manufatti industriali ed è largamente dominato dalla fornitura di due combustibili: petrolio e gas. È una posizione debole, complicata dalla competizione dei paesi (soprattutto ma non solo arabi) raccolti nella Organization of the Petroleum Exporting Countries (OPEC) e dalla travagliata crescita di una coscienza ambientalista che punta alla dismissione delle fonti di energia fossili. Quando vede in nazioni a lui pericolosamente vicine, come Ucraina e Georgia, mobilitazioni di massa con le bandiere dell’Unione Europea; quando vede il suo paese assente da tutte le tecnologie che contano e conteranno, Putin si sente in pericolo. Al tavolo della globalizzazione che si apparecchia da sé, senza complotti in grado di determinarlo ma con molti soggetti pubblici e privati determinati ad usarlo, Putin rischia di rimanere senza posto. Da questo punto di vista la guerra in Ucraina non è il delirio di un pazzo. Le scelte belliciste del Cremlino incarnano una costante della storia: la reazione nazionalista alla globalizzazione. Lo spaesamento rispetto a un’economia mondiale che passa per altre vie e una minaccia di contagio filo-occidentale nel cortile di casa producono un ritorno al bene-rifugio simbolico della Madre Russia. L’insistito parallelo con la Grande Guerra Patriottica del 1941-1945 corrisponde alla rivendicazione di un ruolo di «superpotenza etica», portatrice di una alternativa autarchica e radicale all’Occidente degenerato, ormai privo di idee e di fede, incapace di difendere i propri lavoratori.

Il mondo di oggi è un mondo instabile almeno quanto quello del 1914. Con in più un’arma, quella nucleare, la cui sconosciuta forza distruttiva alimenta sogni di potenza e incubi apocalittici. Con in più uno spostamento del baricentro industriale verso Oriente che pone un problema – anch’esso del tutto inedito per dimensioni di scala – di riequilibrio anche ambientale dell’intero pianeta. Rispetto al 1914 abbiamo alcuni vantaggi. La Russia non può contare su un blocco di alleanze capace di dividere il continente. Anzi. La guerra ha, quantomeno provvisoriamente, rafforzato e allargato l’Unione Europea. Gli anticorpi pacifisti delle opinioni pubbliche si sono rafforzati e gli studenti non scendono in piazza a favore della guerra, come invece fecero nel 1914. Altre grandi potenze emergenti (Cina, India) non sono interessate a bloccare la globalizzazione e appaiono disturbate, assai più che tentate, dalla prospettiva di un conflitto più largo. Non si deve ripetere lo stesso errore del 1919, quando la pace si limitò a umiliare la Germania, preparando una nuova catastrofe. Ma gli Stati Uniti di oggi oscillano pericolosamente tra un antico «destino manifesto» di guardiani del mondo libero, la tentazione di assestare un colpo a Mosca per interposta persona (Zelensky) e il rispetto della legalità internazionale e dei confini degli stati. In confronto al rigido equilibrio bipolare della Guerra Fredda, è un mondo più disordinato con molti topi che ballano in assenza del gatto.

Di tutti i vettori della globalizzazione che ho citato (merci, capitali, persone, informazioni e idee) il denaro è quello di gran lunga più leggero e maneggevole: più veloce negli spostamenti, capace di coprire distanze più lunghe. Per questo i movimenti di capitale («le borse che bruciano miliardi») sono i primi sensori di processi economici più profondi. Sono cose che a molti di noi continuano a rimanere in gran parte misteriose. E come spesso accade con le cose che non comprendiamo, si tende a ridurre e semplificare la finanza con le immagini fiabesche dell’ideologia: un potere forte, anonimo e cospirativo. Eppure non mancano libri che ne hanno raccontato la storia senza indulgere alle congiure. È la storia di uomini (molto meno di donne) che fin dall’antichità maneggiano denaro e credito, spesso perché costretti da interdizioni che proibiscono il possesso della terra e l’ingresso nelle corporazioni di mestiere alle minoranze religiose o etniche di cui fanno parte. Il che ha rafforzato quella fiaba ideologica intingendola nel veleno dell’antisemitismo. Hitler era convinto (lo scrive nel testamento prima di suicidarsi) che la guerra da lui scatenata fosse in realtà voluta dalla finanza ebraica. Ogni immagine di potere forte, anonimo, cospirativo serve a coagulare in un capro espiatorio fantastico la nostra paura del male e la nostra fuga dalla realtà.

Denaro e credito sono le leve di una macchina del tempo incarnata dalla finanza. Il denaro velocizza e fluidifica il baratto: allo scambio rigido e univoco di due merci sostituisce un mezzo di pagamento universale che moltiplica le possibilità di scambio. E quindi allarga il mercato perché spezzetta il tempo. Invece di portarmi da casa due galline e cercare qualcuno disposto a barattarle con un formaggio, vendo e compro in due momenti e con due persone diverse grazie a una moneta o a un pezzo di carta, cui tutti riconoscono uguale valore. Fino alla fine dell’Ottocento, almeno le monete incorporavano una quantità di oro o di argento che rendeva quel valore tangibile. Oggi non più. Ci fidiamo della firma del governatore della Banca Centrale Europea che figura sulle banconote e che garantisce la convertibilità di quella banconota in una minuscola quantità di oro conservata nelle riserve di quella stessa banca centrale. Anche se nessuno penserà mai di farlo per davvero. Il denaro è una astrazione fondata sulla fiducia.

Sempre grazie alla fiducia il credito dilata il tempo tra passato e futuro. Non abbiamo il denaro per comprare una casa. Una banca ce lo presta, dopo aver verificato nel nostro passato le entrate di cui godiamo e quindi la nostra affidabilità nel futuro come risarcitori del prestito. Noi ci impegniamo a ripagare il debito nel tempo con un qualcosa in più (gli interessi) che rappresenta il profitto della banca. Ma a questa forma semplice di credito – acquisto di denaro diluito nel tempo – se ne aggiungono molte altre in cui invece il denaro lo mettiamo noi per comprare altri fogli di carta che promettono di restituirci quel denaro dopo un certo tempo con gli interessi. Talvolta quei fogli di carta li emettono gli stati e vanno a comporre il debito pubblico. Anche lo stato compra tempo grazie alla finanza. Per continuare ad erogare i suoi servizi indispensabili (scuola, sanità) ci chiede il denaro che nel presente non ha, perché succede che le entrate fiscali non bastino.

Secondo un grande storico, Reinhart Koselleck, il tempo della storia riflette la condizione antropologica degli esseri umani: lo spazio dell’esperienza che vive nel presente e l’orizzonte delle aspettative che si proietta nel futuro:

Per fare un semplice esempio: l’esperienza dell’esecuzione capitale di Carlo I d’Inghilterra apre, oltre un secolo dopo, l’orizzonte di aspettativa di Turgot, che esorta Luigi XVI a concedere riforme destinate a salvarlo dallo stesso destino. Turgot mette inutilmente in guardia il suo re. Ma rende esperibile e comprensibile una connessione temporale fra la rivoluzione inglese, passata, e quella francese, futura, connessione che va al di là della pura cronologia. La storia concreta matura nel medium di esperienze determinate e di determinate aspettative.

Anche la finanza, come ogni altro aspetto dell’economia, vive a cavallo di questa doppia dimensione. È un discorso affascinante che ci porterebbe lontano. Le neuroscienze ci dicono che il nostro stesso cervello funziona come un ponte tra la memoria del passato, la percezione del presente e la proiezione del futuro. Come a tennis quando vediamo partire la pallina e, in base alla nostra esperienza pregressa, spostiamo braccio e racchetta là dove pensiamo possa arrivare. O come quando, appunto, impieghiamo del denaro in un modo che speriamo possa portarci dei benefici o delle sicurezze. La fisica del Novecento ci insegna che il tempo non è più l’entità assoluta, indipendente e oggettiva teorizzata da Newton, bensì una rete di relazioni che dipende da posizione e movimento degli osservatori e degli oggetti osservati. Anche il denaro e il credito hanno un tempo che dipende dalla fiducia che intercorre tra chi li manovra: se c’è fiducia può essere un tempo lungo, se smette di esserci diventa un tempo molto corto.

La crisi del 2008 ha messo davanti agli occhi di tutti la fragilità della macchina del tempo incarnata dalla finanza. Ne sono stati ricostruiti gli aspetti salienti. Ma rimane il problema che le crisi finanziarie – proprio per quella leggerezza e maneggevolezza del denaro, gli economisti la chiamano «volatilità» – sono un evento piuttosto frequente. Solo per restare nei due decenni precedenti il 2008, si possono contare: la crisi del debito estero di molti paesi in via di sviluppo negli anni ottanta, il crash di Wall Street (dove ha sede la Borsa di New York) nel 1987, la crisi del Messico a metà degli anni novanta e quella del sudest asiatico nel 1997, lo scoppio della bolla legata alla new economy di Internet nel 2000. Grosso modo possono essere crisi di tre tipi: bilanci delle banche, tassi di cambio tra le monete, indebitamento degli stati. Mi sembra però significativo che uno dei libri importanti in materia, scritto da due professori di economia di Harvard ed ex dirigenti del Fondo Monetario Internazionale, rechi nel sottotitolo il termine «follia». Se una follia dura per otto secoli può ancora definirsi tale?

Il problema è che le due dimensioni del tempo umano descritte da Koselleck – l’esperienza del presente e l’aspettativa del futuro – nel mondo della finanza non riescono a restare collegate in modo coerente e spesso la seconda travolge la prima. In altre parole più semplici, come se la finanza fosse inesorabilmente condannata a fare il passo più lungo della gamba. Nel 1637 in Olanda un tulipano era arrivato a costare come un anno di salario o un pezzo di terra. Tutti sapevano che era una follia e non poteva durare, ma finché durava potevi guadagnarci se compravi e rivendevi alla svelta i tuoi pezzi di carta. Finché uno o tanti non rimangono con l’uomo nero in mano. Diversi «maghi» della finanza – John Law nella Francia di primo Settecento, Charles Ponzi negli Stati Uniti degli anni venti del Novecento, Bernie Madoff nel 2008 – hanno accumulato fortune provvisorie finite in rovina, vendendo carta a investitori accecati dalla possibilità di fare soldi in fretta. Ma sono un’eccezione. Quasi tutti i manager responsabili della crisi del 2008 sono stati compensati con liquidazioni miliardarie prive di qualsiasi nesso con i loro effettivi risultati. Gli azionisti nei consigli di amministrazione le hanno erogate insieme ai propri altrettanto generosi dividendi. Chi ne ha fatto le spese sono i lavoratori licenziati dalle imprese cui, di conseguenza, banche e società finanziarie hanno tutto a un tratto negato ogni credito. Ridistribuendo i rischi fra tanti, la finanza garantisce che alla fine non vi sia nessun colpevole. È come un mondo a parte che si autoalimenta da sé, al di fuori e contro il mondo reale delle imprese e dei posti di lavoro.

Esiste un momento della storia – difficilmente localizzabile con precisione tra 1690 e 1830 – in cui le crisi finanziarie smettono di essere crimini individuali perseguibili e diventano una sorta di catastrofi naturali con troppi soggetti coinvolti (compresi re e dignitari) per essere giudicati come colpevoli. Oggi si direbbe too big to fail, troppo grandi per fallire quindi talmente potenti da richiedere e ottenere impunità.

Non potrebbe allora aver ragione uno studioso eterodosso e un po’ snobbato dagli economisti, come Hyman Minsky? Al nome di quest’ultimo è legata una financial instability hypothesis direttamente collegata al ruolo della finanza come macchina del tempo. Per sua stessa natura, sostiene Minsky, la finanza alterna cicli di ottimismo capaci di produrre bolle di credito – come quella dei tulipani – destinate a scoppiare e tradursi in vendite incontrollate del denaro di carta alla ricerca del denaro vero, per poi riconvertirsi in cicli di depressione economica causati dal calo dei prezzi. Economisti e storici (compresi Reinhart e Rogoff) ci ricordano che non c’è niente di fatale nelle crisi finanziarie. A originarle sono diversi fattori combinati tra loro: attenuazione delle regole e sistemi bancari fragili perché sottocapitalizzati, deficit di bilancio degli stati nazionali, flussi di capitali stranieri, credito facile e indebitamento di famiglie e imprese. C’è stato un periodo, tra la fine della seconda guerra mondiale e lo shock petrolifero del 1973, senza crisi finanziarie (lo dimostra la Figura 1 del capitolo 4): perché le regole imposte dai governi in seguito a quella che in America chiamano Grande Depressione e noi chiamiamo crisi del 1929 hanno tenuto a bada l’avidità. Molti storici chiamano quel periodo «età dell’oro», perché tutto il mondo – compresa l’Africa subsahariana – è cresciuto in capacità di produrre e consumare, ma anche in lunghezza della vita, a ritmi mai visti né prima né dopo. Ed è stato un periodo relativamente pacifico, anche se sarebbe più esatto dire meno belligerante. Milioni di cittadini europei, americani, giapponesi hanno comprato case grazie a mutui sottoscritti con le banche, che hanno ripagato nel tempo senza problemi. Esiste una finanza «buona» che è indispensabile per la vita economica di ogni gruppo umano, perché funziona come nella parabola dei talenti nella Bibbia (Mt. 15, 14-30). Chi sotterra il denaro invece di farlo fruttare non rende un buon servizio alla collettività. Se le banche funzionassero come il deposito di Paperone sarebbero inutili. Fanno profitti perché impiegano i soldi che ricevono in deposito per prestarli ad altri che ci avviano imprese o ci comprano cose: in entrambi i casi creando o sostenendo altri posti di lavoro. In condizioni normali la finanza non è un parassita che mangia risorse all’economia reale. Anzi succede il contrario.

Se però le crisi finanziarie continuano a susseguirsi, è il segno che i capitalisti da soli non sono in grado di badare a loro stessi. In apparenza, questo libro inizia parlando d’altro. Il primo capitolo racconta infatti le scelte sciagurate compiute da una compagnia privata petrolifera statunitense, la Exxon, negli anni ottanta del Novecento per nascondere al mondo quanto allora già sapevano con sufficiente certezza i suoi scienziati in materia di riscaldamento ambientale. La mia interpretazione mette in relazione quelle scelte con un certo modo di fare finanza che, nello stesso periodo, penetra molte imprese, non solo la Exxon. Il secondo capitolo si occupa infatti di come aziende grandi e piccole in tutto il mondo siano trasformate da processi di finanziarizzazione che tolgono denaro agli investimenti produttivi per convogliarlo in operazioni speculative autoreferenziali sui circuiti borsistici, se non addirittura congelarlo in paradisi fiscali (che oggi ospitano l’equivalente di un decimo del prodotto lordo mondiale). È un nuovo money manager capitalism che arricchisce in modo smisurato una ristretta élite, comprime i salari e gli stipendi dei lavoratori dipendenti e aumenta le ineguaglianze sociali. I paesi occidentali ne escono più fragili e vulnerabili, soggetti a ricorrenti esplosioni di malcontento tanto potente quanto meramente distruttivo.

Si ricorre spesso al termine di «neoliberismo» per spiegare tutto ciò. Ma è una scorciatoia. La finanza globale non nasce con Reagan e Thatcher. Il terzo e il quarto capitolo raccontano le interazioni tra le reti finanziarie globali che si sviluppano negli anni sessanta del Novecento e la geopolitica mondiale. Per sfuggire alle regolazioni delle politiche nazionali, masse crescenti di dollari si muovono oltreconfine negli interstizi dell’economia globale. Corrispondono agli investimenti delle compagnie multinazionali ma anche ad operazioni di credito interbancario. Sono i cosiddetti «eurodollari». Cui dopo il 1973 si aggiungono i «petrodollari», messi in moto dal quadruplicare del prezzo del petrolio. Si gonfia così un mercato globale di capitali, fare a meno del quale diventa sempre più difficile non solo per imprese, banche, fondi di investimento, ma anche per gli stessi governi alle prese con le spese crescenti dello stato sociale. A partire dal 1971 e dalla decisione degli Stati Uniti di sospendere la convertibilità tra dollaro e oro, la politica cancella i vincoli alla libera circolazione del denaro, stabiliti negli anni trenta e confermati alla conferenza di Bretton Woods (1944). Si consolida così una «ricchezza esterna delle nazioni» fatta di investimenti all’estero, di denaro di carta sotto forma di buoni pubblici e privati, di riserve in monete straniere, di paradisi fiscali incontrollati. Questa ricchezza esterna disegna una mappa parallela del globo, dove gli Stati Uniti e la zona euro risultano primi per distacco, con debiti attorno ai duemila miliardi (contro i quasi 150 della Russia) mentre la Cina è in attivo per oltre 700. In termini di volume complessivo, la curva secolare della finanza globale somiglia a quella del logo della Nike: tocca un primo picco alla vigilia della Grande Guerra, declina al tempo della Grande Depressione tra le due guerre mondiali, conosce un moderato aumento dopo il 1945, accelera progressivamente dopo il 1973. La crisi del 2008 impone solo un temporaneo stop.

Ma più diventa grande e potente, più la finanza globale accresce la propria instabilità, fino alla presunzione – negli Stati Uniti, più puritani di noi, si chiama moral hazard – di poter sempre contare sul salvataggio di stato a spese dei contribuenti, in caso di mala parata. La politica diventa ostaggio della finanza. Ancora nel 2008 la scelta – conseguente alla lezione appresa nella crisi del 1929 – è di salvare le banche, non di aiutare i cittadini indebitati. Negli anni trenta quattro successive ondate di fallimenti bancari distrussero un terzo del sistema bancario statunitense (circa 9.700 banche su 25.000). Nel 2008 i fallimenti bancari sono un’eccezione (489 su più di 8.000). Il rovescio della medaglia è che i mutuatari aiutati dai programmi governativi negli Stati Uniti del 2008 sono circa tre milioni: appena il 6% del totale, quando ancora nel 2013 sono più di 10 milioni (quasi un quarto) quelli con un debito maggiore del valore della casa acquistata. In proporzione, quelli salvati negli anni trenta furono molti di più (quasi un milione, pari a un quinto del totale). Dopo il 2008 su entrambe le sponde dell’Atlantico si fa strada una reazione populista contro l’alleanza tra finanza e potere, nella fattispecie degli Stati Uniti tra partito democratico e Wall Street, in quella dell’Europa tra banchieri e politiche economiche di austerità, affamatrici del popolo. Lo spazio per una politica capace di indirizzare gli animal spirits dell’economia a vantaggio di tutti si restringe.

Il quinto capitolo cerca di delineare quale ritratto dell’Occidente esce da questo connubio con la finanza. Ha perso davvero la leadership manifatturiera? E quella dell’innovazione tecnologica? Quale forza concreta esercitano i giganti del web come Google-Alphabet o Facebook-Meta? Dove conduce la transizione post-industriale? Quanta ineguaglianza può reggere la democrazia? Che tipo di capitalismo abbiamo di fronte? A ognuna di queste domande lo sviluppo della finanza globale offre una parte di risposta. Nel senso che è responsabile di una perdita di slancio sia imprenditoriale, sia civile. La politica non riesce più ad esercitare un ruolo di missione a lungo termine e si riduce a sopravvivenza di piccolo cabotaggio. L’Occidente non è capace di governare la globalizzazione, pur essendone ancora il centro animatore.

Il sesto capitolo racconta la strada diversa scelta dalla Cina. Alla fine del 1978 Deng Xiaoping – primo neoliberista della storia – liberalizza i mercati rurali e apre il paese ai capitali stranieri. Stati Uniti e Cina intrecciano allora i loro destini. Gli investimenti esteri dei primi sostengono l’ascesa industriale della seconda, che arriva a penetrare molte zone del globo (Africa, Asia centrale, Balcani) non più con la forza dell’ideologia comunista – come accadeva all’URSS – ma con la forza di prodotti e capitali a basso costo. La collocazione cinese nei flussi commerciali e finanziari globali, diversamente da quella sovietica e poi russa, si fonda non su materie prime, ma su una ampia e diversificata offerta di manufatti industriali. La rivalità USA-Cina presenta così inedite differenze rispetto alla Guerra Fredda tra USA e URSS. Una di queste riguarda proprio la finanza. La Cina è infatti la massima detentrice straniera (insieme al Giappone) dei buoni del Tesoro statunitense mentre gli Stati Uniti rappresentano il mercato di gran lunga più importante per l’export cinese. Pechino potrebbe vendere i suoi titoli americani, deprezzando il valore del dollaro. Ma si darebbe la zappa sui piedi perché danneggerebbe le sue esportazioni e svaluterebbe anche le sue riserve valutarie (che sono in larga maggioranza composte da dollari).

È difficile sopravvalutare il ruolo della finanza nella nuova guerra fredda che si viene svolgendo tra le due potenze. Gli effetti negativi di un eccesso di finanza (ineguaglianze, polarizzazione politica, calo di investimenti e produttività) sono già pienamente visibili negli Stati Uniti, ma ancora solo incipienti in Cina. La crisi del 2008 agisce da spartiacque perché ridimensiona drasticamente l’export cinese e obbliga il governo di Pechino a riconvertire il proprio modello di sviluppo in direzione della domanda interna anziché di quella estera. Ma ineguaglianze di reddito cresciute rapidamente (fino a raggiungere quelle degli Stati Uniti) complicano tale svolta. L’accelerazione impressa da Xi Jinping (presidente dal 2013) sulla questione di Taiwan risponde anche a tali difficoltà. Come spesso accade alle dittature, un atteggiamento «muscolare» sul piano internazionale serve a compensare debolezze e difficoltà in casa propria. È un terreno di oggettiva convergenza tra Putin e Xi, cui l’Europa e l’Occidente in genere prestano ancora poca attenzione. D’altra parte, è bene ricordare che alla vigilia della guerra in Ucraina la Russia era la destinataria di meno del 2% delle esportazioni cinesi; gli Stati Uniti il 18%, l’Europa occidentale il 14%. Pare difficile che Putin possa convincere Xi a costruire un blocco commerciale antagonista a quello occidentale.

I due capitoli finali provano a cambiare punto di vista. Si affrontano materie – poveri e microcredito, migranti e rimesse – che non compaiono nelle storie della finanza. Le donne che a Chennai in India (l’antica Madras) campano di vendita ambulante, lavorano con merce e carretto presi a prestito ogni giorno. Ogni sera ripagano il prestito con il ricavato della giornata, più un tasso di interesse che nel 2007 è attorno al 5%: un po’ più basso di quello ufficiale. Quando arrivano i volontari delle organizzazioni non governative che gli allungano e riducono le condizioni del prestito ripagando anche i debiti pregressi, sono contente ma nel giro di qualche mese tornano dai prestatori che conoscevano prima. Anche per queste donne la risorsa principale è la «reputazione»: l’essere cioè immerse in un tessuto di relazioni sociali e fiduciarie su cui possono contare. I miei strozzini li conosco; i volontari di fuori vanno e vengono. Non è una novità. I poveri della Londra ottocentesca raccontati da Dickens compravano il tè o lo zucchero più di settanta volte in un mese.

In chi non ha soldi la dimensione del tempo si riduce al «giorno per giorno»: una vita precaria e fragile distrugge la capacità di immaginare il futuro. Ecco perché un microcredito diffuso ed efficiente diventa una condizione decisiva per combattere la povertà. Perché è lo strumento per insegnare una dimensione del tempo differente, per cambiare una forma mentale prostrata dal bisogno e riaprirla all’ottimismo. Ecco a cosa serve una finanza «buona».

Il paradosso è che le donne di Chennai tornano dai loro strozzini per non perdere la fiducia del proprio ambiente. Nelle giornate cruciali del settembre 2008 i manager di Lehman che hanno sostituito montagne di carta legale ma fasulla a quella fiducia, si attaccano al telefono per implorarla all’ultimo momento. Senza riceverla. La musica è finita, la macchina del tempo smette di funzionare, chi resta col cerino acceso in mano si brucia. Ma senza un po’ di finanza «buona» le donne di Chennai sono condannate a non uscire dalla loro trappola della miseria.

I poveri non stanno tra noi per caso. La globalizzazione non è un pranzo di gala. Produce vincenti e perdenti. I secondi arrivano a bussare alla porta delle nostre case, nella qualità di migranti. Non sono pazzi o disperati, né una novità della storia. Non sono un’emergenza e presentano analogie e differenze significative con i loro «colleghi» dei secoli scorsi (tra i quali molti nostri connazionali). Solo studiandole in profondità possiamo disegnare soluzioni efficaci del problema, se non vogliamo limitarci al lavoro sporco degli imprenditori politici della paura che si limitano a sfruttarlo per conquistare qualche voto. Grazie a stili di vita che spesso noi indigeni giudichiamo incivili ma che sono frugali per necessità di risparmio, i migranti riescono a mandare a casa una quantità di denaro che eguaglia gli investimenti esteri delle multinazionali e surclassa gli aiuti ufficiali dei paesi ricchi ai paesi poveri. Questa finanza domestica «fai da te» arriva direttamente nelle situazioni di bisogno, a differenza degli altri flussi di denaro. Ma solo raramente riesce ad impattare positivamente e in modo duraturo sulle condizioni di vita delle comunità d’origine dei migranti.

Cambiare il punto di vista sulla finanza significa muoversi entro questa dimensione micro di donne e uomini in carne ed ossa che la subiscono, anziché padroneggiarla a proprio uso e consumo. Troppo spesso i modelli statistici di cui si cibano le scienze economiche (come la curva di Kuznets che coniuga industrializzazione e uguaglianza) dimenticano questo punto di vista e questa dimensione. Ma per riallargare lo spazio di un governo razionale della finanza, occorre tornare dai miti antisemiti e dai modelli econometrici ai fatti. La macchina del tempo incarnata dalla finanza lavora a ritmi differenti. Possono essere lunghi e pazienti quando una banca nutre fiducia nelle persone e nelle imprese cui ha prestato denaro per investimenti e aspetta che i proventi possano materializzarsi mettendo così i debitori in condizione di rifondere il debito. Possono essere invece spasmodici durante i cicli boom and bust, di ascesa rapida e declino altrettanto rapido delle quotazioni e dei prezzi, quando si compra e si vende con frenesia, in preda prima alla speranza e poi alla paura. Spesso si immagina la finanza come un ambiente particolarmente popolato da individui avidi, aggressivi e senza scrupoli. Come in tutte le altre sfere della vita sociale, in certi casi è anche vero. Di norma, però, sono giovani impiegati di società e banche di investimento che devono ogni giorno far fruttare il denaro che è stato affidato loro da singoli risparmiatori, fondi di investimento, fondi pensione di lavoratori. Sono migliaia sparsi per il mondo e per rispondere ai loro clienti devono farsi concorrenza fra loro, alla ricerca di opportunità per investire. Il tempo per loro è assai più spesso concitato che paziente e fiducioso.

Sarebbe molto semplice pensare questo mondo sotto forma di una cospirazione unica e onnipotente. Ma se lo fosse davvero non ci sarebbero le crisi finanziarie. Se ci sono e anzi si ripetono ostinatamente nel tempo, vuol dire che la finanza, come tutte le altre sfere della vita sociale, è il prodotto del continuo conflitto tra attori diversi: singoli ed enti collettivi sempre in movimento alla ricerca di profitti, ciascuno secondo le proprie strategie o scelte avventate. Il denaro di carta, incarnato dai prodotti finanziari venduti ai risparmiatori, si moltiplica in forme sempre nuove: per inventarle basta fantasia. Non c’è bisogno del tempo e della fatica necessari per gli investimenti in attività produttive reali. È naturale per gli addetti alla finanza farsi prendere dall’euforia. Per non cadere preda dell’agitazione irrazionale hanno bisogno di regole. Non facili da costruire e implementare. Ci sono stati tre successivi accordi di Basilea (1988, 2004, 2010) per dirimere la materia in sede internazionale e ancora non bastano. La legge Dodd-Frank per la riforma di Wall Street e la protezione del consumatore approvata nel 2010 dal Congresso degli Stati Uniti è lunga più di ottomila pagine. È difficile mettere il sale sulla coda della finanza. Ma per quarant’anni, tra 1933 e 1973, ci siamo riusciti. Potremmo e dovremmo riuscirci anche adesso.

Il nostro tempo, però, reca con sé un problema ulteriore, che è in fondo alla radice anche della guerra in Ucraina. La Grande Depressione di quasi un secolo fa avvenne nel contesto di un primato quasi incontrastato dell’Occidente in campo produttivo e tecnologico. La Grande Guerra aveva insinuato più di un dubbio, ma larghe zone del mondo erano ancora soggette al dominio coloniale degli imperi. La crisi del 2008 invece avviene in una situazione in cui il primato dell’Occidente non è più così esclusivo e i meccanismi della finanza si sono estesi ben oltre i suoi confini. Regolare la finanza in un solo paese rischia di essere inutile e anzi controproducente, perché i capitali possono oggi sfruttare una facilità e rapidità di movimento senza precedenti (grazie alle reti telematiche). E quindi spostarsi in altri paesi, con esiti rovinosi per le economie nazionali che lasciano in panne: è quanto succede a diversi paesi del sudest asiatico nel 1997. Per sua stessa natura, la finanza è un argomento di World History, dove i flussi transnazionali (di persone, merci, idee e appunto soldi) contano più delle frontiere statali. Per regolarla a beneficio di tutti – alla pari di altre emergenze che abbiamo di fronte (clima, migrazioni, ineguaglianze, energia, pandemie) – c’è bisogno di una politica nuova, a livello della collaborazione tra governi.

Tra le trappole che la globalizzazione porta con sé, infatti, ne esiste una particolarmente insidiosa. Se mi diventa più facile commerciare e fare affari con chi sta lontano, non ho più bisogno di chi mi sta vicino. La globalizzazione moltiplica il numero di stati e le spinte secessioniste. A ben vedere, anche la guerra in Ucraina comincia così. Con le regioni orientali che pretendono di scegliersi un nuovo padrone al posto dei connazionali di cui non si fidano più. A Putin fanno gioco perché gli interessa un disegno neoimperiale e la narrazione più o meno fantasiosa che vi sta dietro. Cosa può opporre l’Occidente?

Il mito americano di una società prospera e felice sembra un po’ appannato. Anche per colpa degli eccessi finanziari. Ma siamo proprio certi che la crescita dell’economia reale (occupazione, reddito, produttività, tecnologie…) sia sempre e comunque cosa buona? La mia umile ma convinta risposta, che occupa l’ultimo capitolo, è sì. La storia degli ultimi due secoli ci insegna che lo sviluppo economico si accompagna all’allungamento della vita e al calo del numero di uomini e donne che non sanno né leggere né scrivere. In molte zone della Terra è un cammino recente che merita di essere continuato. Dal 2010 il numero medio di figli per donna diminuisce, insieme al ritmo annuo di incremento della popolazione mondiale. E insieme al numero di persone classificabili come povere. La guerra ricaccia indietro questo mutamento. Per proseguirlo in avanti bisogna che la politica riscopra la sua originaria missione di soluzione collettiva dei problemi con l’obbiettivo di non lasciare indietro nessuno. Di restituire a tutti speranza e fiducia nel futuro. La finanza «buona» del microcredito e delle rimesse può dare una mano.

L’ultimo capitolo si collega così al primo sulle malefatte della Exxon, perché definisce la finanza come un bene comune, alla pari del pianeta che abitiamo. Entrambi hanno bisogno di regole, cura, manutenzione. Non sappiamo se ce la faremo. I dinosauri sono vissuti per milioni di anni; le civiltà umane per poche migliaia. Eppure in questo poco tempo abbiamo già distrutto metà della biomassa vegetale del pianeta e oggi il 96% dei mammiferi della Terra vive in allevamento. Per immagazzinare carbone nei giacimenti sotterranei della crosta terrestre ci sono volute centinaia di milioni di anni. Nel giro di appena due secoli l’abbiamo bruciato su scala industriale alterando in modo sensibile l’aria che respiriamo. Negli ultimi settanta anni tra cantieri, piantagioni, cave e miniere abbiamo smosso una quantità di terra che è sette volte quella mossa da fiumi e vulcani nello stesso arco di tempo ed è trenta volte quella lavorata dall’uomo nei settant’anni precedenti. Il tempo geologico non è il tempo dell’uomo. Eppure abitiamo entrambi. Fino dal 2002 il chimico olandese Paul Crutzen, premio Nobel nel 1995 per i suoi studi sull’atmosfera, propone di definire questa nuova era, contrassegnata dall’impronta ecologica in accelerazione della specie umana, col nome di Antropocene.

Homo sapiens ha perso la coscienza del fatto che, a immagine e somiglianza dei propri processi vitali dipendenti dal ciclo ossigeno-carbone mediato dai polmoni, anche la biosfera dipende dal ciclo planetario di ossigeno e carbone. Il fenomeno di una specie di mammiferi che si rende responsabile di un’estinzione di massa merita una spiegazione in termini di evoluzione darwiniana […] Avendo perduto il senso di reverenza verso la Terra, non c’è prova che gli esseri umani siano capaci di elevarsi sopra il dominio di percezioni, sogni, miti, leggende e rimozioni […] In balia di una maggioranza indifferente di fronte a un cambiamento climatico rapido, disinformata da interessi organizzati e da media conniventi, tradita da leader pusillanimi e scoraggiata dall’enorme dimensione di quanto sta accadendo oltre ogni potere umano […] l’umanità precipita verso catastrofi senza precedenti.

Sono parole amare, scritte da un geologo e uno zoologo, ben prima della guerra in Ucraina. Inutile dire che lo scoppio di tale conflitto ne rafforza drammaticamente il significato. Non si può escludere che tra i piani di Putin rientri anche un’accelerazione del cambiamento climatico ai danni del sud del mondo, ma a vantaggio della Russia. Sono parole che però hanno il merito di riferirsi alla specie umana come un tutto unico. Gli storici sono invece abituati (lo fa anche questo libro) a scomporre l’umanità in parti: classi, nazioni, paesi ricchi e poveri, colonizzatori e colonizzati. Nasce da tali divisioni anche la ripulsa di una responsabilità comune: secondo alcuni dovremmo chiamare la nuova era geologica non Antropocene ma Capitalocene, in omaggio al fatto assodato che le emissioni di anidride carbonica derivanti dall’uso di combustibili fossili aumentano a partire dalla rivoluzione industriale inglese.

Marx non usa il termine capitalismo: preferisce parlare di capitalisti al plurale e di modo di produzione capitalistico. Storici illustri – come Fernand Braudel – vi hanno invece fatto ricorso per indicare una simbiosi tra poteri economici e poteri politici, fiorita al tempo delle repubbliche marinare italiane e dei Paesi Bassi nel xvii secolo, fino alla Compagnia delle Indie britannica sciolta nel 1874. Oggi tale simbiosi è meno evidente: forse vale di più per la Cina comunista. Ma è già più difficile ipotizzare una organica comunità di intenti tra Casa Bianca e multinazionali del web come Google o Amazon. Anche il capitalismo, alla pari della finanza, non è una congiura ma il risultato di molteplici spinte individuali e collettive. Se lo si scompone a questo livello analitico, smette di essere un colosso incontrastabile per assumere la forma più umana e complicata (ma governabile) di interessi, rappresentanze, pressioni.

Proprio per questo è possibile attribuire alla categoria Antropocene il senso di una responsabilità consapevole, del tutto inedita nella storia umana perché estesa appunto all’intero pianeta e all’intera umanità. Come abbiamo accelerato il mutamento, così spetta a noi esseri umani farsi carico delle conseguenze, senza rassegnarsi all’apocalisse. In fondo, abbiamo già mosso alcuni primi passi in questa direzione secondo quanto si è cominciato a progettare lungo la strada che porta all’accordo di Parigi del 2015: fonti di energia rinnovabili, riduzione e neutralizzazione delle emissioni, raccolta dell’acqua piovana, allevamento sostenibile… È una battaglia politica appena aperta e dall’esito tutt’altro che scontato. A ben vedere, quella per una finanza «buona» non è poi troppo diversa.

1.Come perdere apposta mezzo secolo
1.1. Effetto serra

La ExxonMobil è una delle più grandi compagnie petrolifere private del mondo. Nasce nel 1999 dalla fusione di Exxon e Mobil, entrambe discendenti della Standard Oil fondata nel 1870 da John Davison Rockefeller. È quindi logico che negli Stati Uniti (altrove assai meno) abbia fatto scalpore nel 2016 la denuncia pubblica della ExxonMobil per «condotta moralmente riprovevole» da parte del Rockefeller Family Fund, diretto dagli eredi di John Davison.

Ci sono prove che suggeriscono come la compagnia abbia lavorato fino dagli anni ottanta per confondere l’opinione pubblica sulle dinamiche del cambiamento climatico, e nello stesso tempo abbia continuato a spendere milioni di dollari per rafforzare la propria infrastruttura contro le distruttive conseguenze del cambiamento climatico e ad esplorare nuovi giacimenti sfruttando la ritirata dei ghiacci dell’Artico. Le autorità preposte accerteranno se la compagnia abbia violato la legge, ma, in termini di buongoverno, non possiamo essere associati a una compagnia che manifesta un così chiaro disprezzo per l’interesse comune.

È raro e paradossale che una dinastia imprenditoriale finanzi un’inchiesta giornalistica contro la fonte delle proprie ricchezze – anche se le azioni possedute dai Rockefeller sono da tempo una minima frazione del totale – e venga perciò chiamata in causa dalla stessa compagnia di famiglia. Ma è quanto accade. Alla fine del 2015 i risultati dell’inchiesta vengono pubblicati sul «Los Angeles Times» e la ExxonMobil cita in giudizio il Rockefeller Fund presso il tribunale federale di New York. Nel dicembre 2019 il processo raggiunge una prima conclusione: la ExxonMobil non ha nascosto ai propri azionisti i costi ambientali del cambiamento climatico. Ma la battaglia non è conclusa. Altri procuratori generali degli Stati Uniti (New York, Massachusetts, California) aprono inchieste sulla ExxonMobil. La posta in palio è altissima e ricorda da vicino l’azione legale intrapresa contro le compagnie del tabacco fino dagli anni sessanta: una sentenza sfavorevole alla ExxonMobil aprirebbe la strada a risarcimenti colossali.

Si tratta di una storia lunga e complicata. Che comincia negli anni sessanta quando la Exxon apre una divisione di ricerca su fonti di energia alternative come l’energia solare. Risale invece al 1978 il primo documento interno della Exxon con espliciti riferimenti all’«effetto serra», provocato dalle emissioni di anidride carbonica (CO2) almeno in parte dovute all’uso di combustibili fossili come carbone e petrolio. Secondo le osservazioni rilevate da diversi laboratori in Alaska, Antartico, Hawaii, sono in costante incremento dal 1957.

L’effetto serra è stato materia di numerose conferenze scientifiche internazionali nel corso degli ultimi due anni. Questi incontri hanno individuato le informazioni necessarie per stabilire definitivamente l’origine e il significato complessivo dell’aumento di CO2 nell’atmosfera. La linea di pensiero attuale ritiene che l’umanità abbia di fronte una finestra temporale da cinque a dieci anni prima che possa diventare critica la necessità di decisioni forti riguardo a cambiamenti nelle strategie di approvvigionamento energetico […] La stragrande maggioranza della comunità scientifica attribuisce l’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera alla combustione dei carburanti fossili.

Negli Stati Uniti il documento interno alla Exxon precede di un anno il cosiddetto Charney Report (dal nome del meteorologo del Massachusetts Institute of Technology alla guida del gruppo di ricerca del National Research Council) che nel 1979 per la prima volta in sede pubblica suona l’allarme sul riscaldamento globale da concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera per effetto di emissioni e deforestazione.

La precoce attenzione della sezione ricerca della Exxon non è casuale. Per la compagnia infatti non sono anni facili. Lo shock petrolifero del 1973 e l’ascesa a nuovo soggetto globale della Organization of the Petroleum Exporting Countries (OPEC) si traducono nella nazionalizzazione di giacimenti in Venezuela, Arabia Saudita, Libia, Iran. Nel corso degli anni settanta la quota di mercato controllata dalle compagnie petrolifere di stato cresce da zero fino al 40%. Di conseguenza la produzione di barili di Exxon si riduce di due terzi, trasformando progressivamente l’azienda da produttore a compratore. La compagnia diversifica gli investimenti aprendo nuovi settori di attività: nucleare, microelettronica, semiconduttori, motori elettrici, minerario. Nondimeno, per le competenze che le derivano dalle esplorazioni sul campo e dalle rilevazioni condotte dalle sue superpetroliere sulle temperature degli oceani, Exxon anticipa o quanto meno accompagna la prima sensibilizzazione della comunità scientifica in materia di riscaldamento globale. Harold Weinberg, capo del Research and Engineering Feasibility Center della Exxon, si entusiasma.

Propongo che Exxon sia l’iniziatrice di un programma mondiale di ricerca sulla «CO2 in atmosfera» […] Questa può essere l’opportunità che cerchiamo per collocare le risorse di tecnologia, organizzazione e leadership della Exxon nel quadro di un progetto finalizzato al bene dell’umanità. Niente potrebbe essere più appropriato per la compagnia leader mondiale nel campo dell’energia e del petrolio che prendere la guida della ricerca per chiarire se un problema di lungo termine con l’anidride carbonica esiste davvero e, nel caso, quali contromisure dovrebbero adottarsi.

Le ricadute dell’entusiasmo di Weinberg sono immediate. Alla fine del 1979 un rapporto interno scritto da Steve Knisely presenta i risultati di uno studio sui potenziali impatti della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera terrestre. La previsione, ricavata dalle ricerche scientifiche esistenti in materia, è che entro il 2050 si manifestino «dramatic environmental effects». Il documento si limita ad enumerare le alternative rappresentate dai combustibili non fossili (nucleare, geotermico, biomasse, idroelettrico e solare) precisando che agli attuali ritmi di sviluppo nessuno di essi può sostituire i carburanti fossili. Ma lo scenario simulato per il 2050 in assenza di limiti alle emissioni di CO2 prevede un raddoppio della concentrazione in atmosfera rispetto al 1860, un aumento di 5 gradi di temperatura rispetto al 1950, l’innalzamento degli oceani di più di un metro, lo scioglimento dei ghiacci polari, una fascia equatoriale quasi inabitabile. Il rapporto Knisely non è pacifico né scontato. Suona come la critica di un articolo appena pubblicato da Reginald Newell, del dipartimento di meteorologia del MIT (Massachusetts Institute of Technology), secondo il quale l’evaporazione marina può mitigare di molto l’effetto serra. Ma viene anche dopo le prime legislazioni ambientaliste, con il Clean Air Act e il Water Quality Improvement Act varate in concomitanza del primo Earth Day (1970) proclamato dalle Nazioni Unite. Il drammatizzante impulso esogeno dato dallo shock petrolifero del 1973 rafforza la spinta verso nuove forme di consumo energetico.

Giudicare le cose col senno di poi comporta sempre il doppio rischio di sottovalutare i cambiamenti imponendo metri di giudizio emersi in seguito e quindi anacronistici, oppure di sopravvalutarli assumendo il punto di vista soggettivo di chi li vive da protagonista e li considera alla stregua di continue rivoluzioni. Lo stesso vale per la storia di Exxon. Secondo l’inchiesta condotta da «Inside Climate News» e fondata su diverse interviste a quadri esecutivi della compagnia, le posizioni di Black, Weinberg, Knisely fanno capo a un team di ricerca che nei primi anni ottanta si colloca all’avanguardia sia nelle osservazioni empiriche, sia nella modellistica dell’effetto serra sul cambiamento climatico. La Mobil, per esempio, sembra assai meno preparata in materia e soprattutto non capace di ricerca indipendente. Per Exxon invece si tratta della conseguenza naturale del precoce sviluppo della divisione ricerca dell’azienda. Inizialmente con un milione di dollari (una piccola frazione del budget annuale di 300 milioni assegnato alla sezione ricerca e sviluppo) poi portati a 300, viene finanziata nell’estate 1979 la missione di una superpetroliera del gruppo, la Esso Atlantic, in navigazione tra Golfo del Messico e Golfo Persico, dotata di strumenti per la rilevazione della quantità di anidride carbonica nell’aria e nell’acqua. Soprattutto quest’ultima variabile, corrispondente alla quantità di emissioni assorbite dagli oceani, rappresenta il tassello mancante nei modelli temporali elaborati dal gruppo di ricerca per capire il tempo a disposizione prima che gli effetti del cambiamento climatico si manifestino pienamente.

1.2. Ritorno all’ordine

La Esso Atlantic parte con la sua strumentazione d’avanguardia nell’estate 1979 e nell’arco di due anni effettua rilevazioni periodiche della concentrazione di anidride carbonica, della salinità e della temperatura delle acque di Atlantico e Pacifico. Henry Shaw, dirigente dell’area ambientale nel centro diretto da Weinberg, viene spostato a dirigere il progetto ed è tra gli autori dell’articolo che pubblicamente lo illustra in dettaglio. Ma al momento della pubblicazione il progetto è già stato cancellato, nonostante che i dati da esso raccolti continuino a fornire documentazione empirica nei decenni successivi. L’idea che prevale è difensiva, diametralmente opposta all’entusiasmo di Weinberg: lasciare l’iniziativa al potere politico e prepararsi a parare i colpi del movimento ambientalista.

La ricerca necessaria per comprendere l’«effetto serra» è un’impresa molto ampia e complessa, da condursi su scala internazionale e principalmente con fondi governativi. All’inizio del 1978, la Exxon Research and Engineering prese in esame un programma di ricerca indipendente ma giunse alla conclusione che lo sforzo necessario e lo spettro di discipline coinvolte rendeva impossibile per una singola istituzione affrontare il problema da sola.

Poche settimane prima di partire con la Esso Atlantic, lo stesso Shaw aveva scritto al suo direttore Weinberg: «è importante cominciare ad anticipare il forte intervento di gruppi ambientalisti ed essere preparati a rispondere con dati affidabili e credibili». Nel gennaio 1981 un documento interno del Contract Research Office intitolato Scoping Study on CO2 contiene alcune raccomandazioni che riconducono la ricerca nell’ambito delle priorità di bilancio della Exxon.

Il programma «CO2 in atmosfera» della Exxon Research and Engineering è stato lanciato approssimativamente due anni fa secondo un indirizzo che teneva conto di una serie di possibili progetti. La ragione dell’impegno di Exxon, come dichiarato nelle finalità del programma affidato al consiglio direttivo della Exxon Research and Engineering, era di: 1) fare un primo bilancio del potenziale impatto dell’effetto serra sul business della Exxon; 2) formare una squadra responsabile che possa dare alla compagnia le eventuali cattive notizie; 3) sviluppare conoscenze per valutare i programmi governativi; 4) fornire al governo informazioni di alta qualità per ridurre il rischio di scelte politiche con scarso fondamento; 5) generare conoscenza scientifica importante che rafforzi l’immagine di Exxon e costruisca valore nelle pubbliche relazioni.

Fin dall’inizio consapevolezza scientifica e difesa del business coesistono, quasi senza comunicare tra loro, all’interno della stessa azienda. Nel maggio 1981 si tiene a San Francisco l’Exxon Energy Research and Development Symposium. Per l’occasione Shaw prepara un brief summary della posizione dell’azienda sull’effetto serra. In pubblico si arretra molto rispetto alle conclusioni riservate del rapporto Knisely: c’è tempo prima di dover approntare contromisure, l’aumento di temperatura non sarà misurabile prima del 2000, la data del raddoppio di tale temperatura si sposta avanti fino al 2080, se ci sarà bisogno di una transizione a combustibili non fossili potremo farla con calma. Nel settembre 1982 invece Roger Cohen, direttore del Laboratorio di scienze matematiche e teoretiche della Exxon, è di tutt’altro avviso.

La comunità scientifica è unanime nel ritenere che un aumento di temperatura di tale grandezza [tra 1,5 e 3 gradi] porterebbe cambiamenti significativi nel clima terrestre, compresa la distribuzione delle piogge, e alterazioni della biosfera […] In sostanza, i risultati della nostra ricerca sono in accordo con il consenso della comunità scientifica sugli effetti di un aumento di CO2 nell’atmosfera […] Adesso siamo pronti a presentare la nostra ricerca alla comunità scientifica attraverso gli usuali canali delle conferenze di presentazione e la pubblicazione in sedi appropriate […] Vi è consenso sul fatto che Exxon debba continuare a condurre ricerca scientifica in materia per la sua importanza nel condizionare i futuri scenari energetici e nel dare ad Exxon le credenziali necessarie per parlare con autorità in materia. Inoltre la nostra responsabilità etica è di permettere la pubblicazione della nostra ricerca sulla letteratura scientifica; fare altrimenti sarebbe davvero una ferita nella posizione pubblica e nel credo etico di onestà e integrità della Exxon.

Come si vede, è già abbastanza chiara la percezione di uno scontro in seno alla compagnia tra sostenitori della ricerca e difensori del business: i primi si sentono minacciati nella loro possibilità di comunicare con l’esterno. Da notare che qualche tempo prima, nell’estate 1981, lo stesso Cohen faceva propri i dubbi sulla irreversibilità dei mutamenti al momento futuro della loro chiara manifestazione. Ma dentro la Exxon la posizione di Cohen diventa sempre più isolata. Nell’aprile 1982 Marvin Glaser, dirigente del Programma affari ambientali, predispone un rapporto riservato di 39 pagine (9 di bibliografia, con un’attenzione speciale per il rapporto Charney) sull’effetto serra provocato dai cosiddetti gas traccia, per lo più frutto di attività umane come le emissioni di biossido di carbonio (ovvero anidride carbonica) nell’atmosfera, rilasciate dalla combustione di carbone e petrolio. Sono questi gas (che comprendono anche vapor acqueo, ozono, freon, metano) a trattenere il calore dentro l’atmosfera, innalzando la temperatura globale. Il rapporto non si limita alla diagnosi, come il memorandum di Black di metà 1978, ma prefigura una strategia temporeggiatrice che rappresenta un evidente rovesciamento di prospettiva rispetto al rapporto Knisely del 1979. Lo scopo infatti non è più interagire con la comunità scientifica, come richiedeva Cohen soltanto due mesi prima, ma formare i propri dirigenti per la battaglia da condurre all’esterno in difesa degli interessi dell’azienda, considerati come irreversibilmente legati allo sviluppo dei combustibili fossili.

Al momento non esistono prove incontrovertibili del riscaldamento terrestre. È probabile che prima del 1995 sia difficile capire se la Terra è in una tale tendenza. Questa è almeno la proiezione più vicina del momento in cui la temperatura crescerebbe oltre il mezzo grado centigrado, limite che oltrepassa le normali fluttuazioni finora conosciute. D’altra parte, se le incertezze dei modelli climatici avessero esagerato l’aumento di temperatura, è possibile che l’effetto serra indotto dall’anidride carbonica non sia percepibile prima del 2020. È probabile che l’effetto serra non produca cambiamenti sostanziali nel clima finché la temperatura globale media non cresce di almeno un grado sopra gli attuali livelli. Il che potrebbe accadere tra il secondo e il terzo quarto del prossimo secolo. Tuttavia alcuni gruppi scientifici si preoccupano dell’eventualità che una volta che gli effetti siano misurabili, essi siano anche irreversibili e poco possa farsi per modificare la situazione nel breve periodo […] Ciò dovrebbe darci tempo per risolvere le incertezze riguardo al ciclo complessivo del carbonio e al contributo della combustione dei carburanti fossili così come al ruolo degli oceani in quanto riserve di calore e anidride carbonica […] Realizzare adesso cambiamenti importanti nei modelli di consumo energetico per affrontare subito questo problema potenziale nel quadro di tutte le incertezze scientifiche sarebbe prematuro, anche in considerazione del severo impatto che tali cambiamenti potrebbero avere sulle economie e società del mondo.

La conclusione del rapporto è interlocutoria, ma implica l’abbandono di un ruolo attivo sul fronte della battaglia contro il cambiamento climatico: «data la natura di lungo periodo dei problemi potenziali e le incertezze implicate, sembra che ci sia tempo per studi e monitoraggi ulteriori prima di intraprendere azioni specifiche. Al momento, la linea d’azione probabilmente migliore sarebbe la limitazione del consumo di combustibili fossili che però senza dubbio impatterebbe seriamente le economie e le società del mondo».

1.3. Business as usual

È importante sottolineare che fino ai primi anni ottanta gli elementi di conoscenza maturati all’interno della Exxon rispecchiano da vicino quelli simultaneamente sviluppati dalla comunità scientifica internazionale: il cambiamento climatico è in atto e i suoi effetti saranno importanti, anche se non siamo ancora in grado di precisarne i tempi di maturazione. Fuori della Exxon, la coscienza del problema è quasi più arretrata. Generalmente il nome che si associa agli esordi della consapevolezza in materia di effetto serra è quello dell’astrofisico della NASA James Hansen, la cui pubblicazione di riferimento precede di circa un anno l’audizione al Senato degli Stati Uniti nel giugno 1988. Ma siamo almeno sei-sette anni dopo i primi sviluppi maturati in seno alla compagnia petrolifera. Tanto basta, però, perché alla fine del 1988 le Nazioni Unite diano vita all’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), con il compito di raccogliere gli studi in materia. Del resto, nel primo numero dello stesso anno «Time» ha dedicato la copertina «Person of the Year» per la seconda volta (dopo quella riservata al personal computer nel 1982) a una entità non umana: Endangered Earth, la Terra in pericolo.

Ma nella Exxon i dirigenti più legati a un approccio scientifico a tutto tondo del problema vengono silenziosamente isolati. L’abbandono del progetto Esso Atlantic – ufficialmente per il venir meno della partecipazione governativa – dimostra un cambiamento più generale. Nel 1987 Harold Weinberg si licenzia. All’inizio del 1989 il partito business as usual dentro la Exxon ha già vinto la propria battaglia. E lo dimostra con la presentazione rivolta ai maggiori dirigenti dal titolo «Potenziali effetti rafforzati dei gas serra: situazione attuale e prospettive». L’autore della presentazione, il dirigente del settore scienze e strategia di sviluppo Duane Levine, introduce una nuova lettura politica della questione. Dalla disamina scientifica si passa infatti al quadro delle forze in campo (Casa Bianca, Nazioni Unite, parlamentari, gruppi di pressione) e della relativa posizione che la Exxon deve occupare e mantenere. Lo scopo è quello di combattere una «mentalità da crisi» per cui diventino urgenti soluzioni draconiane nel taglio delle emissioni.

Risposte più razionali richiederanno sforzi per estendere le conoscenze scientifiche e sottolineare i costi e le realtà politiche entro le quali collocare misure «adattive» che siano fattibili e muoversi verso opzioni costruttive.

Queste ultime sono tre: incoraggiare il risparmio di energia, la riforestazione e tagli nelle emissioni di clorofluorocarburi (i gas usati come refrigeranti nei frigoriferi o propulsore negli spray) ritenuti responsabili del «buco nell’ozono», cioè della degradazione dello strato superiore di ozono nell’atmosfera. I combustibili fossili devono uscire dal quadro.

Di fatto, a partire dagli anni ottanta questa diventa la strategia organica della Exxon: combattere politiche di taglio delle emissioni che possano danneggiare i combustibili fossili (e quindi gli interessi dell’azienda) alimentando dubbi sulla possibilità di estrapolare previsioni coerenti da una serie di osservazioni di troppo breve periodo rispetto alla longevità del pianeta. È significativo che su tale scelta negazionista e temporeggiatrice non influisca più di tanto il disastro della petroliera Exxon Valdez, che nel marzo 1989 versa greggio sulla costa meridionale dell’Alaska, con drammatiche ricadute ambientali di lungo periodo e cause giudiziarie milionarie perse con gli abitanti della zona (all’inizio per 5 miliardi di dollari poi alla fine ridotti nel 2008 a 500 milioni). Sulla scorta della catastrofe migliora la gestione interna delle operazioni più rischiose (il comandante della Exxon Valdez era ubriaco) e nel 2010, al momento dell’esplosione della piattaforma BP Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, le procedure di Exxon in materia di sicurezza (petroliere a doppio scafo) e qualificazione del personale vengono portate ad esempio dai rappresentanti governativi. Ma niente di più. L’ala dell’azienda legata alla ricerca sul clima deve comunque chinare la testa e lasciare il passo alle ragioni del business. Talvolta questa sconfitta passa attraverso la stessa persona. Brian Flannery nel 1985 ipotizza un aumento di 6 gradi della temperatura terrestre (nello studio citato a nota 20) e nel 1990 partecipa in forma scettica e ostruzionistica alla sessione finale del primo rapporto dell’IPCC.

Ancora molto tempo dopo, in un discorso pronunciato nell’ottobre 1997 a Pechino in occasione del XV World Petroleum Congress – mentre il mondo è impegnato nella preparazione del protocollo di Kyoto, che alla fine dell’anno impegna 37 nazioni industriali a ridurre le emissioni – Lee Raymond, amministratore delegato della Exxon dal 1993, proclama la priorità, rispetto al non sufficientemente fondato argomento del riscaldamento globale, della lotta alla povertà e quindi dello sviluppo economico fondato sui combustibili fossili.

Dobbiamo capire meglio e per fortuna abbiamo tempo. È altamente improbabile che la temperatura a metà del prossimo secolo sia condizionata in modo significativo da politiche decise adesso o nei prossimi vent’anni. Ciò significa anche che è una cattiva politica quella di imporre regole e restrizioni molto costose quando la loro necessità deve ancora essere provata, il loro impatto complessivo poco chiaro e quando le nazioni non sono preparate ad agire di concerto.

La strategia di Exxon diventa sempre più chiara. Mentre prepara l’acquisizione di Mobil (e quindi ha da tempo eliminato ogni seria ipotesi di investimento in fonti di energia alternative) organizza attivamente diverse linee di resistenza parallele contro il protocollo di Kyoto. La prima è mettere in discussione la certezza scientifica del riscaldamento globale. La seconda è stabilire priorità diverse legate alla crescita economica, in alleanza con i governi dei paesi in via di sviluppo. Garantire l’accesso di milioni di cittadini cinesi all’automobile privata – nelle economie avanzate il settore automobilistico copre mediamente tre quarti del consumo di petrolio – diventa la premessa inevitabile per continuare a sfruttare i combustibili fossili. La terza è screditare il movimento ambientalista come irrealistico e antioperaio, perché mette a repentaglio i posti di lavoro industriali legati al carbone e al petrolio.

Come si vede, ognuna di queste linee di resistenza si presenta come trasversale all’asse destra-sinistra della politica tradizionale, mettendo insieme argomenti (e quindi consenso) che provengono da fronti opposti. Per di più, non si propone di convincere e vincere una battaglia culturale bensì, più modestamente e praticamente, di boicottare e ritardare la vittoria del «nemico» ambientalista. La condizione ritenuta indispensabile è che Exxon non figuri mai pubblicamente come ispiratrice, ma si nasconda dietro sigle ed etichette da essa finanziate (Global Climate Coalition, Heartland Institute, Center for Science-Based Public Policy) che cercano di imitare quelle del «nemico» per confondere le acque. L’esempio cui si guarda esplicitamente in casa Exxon è quello delle compagnie del tabacco, che hanno cominciato a perdere le cause intentate dai fumatori ammalati di cancro ai polmoni solo negli anni novanta, quarant’anni dopo la scoperta del nesso clinico tra fumo e malattia. Quarant’anni di profitti procurati dalla strategia del ritardo.

Non tutte le compagnie petrolifere si comportano come la Exxon. John Browne è il presidente della BP (British Petroleum) e questo è un estratto del discorso da lui pronunciato nel maggio 1997 (qualche mese prima del discorso a Pechino di Raymond) a Stanford, la sua università.

È difficile isolare causa ed effetto. Ma oggi esiste un effettivo consenso tra i maggiori scienziati del mondo e tra le persone serie e ben informate al di fuori della comunità scientifica che sia visibile un impatto umano sul clima e un collegamento tra la concentrazione di anidride carbonica e l’aumento delle temperature. La previsione dell’IPCC è che nel corso del prossimo secolo le temperature possano alzarsi di 1-3,5 gradi centigradi e che il livello degli oceani possa salire di 15-95 centimetri. Parte di questo impatto è probabilmente inevitabile, perché è il prodotto delle emissioni attuali. Come si vede, esiste un ampio margine di errore e rimane un’ampia area di incertezza sul rapporto di causa ed effetto […] e soprattutto sulle conseguenze. Ma sarebbe improvvido e potenzialmente pericoloso ignorare questa preoccupazione montante. Il tempo di prendere in considerazione le dimensioni politiche del cambiamento climatico non arriva quando il collegamento tra gas serra e cambiamento climatico è provato in via definitiva […] ma quando la stessa possibilità in sé non può essere scartata e viene invece presa sul serio dalla società civile di cui siamo parte. Noi in BP siamo arrivati a questa conclusione.

In Exxon no, con ogni evidenza. E con molta maggior colpa, perché prima delle altre compagnie aveva scoperto e studiato il riscaldamento globale. L’anno seguente BP vara un programma di riduzione delle emissioni interne pari al 10% in quattro anni e di investimenti in energia solare. Dal 2000 cambia nome in Beyond Petroleum. Anche Shell comincia a spendere il 2,5% del budget in energie rinnovabili. Nel 2007 BP e Shell entrano nel Climate Action Partnership (USCAP), una coalizione di aziende e gruppi ambientalisti legati dall’obbiettivo di ridurre i gas serra. Non è tutto oro quel che riluce: è della BP la piattaforma Deepwater Horizon che esplode nel 2010. Tra le compagnie multinazionali maggiori comincia a diffondersi la prassi comunicativa del greenwashing: la disinvolta appropriazione di temi ambientalisti per nascondere il proprio fattivo contributo all’inquinamento.

1.4. Lobbying e disinformazione

In ogni caso la strada di Exxon rimane diametralmente opposta a quella di BP. Nell’aprile 1998, per combattere il protocollo di Kyoto, la Exxon, insieme ad altre compagnie petrolifere come la Chevron, associate all’American Petroleum Institute, pianifica un Global Climate Science Communication Action Plan.

La vittoria sarà conseguita quando: 1) il cittadino medio comprende (riconosce) l’esistenza di incertezze nella scienza del clima e il riconoscimento di tali incertezze diventa parte del senso comune; 2) i media comprendono (riconoscono) le incertezze della scienza del clima; 3) la copertura dei media riflette un bilanciamento sulla scienza del clima e riconosce la validità di punti di vista che sfidano l’odierno senso comune; 4) le direzioni industriali comprendono le incertezze della scienza del clima, rendendosi strumenti di pressione più efficaci presso coloro che danno forma alle politiche del clima; 5) i promotori del protocollo di Kyoto sulla base delle conoscenze scientifiche attuali appaiono aver perso il senso della realtà.

Esiste una oggettiva convergenza temporale e di contenuto tra il piano di azione dell’American Petroleum Institute e il libro del sociologo danese Bjørn Lomborg, L’ambientalista scettico. Le sue tesi di fondo sono che non sappiamo se nel passato ci sono state epoche di riscaldamento alla pari di questa e che esistono problemi più gravi come la povertà. Secondo le stime del Center for Responsive Politics, basate sui dati del Senate Office of Public Records, la Exxon (poi ExxonMobil) figura sempre in testa alle spese per lobbying tra le aziende statunitensi del settore petrolio e gas. Nel 1998 il settore è sesto – 62,5 milioni di dollari spesi in campagne di pressione sui politici, la Exxon da sola ne spende 5,5 – in una graduatoria capeggiata dalle industrie del tabacco (72,9 milioni). Dieci anni più tardi, il settore petrolio e gas sale in terza posizione (175 milioni, più di 27 spesi da ExxonMobil) dopo quello farmaceutico (271 milioni) e le associazioni di business (185 milioni). Un esempio di come vengano spesi questi soldi è dato dal memorandum del lobbista Randy Randol di ExxonMobil sull’IPCC che si riunisce nel settembre 2001. Randol raccomanda per tempo alla nuova amministrazione Bush di sostituire i rappresentanti nel Panel nominati dal predecessore Clinton (tra cui Michael MacCracken, una delle voci più importanti del fronte per la lotta al cambiamento climatico) con scienziati scettici sul riscaldamento globale come John Christy e Richard Lindzen. Un anno più tardi lo stesso lobbista suggerisce a John Marburger, assistente del presidente per la scienza e la tecnologia, gli argomenti tipici della strategia del dubbio implementata dalla multinazionale.

Per la considerazione delle politiche sul cambiamento climatico i punti scientifici più controversi sono: 1) il grado di variabilità naturale in quanto concorrente ai cambiamenti climatici del presente e del passato; 2) l’estrapolazione dell’influenza umana sul cambiamento climatico: con quale grado di sicurezza la scienza può comprovare che i cambiamenti climatici in corso siano attribuibili all’influenza umana e che ciò possa permettere di nutrire fiducia in previsioni di influenze umane sui cambiamenti futuri; 3) la capacità di prevedere le conseguenze future del cambiamento climatico: con quale grado di fiducia la scienza può prevedere le future emissioni e concentrazioni di gas serra e aerosol, insieme ai cambiamenti ad esse associati nel clima e l’impatto del cambiamento climatico sugli ecosistemi umani e naturali […] Una questione chiave di qualche urgenza per gli Stati Uniti è perché dobbiamo come nazione dipendere solamente dall’IPCC come fonte di informazione per la nostra politica […] Una delle frustrazioni maggiori per molti è l’evidente pregiudizio dell’IPCC nel sottovalutare il significato dell’incertezza scientifica […] Ad oggi, negli studi idealizzati sul cambiamento climatico non c’è pienamente posto per incertezze nei dati e nelle previsioni.

Due anni prima, nell’estate del 2000, la ExxonMobil pubblica un annuncio a pagamento sul «Washington Post» che recita «Political cart before a scientific horse» (traducibile come il carro della politica davanti ai buoi della scienza) e riduce a blocco di opinioni strumentali il crescente consenso degli studiosi in materia di cambiamento climatico. Nella lettera di risposta indirizzata al presidente Raymond a nome dell’ufficio federale Global Change Research Program, Michael MacCracken si definisce come l’ultimo degli «ExxonMobil four» (i quattro esperti messi nel mirino dalla compagnia) e ribatte punto per punto.

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