Odifreddi C’è del marcio in Occidente

Una riflessione sull’arroganza dell’Occidente, realizzata con gli occhi di grandi pensatori del passato, ma anche con i propri, quelli di un viaggiatore attento che scopre la profonda avversione nei confronti degli USA che accomuna le popolazioni dei 5 continenti. Nella forma di voci sul tipo di un dizionario Odifreddi espone anche le ragioni di tanta avversione.

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Il report contiene

Scheda del libro

Indice

Preludio solista (dell’Autore)

Recensione di Marco Pondrelli

Scheda

Odifreddi, Piergiorgio
C’è del marcio in Occidente / Piergiorgio Odifreddi. – Milano : Cortina, 2024. – 261 p. : [4] carte di tav. ; 20 cm. – (Temi).) – [ISBN] 978-88-328-5665-1.

KW

Indice

Preludio solista
Coro iniziale
I politologi tedeschi ( Karl Marx e Friedrich Engels , 1848)
Il maestro russo ( Fëdor Dostoevskij , 1863)
Il mahatma indiano ( Mohāndā s Gandhi , 1909)
Il fisico tedesco ( Albert Einstein , 1931)
Il rivoluzionario cubano ( Fidel Castro , 1953)
Il martire congolese ( Patrice Lumumba , 1960)
Il detenuto sudafricano ( Nelson Mandela , 1964)
Il pastore statunitense ( Martin Luther King , 1967)
L’etologo austriaco ( Konrad Lorenz , 1973)
Il dissidente sovietico ( Aleksandr Solženicyn , 1978)
L’occidentalismo
Über Alles
Cartelli economici
Alleanze militari
Due pesi e due misure
Deutsches Requiem
Il cristianesimo
Gott mit uns
Il Dio sterminatore
Andate e predicate
La spada e il pastorale
Deus le volt
Il colonialismo
Morgen die ganze Welt
Colonie e imperi
La dannata Terra Santa
Uno, dieci, cento olocausti
Arbeit macht frei
Il militarismo
La lobby delle armi
Scienziati collaborazionisti
Tempeste di fuoco e bombe atomiche
Guerra o terrorismo?
Yankee, go home
Inserto a colori
Il razzismo
Specie e razze elette
Esistono le razze?
Il fardello dell’uomo bianco
Leggi razziali vecchie e nuove
Meridionali e immigrati
Il classicismo
La Grecia, i Greci, il greco
Il mito dell’ellenismo
Le origini rimosse
Licei prussiani e fascisti
Le finzioni della Storia
L’idealismo
La metafisica del cane
Fantasyland
La barzelletta della psicanalisi
Postmoderno degenere
La rimozione della realtà
Il capitalismo
L’aggressione pubblicitaria
La mano invisibile
La grande sperequazione
I costi della crescita
Sviluppo e progresso
La democrazia
Monarchi, dittatori e presidenti
Stati di polizia
La democrazia malata
Le differenze e l’uguaglianza
Esiste la democrazia?
La libertà di parola
Quarto Potere
Il Ministero della Propaganda
Dissenso, censura e repressione
La fabbrica dei sogni
Il politicamente corretto
Coro finale
Il romanziere portoghese ( José Saramago , 1992)
L’intellettuale palestinese ( Edward Said , 1993)
Il terrorista saudita ( Osama bin Laden , 2002)
L’ambientalista statunitense ( Al Gore , 2006)
Il dissidente australiano ( Julian Assange , 2011)
Il guerrigliero uruguayano ( Pepe Mujica , 2012)
Il drammaturgo nigeriano ( Wole Soyinka , 2012)
I leader russo e cinese ( Vladimir Putin e Xi Jinping , 2022)
Il diplomatico indiano ( Subrahmanyam Jaishankar , 2023)
Il papa argentino ( Jorge Bergoglio , 2023)
Accordo conclusivo

Preludio solista

 “Senza accorgermene mi ero preparato a scrivere questo libro per tutta la vita”, disse una volta Jorge Luis Borges, nella prefazione di una delle sue straordinarie opere. 1 Fatte le dovute proporzioni, vorrei raccontare perché lo stesso è vero anche per questo mio più modesto pamphlet .

 Sono nato nel 1950. Per quanto oggi possa sembrare incredibile, a quei tempi non esisteva ancora la televisione, per non parlare dei cellulari, della rete e dei social. Quelli della mia generazione hanno dunque dovuto forgiare la propria immagine del mondo a fuoco lento, invece che al calor bianco. A noi è toccato mettere insieme una a una, pazientemente, poche tessere sparse del grande puzzle , mentre oggi veniamo tutti sottoposti a un incessante bombardamento a tappeto di parole e immagini.

 Negli anni Cinquanta, da bambino, io ascoltavo avidamente le memorie di famiglia, che venivano narrate la domenica attorno alla stufa. Mio nonno mi raccontava di quand’era andato a combattere in Libia nel 1930. E un mio zio, di quand’era stato preso prigioniero dai francesi durante la Seconda Guerra Mondiale, e internato in Algeria. Allora intuivo solo vagamente che gli stati europei avevano colonie lontane, e certo non mi era chiaro quante fossero, né come e perché erano state conquistate.

 Nei primi anni Sessanta, quand’ero adolescente, due parenti che vivevano a Nizza ci aggiornavano sporadicamente sulla guerra che la Francia combatteva in Algeria contro gli indipendentisti. Solo in seguito film come La battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo, e le notizie dei telegiornali che incominciai gradualmente a seguire, mi chiarirono poco a poco l’estensione e la brutalità del colonialismo europeo in Africa, che proprio in quegli anni veniva lentamente smantellato dalle lotte di indipendenza.

 Nei racconti di guerra, resistenza e prigionia dei parenti, gli Stati Uniti mi erano stati inizialmente presentati come “liberatori” dai nazi – fascisti, che avevano deportato in Austria mio nonno e mio padre. Ma nel 1962, durante la crisi di Cuba, i preti del collegio dove facevo le medie ci chiesero improvvisamente di pregare per gli “americani”, con l’ingenuo proposito di scongiurare in tal modo il rischio di una Terza Guerra Mondiale.

 Nella seconda metà degli anni Sessanta gli Stati Uniti riapparvero in Vietnam nelle vesti di difensori del “mondo libero” dal pericolo dei “musi gialli rossi”. Un pericolo poco chiaro per un adolescente, che dell’Indocina sapeva solo che distava più di 10.000 chilometri dall’America, e poco meno dall’Europa.

 Gli anni Settanta della mia giovinezza furono naturalmente dominati dal dilemma della Guerra Fredda tra capitalismo e comunismo. Quando incominciai a votare passai rapidamente dai socialisti ai comunisti, sotto lo shock del primo 11 settembre: quello del colpo di stato in Cile e dell’assassinio di Allende, commissionati da Nixon e Kissinger nel 1973.

 Il mio astratto disgusto per i militari alla Pinochet si concretizzò poco dopo, quando si trattò di fare il servizio di leva. Mi ero appena laureato in Logica all’Università di Torino, e il dipartimento di Matematica stava a due passi dal Teatro Regio, adiacente al quale c’era il Tribunale Militare. Venni a sapere che vi si processavano gli obiettori di coscienza, e assistetti attonito a un paio di udienze, ovviamente con il cuore in subbuglio.

 All’epoca il servizio militare era obbligatorio, e il servizio civile non esisteva. L’obiezione di coscienza veniva punita severamente, con due condanne consecutive a cinque anni di carcere militare. Gli imperdonabili recidivi venivano poi bollati a vita, con una dichiarazione di infermità mentale. A salvare me fu l’inattesa possibilità di fare da accompagnatore a un cieco di guerra, alla maniera di Gassman nel 1974, o di Al Pacino nel 1992, nelle rispettive versioni di Profumo di donna .

 In quegli anni mi impegnai con i radicali per far approvare il servizio civile alternativo alla leva, che nella sua prima versione del 1972 era riservato agli obiettori di coscienza, aveva una durata di otto mesi maggiore della leva, ed era incompatibile con l’assunzione presso la pubblica amministrazione. Oggi la leva non è più obbligatoria, ma il mio disgusto per le divise, le armi, i militari, gli eserciti e le guerre è rimasto invariato.

 Negli anni Settanta ormai sapevo che gli Stati Uniti erano militaristi e guerrafondai, e avevo gioito della loro disfatta in Vietnam nel 1973, e della loro fuga ingloriosa da Hanoi nel 1975. Ancora trent’anni dopo, nel 2003, potei constatare con orrore in Laos lo sfacelo prodotto dagli americani in un paese che non era in guerra con loro, ma che fu comunque ridotto in segreto a un letterale colabrodo: ricevette più bombe – due milioni di tonnellate! – di quelle sganciate nell’intera Seconda Guerra Mondiale.

 Purtroppo la “cultura americana”, 2 dalla musica rock alle missioni Apollo, esercitava ancora su di me una forte attrazione gravitazionale. Nell’estate del 1978, finito il servizio civile con il cieco di guerra, gli Stati Uniti mi catturarono nella loro orbita per due anni, alle Università dell’Illinois a Urbana – Champaign e della California a Los Angeles. Inutile dire che quei due anni mutarono definitivamente la mia immagine del paese.I ghetti di Harlem a New York, South Side a Chicago e Watts a Los Angeles mi allertarono alle condizioni dei neri americani, oltre che a due peccati mortali commessi nella Land of the Free : la tratta degli schiavi africani e il conseguente razzismo, la cui perenne attualità ci viene oggi ricordata dal movimento Black Lives Matter . 3

 Alla fine del 1978, durante il mio primo viaggio nel Sud degli Stati Uniti, pernottai per caso al Lorraine Motel di Memphis, dove dieci anni prima era stato assassinato Martin Luther King: la camera in cui morì era mantenuta intatta, come una meta di pellegrinaggio. 4 Poco dopo, in Alabama, vidi ancora con sorpresa le scritte Whites only e No blacks nelle vetrine di alcuni locali pubblici, nonostante le leggi antirazziali introdotte da Kennedy e Johnson a metà degli anni Sessanta.

 Nei parchi dei Four Corners (Arizona, Colorado, New Mexico e Utah) visitai invece alcune riserve indiane, e potei osservare la squallida condizione dei pochi nativi americani sopravvissuti, a testimonianza del peccato originale degli Stati Uniti: il genocidio dei “pellerossa”, e la loro sostituzione etnica con la “razza bianca” anglosassone.

 Scoprii con disgusto che si era trattato di una “soluzione finale” molto più radicale e definitiva di quella in seguito intentata dai turchi con gli armeni, o dai tedeschi con gli ebrei, ma analoga a quella portata a termine in precedenza dagli stessi anglosassoni con gli aborigeni australiani e i maori neozelandesi. 5

 I nomi delle località e i monumenti spagnoli nei quattro stati dei Four Corners, oltre che in California e Nevada, mi insegnarono poi che gli Stati Uniti si erano formati non soltanto a spese degli originari nativi, ma anche dei successivi ispano – americani del Messico, in un prolungamento oltre Atlantico delle beghe espansionistiche degli stati europei: Regno Unito e Spagna, nella fattispecie.

 Dal 1985 al 2003, insegnando all’Università di Cornell, approfittai sistematicamente del tempo libero per esplorare in lungo e in largo il continente americano, e visitai quasi tutti gli stati del Centro e del Sud America, dal Messico all’Argentina. E a volte, come in Guatemala, El Salvador, Nicaragua, Colombia e Bolivia, mi ritrovai nel bel mezzo di una guerra civile, un colpo di stato, un coprifuoco o uno stato di polizia, tutti invariabilmente imputabili alla longa manus degli Stati Uniti. 6

 Ovunque andassi, mi interessavo alla storia locale. E con sempre minor sorpresa, e sempre maggior fastidio, constatavo che non c’era praticamente un solo stato americano in cui gli Stati Uniti non l’avessero fatta da padrone, nei modi più disparati e violenti: sfruttamento economico, embargo commerciale, deposizione o assassinio di leader democraticamente eletti, appoggio a impresentabili dittatori, occupazione militare… Il tutto, in accordo con la cosiddetta dottrina Monroe : “l’America agli americani”, ovvero “l’intero continente agli Stati Uniti”. 7

 In università mi imbattei spesso in colleghi o studenti stranieri, che a turno sollevavano un lembo del mio grande velo di ignoranza della storia mondiale. Un professore anglo – australiano, per esempio, veniva spesso in visita, ma sempre senza moglie: quando gli chiesi perché, mi rispose che lei era filippina, e non metteva piede negli Stati Uniti per protesta contro l’occupazione militare americana del suo paese, durata mezzo secolo, dal 1898 al 1946. Scoprii così che in alcuni luoghi del mondo gli yankees suscitavano gli stessi sentimenti dei nazisti da noi.

 Ma a volte questi luoghi stavano dentro gli Stati Uniti stessi, in territori persino meno fortunati delle Filippine. Le isole di Porto Rico e delle Hawaii, per esempio, furono anch’esse annesse nel 1898, ma tali rimangono ancor oggi: la prima come territorio non incorporato, e la seconda come stato federale.

 Quali fossero i sentimenti dei nativi, lo imparai visitandole entrambe. Alle Hawaii, in particolare, fui colpito dalle canzoni del celebre cantante Israel Kamakawiwo’ole: prima fra tutte, Hawaii ’ 78 . Il titolo commemora il luttuoso bicentenario della “scoperta” dell’arcipelago da parte del capitano Cook, giustiziato l’anno dopo nella baia di Kealakekua. E le liriche piangono il ratto della terra e lo stupro della cultura hawaiane effettuati dagli Stati Uniti nell’arcipelago, oggi ridotto a un gigantesco resort .

 America a parte, l’insegnamento universitario, la ricerca matematica e la passione per i viaggi mi hanno portato soprattutto in Asia. Ho passato alcuni anni in Russia, India e Cina, ma non ho disdegnato puntate di qualche mese in Africa e in Oceania. E dovunque mi sono sempre imbattuto nelle cicatrici, o nelle ferite ancora ben aperte, causate dall’imperialismo occidentale, europeo o statunitense che fosse.

 Sul lato oscuro ricordo, per esempio, la Casa degli Schiavi e la Porta del Non Ritorno nell’isola di Gorée, in Senegal, da dove partivano le navi dei negrieri verso l’America. Il memoriale ad Amritsar, in Punjab, eretto sul luogo in cui nel 1919 le truppe agli ordini del generale inglese Dyer massacrarono 1.500 indiani disarmati, ai tempi del Raj britannico in India. E le vestigia della Concessione Internazionale di Shanghai, dalla quale le potenze occidentali (Italia compresa) gestivano i loro loschi affari con il Celeste Impero, dopo che gli inglesi e i francesi avevano imposto il traffico di droga ai cinesi con le due Guerre dell’Oppio. 8

 Sul lato luminoso ho invece scoperto le straordinarie culture russa, indiana e cinese, che il nostro occidentalismo mantiene a debita distanza. Nei casi peggiori, disprezzandole, disinteressandosene o ignorandole. E nel caso migliore, considerandole passatempi da osservare a distanza di sicurezza, come animali esotici nelle gabbie dei giardini zoologici. Viaggiando in lungo e in largo, visitando luoghi, gustando cibi e ascoltando musiche, io ho invece avuto dapprima la fortuna di incontrarle da vicino, e poi di conoscerle e apprezzarle.

 Negli anni ho studiato le storie dei movimenti di liberazione dallo zar, e dagli imperatori inglese e manciù. E, soprattutto, ho letto saggi, libri di viaggio e romanzi, scivolando gradualmente dalle opere degli occidentali, colonialisti o orientalisti, a quelle degli orientali, occidentalisti o nazionalisti. Per esempio, nel caso dell’India, dal Kim di Kipling al Passaggio in India di Forster, e da I figli della mezzanotte di Rushdie a La casa e il mondo di Tagore. O, nel caso della Cina, da La condizione umana di Malraux a La buona terra di Pearl Buck, e da Cigni selvatici di Jung Chang a Sorgo rosso di Mo Yan.

 Oggi, continuando a viaggiare per il mondo con il corpo o con la mente, sento dentro di me la vergogna di appartenere a una razza, una cultura e un blocco economico – politico – militare che ha così tanto, e così a lungo, bistrattato il resto dell’umanità. E questo libro è la mia confessione dei peccati di pensieri, parole, opere e omissioni che pesano sulla coscienza di un bianco italiano, europeo e occidentale.

 Non mi basta, per autoassolvermi, pensare che delle stesse nefandezze che abbiamo commesso e commettiamo noi, si siano potuti macchiare anche altri. E meno che mai mi allevia la coscienza l’illusione che, forse, altri possono persino essere peggiori di noi. Un ladro o un assassino, anche se non raggiungono gli exploit di Leopoldo ii del Belgio, 9 rimangono pur sempre un ladro o un assassino.

 Mi interessa invece meditare sulle nostre malefatte, perché me ne sento in parte corresponsabile, sia pure in maniera largamente passiva. Mi vedo come un semplice e anonimo passante, che quando gli appaiono di fronte gli spettri del nostro razzismo, del nostro colonialismo o del nostro militarismo è costretto ad ammettere: Something is rotten in the states of the West , “C’è del marcio in Occidente”. 10

 In realtà, nella citazione originaria Shakespeare parlava della Danimarca, che oggi ci sembra solo un insignificante staterello. Ma, a proposito di colonialismo, la Danimarca possiede ancor oggi la Groenlandia, insieme alla quale ha un’estensione pari a Italia, Francia, Germania, Spagna, Portogallo e Regno Unito messi insieme. Verso il 1400, all’epoca dell’immaginario Amleto, la Danimarca comprendeva anche la Norvegia, la Svezia, la Finlandia e l’Islanda, oltre alla Groenlandia. Dunque, era e rimane un’adeguata metafora dell’intero Occidente: la parte per il tutto.

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 1 . La biblioteca inglese. Lezioni sulla letteratura , 1966 (Einaudi, 2006).
 2 . Vedi Accordo conclusivo .
 3 . Vedi Specie e razze elette .
 4 . Vedi Il pastore statunitense .
 5 . Vedi Morgen die ganze Welt .
 6 . Vedi La lobby delle armi .
 7 . James Monroe, Discorso sullo stato dell’Unione , Washington, 2 dicembre 1823.
 8 . Vedi Uno, dieci, cento olocausti .
 9 . Vedi Il martire congolese .
 10 . William Shakespeare, Amleto , Atto i , Scena iv , Verso 67.

Rec. di Marco Pondrelli in in Marx21

Sempre più spesso, purtroppo, sentiamo parlare di una superiore civiltà occidentale, la liberaldemocrazia (qualsiasi cosa essa sia) è il modello a cui tutto il mondo deve conformarsi, questo ci da il diritto di definire dittature tutte le esperienze diverse dalle nostre. Qualsiasi critica al nostro sistema viene sdegnosamente respinta con l’argomentazione che l’alternativa è Putin.

Il libro di Piergiorgio Odifreddi ci offre una lettura molto diversa della realtà, la sua è una critica radicale, ovverosia contesta alla radice le convinzioni sulla superiorità occidentale, dimostrandoci che tanto di quello che c’è stato di esecrabile nella storia è fatto o è stato fatto proprio dall’Occidente (da intendersi sempre in un’accezione politica e non geografica).

Come sottolineava Domenico Losurdo Hitler, nel Mein Kampf, citava come esempio positivo da imitare il genocidio dei nativi americani. Possiamo parlare di un olocausto americano che non ha riguardato solo il Nord America ma tutto il continente, l’Autore cita Tzvetan Todorov che scrisse: ‘si può ritenere che nell’anno 1500 la popolazione del globo fosse nell’ordine dei 400 milioni di abitanti, 80 dei quali residenti in America. Verso la metà del Cinquecento, di questi 80 milioni ne restavano 10. Limitando il discorso al Messico, alla vigilia della conquista la popolazione era di circa 25 milioni di abitanti, e nel 1600 era ridotta a un milione‘ [pag. 97]. Non si può inoltre ignorare la deportazione schiavista di cui fu vittima il continente africano.

Il tema del colonialismo è quello più interessante del libro, Karl Marx scriveva che nelle colonie il sistema capitalista si presenta con la sua vera faccia ‘la profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinnanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude‘. Lo studio della storia dimostra che i campi di internamento non sono stati inventati dal nazismo ma erano una pratica comune delle potenze occidentali, mentre sostenevano di portare la civiltà in regioni sottosviluppate. In questo quadro anche l’Italia si fece notare per la ferocia con cui operò in Africa e nei Balcani, altro che ‘italiani brava gente’…

Il colonialismo non è finito con la stagione della de-colonizzazione, in quel momento è iniziata una nuova fase storica in cui Paesi formalmente sovrani hanno continuato ad essere depredati dall’Occidente, conoscendo questo pregresso non è difficile capire perché oggi tanti paesi africani caccino i francesi ed accolgano a braccia aperte cinesi e russi. Sono le diseguaglianze figlie di queste politiche che producono i processi migratori, per fermare i quali non servono le armi ma una redistribuzione della ricchezza.

Odifreddi denuncia i limiti delle nostre democrazie non solo nel nostro rapporto con il resto del mondo ma anche nel funzionamento interno. La democrazia vive non solo nel rispetto dei diritti civili ma anche nel riconoscimento dei diritti sociali, la crescita delle diseguaglianze con poche persone che possiedono ricchezze enormi è una stortura democratica. L’aumento delle diseguaglianze, dimostrate dall’indice Gini, si accompagna a un calo degli elettori, sempre meno interessati a votare istituzioni che sentono lontane.

I limiti democratici sono evidenti anche per alcuni episodi come l’omaggio che il Parlamento canadese rese a Yaroslav Hunka ‘membro della famigerata Divisione Galizia delle ss’ [pag. 192], questo evento vergognoso non fu un semplice incidente di percorso, avendo quel Paese offerto rifugio a molti nazisti e collaborazionisti.

Il quadro è completato dagli evidenti limiti posti alla libertà d’informazione, l’Autore cita il famoso, e inesistente, incidente del Golfo del Tonchino che nel 1964 diede il via alla guerra del Vietnam, dobbiamo constatare come durante quel conflitto esistesse ancora una stampa libera, cosa che oggi fatichiamo ad affermare. Quando assistiamo al pietoso spettacolo di giornali e televisioni che si limitano a replicare parole d’ordine ‘c’è un aggredito e c’è un aggressore’ come le reclute addestrate dal Sergente Maggiore Hartman, ci chiediamo di che libertà possiamo oggi godere. È importante ricordare, come fa Odifreddi, la figura di Assange che l’Occidente nasconde perché, come Guantanamo o Abu Ghraib contraddice le nostre certezze. Come conclude amaramente Odifreddi citando Neil Postman l’Occidente di oggi è meglio incarnato dal Mondo nuovo di Huxley che da 1984 di Orwell:

Orwell temeva chi voleva proibirci i libri. Huxley temeva che nessuno li avrebbe più letti, senza bisogno di proibirli. Orwell temeva chi voleva limitarci l’informazione. Huxley temeva che ne avremmo avuta così tanta da rintontirci. Orwell temeva chi voleva nasconderci la verità. Huxley temeva che la verità sarebbe annegata in un mare di irrilevanza. Orwell temeva chi voleva incatenare la cultura. Huxley temeva che la cultura sarebbe morta nella banalità. Orwell temeva che ci avrebbe rovinati ciò che odiamo. Huxley temeva che ci avrebbe rovinati ciò che amiamo. [pag. 210]

L’articolo è stato pubblicato su: https://www.marx21.it/cultura/ce-del-marcio-in-occidente-piergiorgio-odifreddi/

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