Il Modello Cina : meritocrazia politica e limiti della democrazia / Daniel Bell. Luiss, 2019

Tra i miti che l’occidente ha coltivato con cura per giustificare una pretesa superiorità nei confronti del resto del mondo c’è quello di derivare dal grande albero della civiltà greco-romana da un lato e di quella giudaico-cristiana dall’altro. Il capitalismo ha fatto piazza pulita di ogni istanza teologica, affogandola con parodie pseudoreligiose, miti mercantilesoterici e sostituendo il Theòs con Mammona. Quello che invece resiste, anche se traballante, è il mito della Democrazia, con tutti i suoi corollari: Democrazia=Libertà, Libertà=Libero mercato, Libero mercato=Capitalismo, Capitalismo=Democrazia, e questo non solo è buono ma è il migliore dei mondi possibili. Il Bene contro il Male. Senza affrontare questioni di ordine politico-ideologico o economico, Bell, da buon sociologo, ci mostra aspetti della cultura e delle istituzioni cinesi che non possono non farci riflettere sui capisaldi delle nostre credenze. glb

Il report contiene
Scheda SBN
Indice
Prefazione di Sebastiano Maffettone
Prefazione all’edizione tascabile
Recensioni
Simone Pieranni 8/8/2019
Maurizio Scarpari 25/8/2019
Giulia Balossino 23/3/2021



Scheda SBN

Bell, Daniel A.
Il modello Cina : meritocrazia politica e limiti della democrazia / Daniel A. Bell ; prefazione di Sebastiano Maffettone ; traduzione di Gabriella Tonoli. – Roma : LUISS University Press, 2019. – 350 p. ; 21 cm. – (I capitelli).) – [ISBN] 978-88-6105-383-0. – [BNI] 2019-6845.
SOGGETTI Cultura politica – Cina Nuovo soggettario
CLASSIFICAZIONE DEWEY 306.20951 (23.) ISTITUZIONI POLITICHE. Cina NOTA Edizione del 2022 priva di EAN

Indice

Prefazione
Meritocrazia, democrazia e confucianesimo di Sebastiano Maffettone
Prefazione all’edizione tascabile
Problemi con il “modello Cina”?
Introduzione
Capitolo 1
La democrazia è il meno peggiore dei sistemi politici?
1.1 La tirannide della maggioranza
1.2 La tirannide della minoranza
1.3 La tirannide della comunità degli elettori
1.4 La tirannide di individualisti competitivi
Capitolo 2
La selezione di buoni leader in una meritocrazia politica
2.1 La leadership nel contesto
2.2 La necessità di avere capacità intellettuali
2.3 La necessità di avere abilità sociali
2.4 La necessità della virtù
Capitolo 3
Che cosa non funziona nella meritocrazia politica
3.1 Il problema della corruzione
3.2 Il problema della cristallizzazione
3.3 Il problema della legittimità
Capitolo 4
Tre modelli di meritocrazia democratica
4.1 Votare per i saggi e i virtuosi
4.2 Un modello orizzontale: democrazia e meritocrazia ai vertici
4.3 Un modello verticale: democrazia in basso e meritocrazia ai vertici
Riflessioni conclusive
Mettere in atto il “modello Cina”
Bibliografia

prefazione Sebastiano Maffettone
Meritocrazia, democrazia e confucianesimo

Daniel A. Bell è attualmente Dean della School of Political Science and Public Administration alla Shandong University e professore all’Università di Tsinghua a Pechino. Nato in Canada, lavora da molti anni in Oriente (Cina, Singapore, Hong Kong), ed è forse il filosofo occidentale più ascoltato in Cina e sicuramente una chiave di lettura significativa per quel mondo. È autore di numerosi libri sull’Asia Orientale, tutti pubblicati da Princeton University Press, tra cui: China’s New Confucianism: Politics and Everyday Life in a Changing Society (2010), Beyond Liberal Democracy: Political Thinking for an East Asian Context (2006) e East Meets West: Human Rights and Democracy in East Asia (2000). Questo suo libro – Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, pubblicato in italiano da Luiss University Press (titolo originale The China Model, Princeton University Press, 2015) – è senza dubbio un’opera intellettualmente provocatoria e di notevole interesse, come del resto mostrano le numerose reazioni intellettuali che ha suscitato in questi anni. Oggetto del libro sono la meritocrazia politica e i limiti della democrazia. Un tema del genere presuppone e articola un confronto tra Cina (e Singapore) da un lato e Occidente dall’altro. Nel modello politico cinese vigerebbe, almeno in parte, la meritocrazia politica – sostiene Bell – mentre in Occidente la liberal-democrazia basata sul principio “una persona, un voto” non è mai messa in discussione, in questo modo sacrificando il principio meritocratico. Dal confronto tra modelli politici così concepito, emerge un giudizio comparativo tra i sistemi istituzionali di questi due mondi, da cui si evince che il sistema meritocratico alla cinese con tutti i suoi difetti funziona in maniera soddisfacente mentre quello occidentale è in crisi.

Non si può negare che la tesi poggi su solide ragioni. La crisi e il successo economico comparati sono, infatti, fattori decisivi nella tenuta dei regimi politici, e non solo dal punto di vista del ciclo elettorale (le forze di governo tendono a perdere le elezioni quando l’economia va male), ma da un punto di vista più generale. Il crollo dell’Unione Sovietica, per esempio, dipese molto dalla scarsa produttività economica del regime, comparata con i regimi capitalistici. Naturalmente, è importante vedere se l’efficienza economica costituisca l’unica virtù di un sistema politico, oppure se in quanto tale costituisca solo un metro parziale e insufficiente per valutare un regime politico.

Prima di entrare nel merito della tesi di Bell in proposito, però, giova riflettere sul fatto che i regimi politici liberal-democratici occidentali attraversano in questi anni una crisi senza precedenti. L’elezione di Trump negli Stati Uniti, la Brexit nel Regno Unito, l’affermarsi diffuso del populismo e del sovranismo in Europa mettono in dubbio quella che era fino a ora una certezza granitica. Sarebbe a dire che la liberal-democrazia sia il migliore possibile dei regimi politici. Questo fatto, congiunto con la crisi economica che ha dato origine alla protesta politica in Occidente, rende ancora più attuale e stimolante il confronto con regimi non liberal-democratici quali quello della Cina (e di Singapore) che prosperano economicamente e non sono scossi dalla protesta politica. In sostanza, suggerire che la crisi politica e quella economica vadano di pari passo appare quanto mai utile per cercare di capire quale sia il nesso tra le due, in specie se ci si interroga anche sulle ragioni culturali profonde che spiegano come i due modelli affrontino in maniera diversa problemi simili che derivano per esempio dalla globalizzazione, dalle sfide tecnologiche e commerciali e dal rischio ambientale. Posta in questo modo, la proposta di Bell diventa ancora più sensata e difficile da non prendere sul serio. In effetti, in questo libro egli sostiene non solo che la meritocrazia politica sia un elemento indispensabile di un regime politico, e che essa vada integrata in qualche modo con la democrazia, ma anche che tutto ciò è riuscito in paesi come la Cina e Singapore in virtù della tradizione culturale confuciana.

L’analisi di Bell prevede così tre aspetti in stretto rapporto reciproco: meritocrazia, democrazia, confucianesimo.

Il primo aspetto riguarda la meritocrazia politica. Nonostante l’origine latino-greca della parola (potere al merito), il concetto di meritocrazia non è stato particolarmente studiato nella political theory occidentale, anche se ci sono eccezioni che vanno da Platone a John Stuart Mill, Walter Lippmann e gli elitisti. Al contrario, è diffusa negli spiriti liberali occidentali una certa diffidenza per la meritocrazia, in specie se vista come elemento fondante di una società giusta. Se guardiamo alla critica rawlsiana del mercato, della lotteria naturale e del liberalismo classico, non possiamo fare a meno di notarlo. Il libro assai noto di Michael Young su The Rise of Meritocracy (1958) sottolineò come la meritocrazia politica nel tempo favorisca l’ossificazione della classe dirigente e la corruzione diffusa. Può essere che ciò non sia avvenuto finora in Cina, ma i timori rimangono.

È invece più comune nella storia del pensiero politico cinese dove al di là di alcuni nomi indicativi – quali Zhu Xi o Sun Yat-sen – l’idea che le qualità personali, sia di preparazione professionale sia di autorevolezza morale, contino nell’ambito politico ha una vasta eco da Confucio in poi. Numerosi anche i lavori contemporanei sul tema della meritocrazia politica in questo ambito, come per esempio: Tongdong Bai, “A Confucian Version of Hybrid Regime: How Does It Work, and Why Is It Superior?” in D. Bell e C. Li (eds.), The East Asian Challenge for Democracy: Political Meritocracy in Comparative Perspective (Cambridge University Press, Cambridge 2013), pp. 55-87; Daniel A. Bell, Beyond Liberal Democracy: Political Thinking for an East Asian Context (Princeton University Press, Princeton 2006); Sor-hoon Tan, “Beyond Elitism: A Community Ideal for a Modern East Asia”, Philosophy East and West, vol. 59, n. 4, 2009, pp. 537-553; Joseph Chan, “Democracy and Meritocracy: Toward a Confucian Perspective,” Journal of Chinese Philosophy, vol. 34, 2007, pp. 179-93; Donald Low, “Good Meritocracy, Bad Meritocracy”, in D. Low e S. T. Vadaketh (eds.), Hard Choices. Challenging the Singaporean Consensus (National University of Singapore Press, Singapore 2014); Kenneth P. Tan, “Meritocracy and Elitism in a Global City: Ideological Shifts in Singapore”, International Political Science Review, vol. 29, n. 1, 2008, pp. 7-27. Ovviamente Bell può contare su questa letteratura, cui ha contribuito in maniera significativa.

Se il primo aspetto della tesi di Bell riguarda la meritocrazia, il secondo concerne la liberal-democrazia occidentale e la sua crisi. In effetti, il libro di Bell dedica ampio spazio alla critica della democrazia, intesa come applicazione del principio “una persona, un voto”, riprendendo argomenti che sono oramai diffusi nella letteratura contemporanea in political theory. Gli argomenti di Bell in materia sono piuttosto standard, come quando discute la tesi della “tirannia della maggioranza”, tesi secondo cui le minoranze possono vedere sacrificati loro diritti e prerogative in nome del numero. Oppure, quando si fa riferimento alla possibilità di una simmetrica “tirannia delle minoranza”, secondo cui minoranze ricche e potenti possono influenzare via democrazia la politica in modo abnorme (qualcosa del genere di certo accade negli Stati Uniti). Esiste poi – e ne siamo tutti consapevoli – una “tirannia dei votanti”, che condanna al silenzio i non-votanti con conseguenze spesso estremamente rischiose per esempio per le generazioni future. Infine, la democrazia rischia in alcuni casi di esacerbare i conflitti piuttosto che eliminarli o almeno addomesticarli. Non sorprende così che le sue conclusioni siano scettiche sulla possibilità di funzionamento della democrazia e che egli finisca per sposare tesi “epistocratiche” come quelle in seguito rese note da Jason Brennan (Contro la democrazia, Luiss University Press, 2018). Secondo queste tesi, la selezione del personale politico in maniera democratica è giocoforza fallimentare poiché la maggioranza dei cittadini è ignorante e disinteressata. Da qui la soluzione proposta che – come detto – è sostanzialmente epistocratica: devono governare i migliori. E quindi la propensione per la meritocrazia politica.

La creazione di una élite politica, basata sul merito, sovra-ordinata rispetto a quella economica – come avviene in Cina – eviterebbe, sempre secondo Bell, i menzionati rischi della democrazia. Ma forse così la si fa troppo facile. Alcune osservazioni sulla meritocrazia politica e i suoi rapporti con la democrazia sembrano diventare qui necessarie. In primo luogo, nessun sistema democratico è totalizzante, nel senso che tutti prevedono ampi spazi meritocratici. Nelle liberal-democrazie occidentali, per esempio, solitamente magistrati e generali sono selezionati in base a carriere in cui i meriti professionali contano. Per cui, quando con Bell parliamo di meritocrazia politica ci riferiamo solo alla selezione via voto della leadership politica. In secondo luogo, per alcuni studiosi la democrazia ha un valore intrinseco e simbolico, affermando l’eguale status dei cittadini e il loro diritto a esprimersi politicamente, valore che in qualche modo prescinderebbe dalle capacità di ottenere risultati utili. Ora è abbastanza chiaro che Bell rifiuta questa lettura simbolica ed espressiva del valore della democrazia, cui contrappone quella funzionale ed epistemica. Non è però detto che la difesa delle libertà individuali e dei diritti fondamentali non avvenga anche attraverso la pratica della eguaglianza morale che è legata alla liberal-democrazia tradizionalmente intesa. Superfluo anche aggiungere che non si tratta di dettagli trascurabili.

Come anticipato, il terzo aspetto dell’opera verte sul confucianesimo. Il corso lodevolmente meritocratico dell’attuale regime cinese (e di quello di Singapore) sono infatti, per Bell, in stretto rapporto con il confucianesimo di sfondo che caratterizza queste società. E, in effetti, in questi ultimi anni – dopo la severa condanna di Mao – il confucianesimo è tornato prepotentemente alla ribalta in questa parte del mondo. E nessuno mette in dubbio l’influenza che lo stesso confucianesimo e la tradizione dei Mandarini, con il sistema delle raccomandazioni pubbliche e degli esami perlomeno dal tempo dell’imperatore Wu (secondo secolo a.C.), possono avere avuto per migliorare la qualità del personale statale e in genere per la meritocrazia politica di cui si parla in questo libro. Tuttavia, la propensione di Bell per il confucianesimo – che è anche personale, tanto che egli non esita a dichiararsi confuciano – non è confinata al rapporto tra storia e istituzioni nell’ottica meritocratica. Piuttosto, egli fa propria la complessa concezione confuciana del bene, ricca come è di premesse non solo etico-politiche ma anche antropologiche, ontologiche ed estetiche. Tutto ciò implica creare una connessione forte non solo tra etica e ritualità, ma anche tra la nozione classica di “armonia” e il regime cinese attuale. In altre parole, si suppone in questo modo che il bene comune debba prevalere sulla dialettica democratica, e che il Partito comunista cinese sia in grado di interpretarlo in maniera accettabile per tutti. Come è ovvio, questa tesi è quantomeno discutibile. E lo è soprattutto da un punto di vista normativo, secondo cui la meritocrazia politica – se fosse davvero tanto preziosa, come Bell dice – dovrebbe rappresentare un modello raccomandabile per tutti e non solo per i cinesi. Invece, dichiaratamente il “China Model” di Bell non è universalistico. È una cosa cinese per cinesi. Ma se fosse normativamente il migliore modello possibile perché non pensarlo idoneo anche per altri? La risposta naturalmente può essere di tipo storico-critico: i modelli non sono indipendenti dal passato culturale e politico. In questo specifico caso, l’impossibilità di universalizzare una strategia di successo potrebbe dipendere dal confucianesimo. Ma se così fosse non si riuscirebbe a sapere se davvero la meritocrazia politica sia una soluzione più raccomandabile della liberal-democrazia in generale.

Abbiamo già visto che la difesa della tesi di Bell – secondo cui, a fronte dei supposti “vizi” della democrazia politica la meritocrazia politica alla cinese dovrebbe essere in grado di fornire una terapia ragionevole – si fa più difficile allorché si passa dall’analitica della crisi della democrazia (che pare evidente a molti) alla prognosi normativa ispirata per giunta a un paese realmente esistente. Tanto per fare un esempio, se può essere vero che la democrazia talvolta rischia di esasperare i conflitti, non è per questo detto che il centralismo democratico, il partito unico e l’assenza di opposizione siano il sistema migliore per ridurre i conflitti. Questo, naturalmente, pur accettando la (relativa) legittimazione del PCC e assumendo che le scelte al suo interno siano sufficientemente meritocratiche.

Inoltre, per Bell, la meritocrazia democratica in Cina funziona, come si è detto, in base a un sistema di integrazione duale: nelle posizioni politiche di periferia si vota più o meno in base al principio “una persona, un voto”, mentre nelle posizioni politiche di livello nazionale opera un sistema di cooptazione. Ora, non è difficile notare che un sistema del genere rischia di essere incoerente. Non è detto per esempio che il voto locale possa essere libero sotto la cappa di una élite nazionale autoritaria, e non si capisce perché se il sistema di cooptazione alto-basso funziona meglio non lo si debba applicare anche ai livelli locali.

Ma i problemi più gravi, creati dalla audace tesi di Bell sulla democrazia meritocratica, sono altri (alcuni di questi sono esaminati nel numero della rivista Philosophy & Public Issues dic. 2017). Innanzitutto, sembra implicita nella sua versione un’enfasi eccessiva sull’efficientismo che stona con il modo diciamo così “normale” di intendere la politica. Bell ragiona come se in politica ci fossero risultati prefissati e condivisi da raggiungere. Più o meno come avviene nella vita aziendale (entro certi limiti). Cosa che spiega la sua propensione per l’efficientismo e di conseguenza per la meritocrazia. Gli si può rispondere che – nell’accezione comune – la politica verte in primo luogo sul decidere quali siano gli obiettivi da perseguire e solo in secondo luogo su come raggiungerli. Ridurre le tasse o aumentare il welfare, per fare un esempio standard, costituisce un classico problema politico, e la scelta tra questi due obiettivi non sembra dipendere solo dall’abilità tecnica della classe politica. Corollario di questa tesi è che quando ci sono in ballo autentici problemi politici, cioè problemi sulle scelte di fondo, interrogare in proposito i cittadini non può essere un errore. Ciò mostra tra l’altro come la concezione tutto sommato “elettoralistica” della democrazia – vista come “una persona, un voto” – di Bell sia riduttiva. La democrazia serve invece innanzitutto a vedere se in un paese ci sia consenso sulle scelte politiche fondamentali.

All’osso, la tesi di Bell ci dice: “guardate che in Cina la politica funziona meglio che in Occidente alla luce dei risultati ottenuti negli ultimi decenni in campo economico-sociale. Per cui conviene quantomeno integrare il modello classico di democrazia occidentale per includere quello cinese meritocratico”. Come detto, un efficientismo del genere non è di solito tutto ciò che chiediamo alla politica. Cui chiediamo anche di realizzare valori etico-politici per esempio di libertà, eguaglianza e fairness che non sono impliciti nell’efficienza funzionale. Questo non vuol dire solo sottolineare in via esclusiva il valore espressivo e intrinseco della democrazia. Vuol dire anche realizzare l’autonomia dei cittadini invitandoli a pronunciarsi sui più rilevanti aspetti della loro vita politica ed economico-sociale. Fatto è che la democrazia non è solo un sistema di selezione del personale politico e un controllo della sua performatività nel tempo, è anche un modo significativo per rendere la società un reale strumento di emancipazione morale e di cooperazione civica. Per ottenere questo fondamentale risultato, è difficile credere che basti delegare le funzioni politiche principali a un comitato di esperti preparati e di burocrati efficienti. Confuciani o meno che siano costoro. Con il rischio ulteriore che il confucianesimo, sempre più affermato a gran voce in Cina, non sia molto più che un modo sofisticato per nascondere l’incapacità di un regime efficiente di garantire la rule of law.

prefazione all’edizione tascabile. Problemi con il “modello Cina”?

Il Modello Cina è stato recensito e sviscerato più di qualsiasi altro mio libro, e tutto nell’arco di qualche mese. Naturalmente per me è un onore e sono grato che il libro abbia sollevato un dibattito pubblico. Confesso, tuttavia, che si è anche attirato una buona dose di critiche. Pur avendo volutamente evitato la polemica e nonostante il fatto che un terzo del libro sia composto da noiose note, l’opera sembra aver innescato emozioni politiche forti. Il senso principale del libro non dovrebbe essere controverso: la teoria politica e le istituzioni cinesi devono essere prese sul serio e per giudicare il progresso (e il regresso) politico in Cina si deve partire principalmente dalla cultura politica e dalla storia cinese. Sembrerebbe strano, per esempio, difendere una tesi a favore della riforma delle istituzioni politiche americane secondo valori confuciani, e dovrebbe sembrare altrettanto strano sostenere di riformare il sistema politico cinese secondo i valori dei padri fondatori dell’America o dei liberali kantiani. Perché questa resistenza? Una ragione è sicuramente l’attaccamento all’opinione che la democrazia liberale sia la sola forma difendibile di governo (“la fine della storia”): più precisamente, la logica “una persona, un voto” è il solo modo legittimo di scegliere i governanti ed è moralmente perverso suggerire altrimenti. Quindi perché darsi pena di attingere ai diversi ideali politici presenti nelle istituzioni e nella cultura cinese? Un’altra ragione può essere un attaccamento dogmatico verso l’opinione che dal sistema politico cinese non possa venire nulla di buono: è simile per natura ad altri cattivi regimi comunisti come quello dell’Unione Sovietica e della Corea del Nord, e prima crollerà, meglio sarà. Non posso rispondere a tali opinioni più di quanto ho già fatto nel libro. Ma lettori di vedute più aperte saranno forse più disposti a interessarsi a quel che dico. Vado ora a rispondere ad alcune delle critiche principali, aggiornando alcune delle mie opinioni sulla base dei nuovi sviluppi politici in corso in Cina.

la democrazia è una brutta cosa?

Il mio libro è stato accolto come un attacco alla democrazia. Stein Ringen, per esempio, sostiene che il libro intenda “persuadere chi di noi difende la democrazia che ci sbagliamo”.1 Il mio tentativo di “denigrare la democrazia in quanto tale […] rende il libro sgradevole: Bell è un ammiratore del sistema cinese, ma non gli basta che il suo favorito abbia successo, vuole anche che gli avversari sbaglino”.

Il mio scopo non è quello di denigrare la democrazia in quanto tale. Piuttosto il contrario: sono un forte sostenitore della democrazia elettorale in paesi che hanno messo in atto tale sistema. Certo, spero che la democrazia possa essere migliorata dalle migliori pratiche meritocratiche, ma qualsiasi miglioramento deve partire dalle fondamenta della democrazia elettorale, anche soltanto perché le alternative pratiche tendono a essere dittature militari o populismi autoritari. Quando il popolo ottiene il voto, non vuole rinunciarvi, e i sostenitori di alternative politiche devono ricorrere all’uso della forza per cambiare il sistema. E quel tipo di alternativa è quasi sempre peggiore della democrazia elettorale: pensiamo alla Thailandia o all’Egitto (ho avuto un tuffo al cuore quando i dittatori militari appoggiati da una minoranza di ricchi “liberali” hanno rovesciato il potere dei Fratelli musulmani eletti democraticamente in Egitto). Perciò quando i paesi adottano un sistema a suffragio universale per la scelta dei propri leader, è di solito troppo tardi per cambiare (se non ricorrendo alla forza), a prescindere dagli argomenti contrari. Ma le democrazie elettorali possono e dovrebbero imparare dalle migliori pratiche meritocratiche compatibili con la democrazia elettorale, come quella di rafforzare una pubblica amministrazione professionale e competente e conferire poteri ad esperti in ambiti ristretti.

Perché quindi la mia opera comincia con un capitolo che prende in esame quattro tipici problemi associati ai sistemi democratici? Il mio scopo è semplicemente quello di “desacralizzare” l’ideale del suffragio universale, mostrando che le democrazie elettorali non si comportano necessariamente meglio delle meritocrazie politiche se analizziamo gli standard diffusamente condivisi di buon governo, con la speranza che i lettori mi seguano nel resto del libro nella mia ricerca di una valutazione più equilibrata del sistema politico cinese. Mi rendo conto, adesso, che non è facile mettere da parte un valore politico che ha raggiunto connotazioni quasi religiose. Sono cresciuto nella cultura politica di una società occidentale, e il mio sistema morale personale ha attraversato decenni di shock prima di mettere in dubbio il valore universale della democrazia imparato da bambino. Forse era irrealistico pensare che agli occidentali bastasse semplicemente leggere un capitolo di un libro, e mi rendo conto ora che il primo capitolo può aver avuto l’effetto involontario di chiudere più che aprire le menti.

Ma vi è qualcosa di profondamente problematico nel sostenere che la democrazia è adatta ad alcuni paesi ma non alla Cina? Non dovremmo stare attenti all’“orientalismo” che sembra riecheggiare le tesi di John Stuart Mill contro la democrazia in paesi “barbari” come l’India? Se così è, accuse simili potrebbero essere sollevate contro intellettuali cinesi che spesso sostengono che la “qualità” (>素质) del popolo cinese è troppo bassa per la democrazia elettorale. La mia tesi però è diversa: secondo dati empirici seri (si veda il capitolo 1), sostengo che la qualità degli elettori è bassa anche in paesi come gli Stati Uniti,3 e non vi è motivo di credere che gli elettori cinesi diventeranno più razionali o più orientati verso il bene pubblico degli elettori nel resto del mondo. E dal momento che la Cina ha sviluppato e adottato – in una forma altamente imperfetta – meccanismi meritocratici per scegliere e promuovere leader politici con eccellenti qualità intellettuali, sociali e morali, qualsiasi miglioramento non dovrebbe forse prendere le mosse da questo sistema? Non è importante chiedersi come migliorare la meritocrazia politica, e come ridurre al minimo i suoi svantaggi, in un contesto politico nel quale l’ideale ha una lunga tradizione storica, ha ispirato le riforme politiche degli ultimi trent’anni, ed è diffusamente approvato dal popolo secondo indagini politiche affidabili?

Nei molti dibattiti sul libro a cui ho partecipato nell’ultimo anno, spesso mi viene chiesto: “se la democrazia elettorale funziona a Taiwan, perché non può funzionare anche in Cina?”. La mia risposta è che il contesto politico è radicalmente diverso. Prima di tutto, Taiwan è una società moderatamente benestante e i suoi problemi impallidiscono rispetto a quelli della Cina (degrado ambientale, divario enorme tra ricchi e poveri, decine di milioni di persone che vivono in estrema povertà, ecc.). Perciò se la politica taiwanese degenera nella paralisi politica,4 non è la fine del mondo. Ma tali esiti in Cina sarebbero disastrosi e potrebbero certo significare la fine del mondo. Le dimensioni contano molto. Comunità politiche piccole possono permettersi il populismo e un miope crogiolarsi nei propri problemi, anche al costo di trascurare una pianificazione lungimirante o l’attenzione politica per le generazioni future e il resto del mondo. Ma la Cina è una comunità enorme e le sue politiche modellano le vite di centinaia di milioni di cinesi adesso e nel futuro, oltre che del resto del mondo. La Cina non può permettersi lo svantaggio della democrazia elettorale in stile taiwanese.

Detto questo, è vero anche che la Cina ha molto da imparare da Taiwan e da altre comunità politiche che hanno intrapreso la strada della democrazia liberale. Taiwan ha attuato programmi che sono riusciti ad aumentare la quota delle donne al governo: chiara la lezione per la politica cinese dominata dagli uomini.

E non vi è nulla di incompatibile tra la ricerca di miglioramento della meritocrazia politica e altre caratteristiche delle società democratiche, fatta eccezione per il suffragio universale: la libertà di parola, la libertà di associazione a esclusione del diritto di formare partiti politici per competere per il potere ai vertici, lo Stato di diritto e varie innovazioni democratiche come l’uso di referendum e di sondaggi deliberativi. Come vedremo, la Cina avrà bisogno di aprirsi a tali valori e pratiche democratiche nel proseguire il suo processo di modernizzazione in futuro.

una difesa dello status quo?

Un amico mi ha detto che dovrei sentirmi onorato dal fatto che il mio libro sia entrato a far parte di quella schiera di libri di cui si parla anche senza averli letti. Non ne sono così sicuro: è difficile scardinare giudizi erronei, una volta che si sono formati.5 La lamentela più comune è che io sia un “apologo” del governo cinese. Ma nessuno che abbia davvero letto il libro può giungere a una simile conclusione. Io difendo un ideale, non la realtà politica.

Se darsi delle etichette conta, sono un teorico politico e il mio metodo è la “teoria politica contestuale”: cerco di fornire una descrizione coerente e difendibile dal punto di vista razionale delle principali idee politiche della cultura pubblica di una società. Dal momento che vivo e lavoro a Pechino da più di dieci anni, naturalmente questo metodo è applicato ai principali dibattiti politici della Cina contemporanea. Non avrei in alcun modo potuto scrivere questo libro se vivessi in un paese occidentale (o persino a Hong Kong, dove i dibattiti politici sono incentrati sulla desiderabilità della democrazia elettorale). A Pechino gli accademici e i riformatori politici discutono di quali qualità debbano avere i leader politici e come scegliere al meglio chi le abbia. Discutono anche di come contenere al meglio il potere dei leader scelti in modo meritocratico e come conciliare democrazia e meritocrazia. Sono domande che di norma non vengono poste nei dibattiti politici occidentali, ma in Cina sono estremamente importanti. Il mio libro è un tentativo di riflettere su queste domande in modo sistematico.

In Cina, il principale ideale politico – condiviso da funzionari di governo, riformatori, intellettuali e persone in genere – è quel che io definisco “meritocrazia democratica verticale”, intendendo una democrazia ai livelli inferiori di governo e un sistema politico che diventa progressivamente più meritocratico ai livelli più alti. Il paese è arrivato ad adottare un governo i cui vertici siano funzionari scelti per meriti dopo l’esperienza disastrosa del populismo radicale e della dittatura arbitraria nella Rivoluzione culturale, e i leader del paese sono riusciti senza molte controversie a ristabilire elementi della sua tradizione meritocratica, come la scelta dei leader in virtù di esami e promozioni grazie alla valutazione delle prestazioni ai livelli inferiori di governo. Questa idea di meritocrazia democratica verticale ha ispirato le riforme politiche degli ultimi trent’anni, ma rimane un grande divario tra l’ideale e la realtà. Perciò, il mio libro fornisce una prospettiva critica sulla realtà politica; non è una difesa dello status quo. Purtuttavia, sono a favore di un cambiamento che prenda le mosse da ideali condivisi in Cina, non da ideali importati dall’estero che non si ritrovano nella storia cinese, nel recente impegno nella riforma politica e in quel che gran parte della gente pensa al momento.6

La teoria politica di impostazione contestuale è un metodo diffusamente impiegato da filosofi che vivono e lavorano nelle società occidentali: di norma cercano di fornire interpretazioni di ideali democratici di larga condivisione, che vengono poi utilizzati per valutare in modo critico la realtà politica. Comprendo che questo metodo sia di rado impiegato per società non democratiche, a intendere quelle società che non pretendono neanche di mostrare che i loro leader sono scelti dal popolo. Di fatto, non mi viene in mente un solo tentativo della lunghezza di un libro da parte di un teorico politico contemporaneo che ci provi.

La ragione principale per cui i teorici sono stati riluttanti nel difendere sistemi politici non democratici, naturalmente, è che le principali alternative alla democrazia nel Ventesimo secolo – il nazismo, il comunismo di stile sovietico, e il maoismo – hanno causato indicibili sofferenze a decine di milioni di persone. Alcuni intellettuali occidentali hanno provato a difendere quei sistemi politici, ma i loro contributi sono a ragione stati cestinati. A onor del vero, quei teorici non conoscevano bene il sistema politico che cercavano di difendere, e imponevano strutture concettuali teoriche che non corrispondevano alla realtà dei sistemi esaminati. Alcuni recensori affermano che il mio libro rientra in quella tradizione passata di pensiero politico incauto, se non addirittura immorale. Ma vi è un’importante differenza. Quei pensatori erano fondamentalmente tagliati fuori dalle società delle quali scrivevano: proiettavano ideali su società opache e misteriose, come quella della Corea del Nord odierna. La loro colpa era che avrebbero dovuto essere più cauti e avrebbero dovuto rendersi conto che è estremamente difficile avere accesso a informazioni affidabili in società chiuse.

La Cina contemporanea è un animale politico diverso. È un paese grande e complesso, e tutti sappiamo che c’è la censura, restrizioni delle libertà civili, e mancanza di trasparenza politica. Ma è possibile avere accesso a informazioni sufficienti a elaborare un giudizio informato sul sistema politico e sui suoi valori. Chiunque parli la lingua, viaggi dentro e fuori dal paese, parli con gruppi diversi di persone (compresi leader politici a livelli diversi di governo), legga in cinese e inglese, e acceda a siti web e gruppi di chat con diverse prospettive politiche, può provare a fornire un’interpretazione plausibile delle principali idee politiche della società. Un conto quindi è non essere d’accordo con la mia interpretazione, questo lo accetto, altro invece paragonare i miei sforzi a quelli di pensatori del passato che hanno difeso inconsapevolmente sistemi politici del tutto chiusi e retti da tiranni che hanno assassinato decine di milioni di persone.

Il metodo conta perché chiedersi quali ideali dovrebbero essere utilizzati per valutare la realtà politica è una scelta politica. Chi mi critica sostiene che lo standard da seguire per valutare il progresso o il regresso politico in Cina dovrebbe essere la democrazia liberale, e non mostra alcun interesse verso gli ideali politici delle tradizioni politiche cinesi. Rimangono sulle orme di pensatori occidentali come John Stuart Mill, Hegel, e persino lo stesso Marx. Non è una coincidenza che tali opinioni fossero più comuni all’apice del colonialismo occidentale.

Oggi, la Cina non è un paese colonizzato; è un paese orgoglioso e sempre più potente, con una tradizione politica ricca e varia, e i suoi leader, riformatori, intellettuali e singoli individui in generale si stanno rivolgendo sempre di più alle loro tradizioni per trarne ispirazione.7 Naturalmente, vi è resistenza verso i pensatori occidentali che cercano di valutare la realtà politica della Cina rigorosamente secondo ideali che non c’entrano nulla con le tradizioni cinesi, proprio come gli occidentali si opporrebbero a pensatori cinesi che tentassero di valutare la democrazia attualmente esistente nei paesi occidentali rigorosamente secondo, per esempio, ideali confuciani. Per quanto pure siano le intenzioni dei democratici occidentali, avveleneranno i rapporti con la Cina se non si sforzeranno di capire e (in certa misura) apprezzare i principali ideali della cultura politica cinese, quando trattano con la Cina. Certo, è più facile da dirsi che da farsi. Ma non vi è alternativa se dobbiamo vivere in pace con una Cina in ascesa.

un libretto utopico?

Altre critiche giungono dalla direzione opposta: il problema non è che sono troppo vicino alla realtà politica cinese, ma anzi che ne sono troppo distaccato. Andrew Nathan ha pubblicato tre recensioni nelle quali afferma che il mio libro è “fiction”. Pur vivendo e lavorando da più di dodici anni a Pechino, dove intrattengo rapporti con una vasta serie di intellettuali e funzionari politici, e dove insegno in un’università che ha formato molti dei principali leader cinesi, sono riuscito in qualche modo a scrivere un libro che “non è un resoconto della Cina reale”.8 Il problema non è tanto la mia descrizione della democrazia elettorale ai livelli inferiori o della sperimentazione ai livelli intermedi di governo – è difficile negare la realtà di tali fenomeni – quanto piuttosto la mia difesa dell’ideale di meritocrazia politica ai vertici. Nella teoria, forse, il metodo adottato dalle meritocrazie di scegliere leader politici attraverso esami e valutazione delle prestazioni decennali ai livelli inferiori di governo ha vantaggi rispetto ai sistemi democratici che eleggono leader in elezioni competitive regolari: soltanto chi ha un curriculum eccellente di prestazioni passate ai livelli inferiori di governo con probabilità salirà a quelli più alti, i leader scelti per merito con maggiore probabilità non faranno gli errori dei principianti, possono impegnarsi in pianificazioni lungimiranti che considerino gli interessi delle generazioni future, senza preoccuparsi delle elezioni successive, possono svolgere esperimenti ai livelli inferiori di governo che impiegano anni, se non decenni, a dare frutti sicuri, sapendo che ci sarà stabilità ai vertici, e hanno più tempo per pensare a politiche sensate invece di perdere tempo a raccogliere fondi e proporre come un disco rotto gli stessi discorsi da campagna elettorale.

Ma l’ideale meritocratico, dicono i critici, non ha nulla, o molto poco, a che fare con la realtà politica cinese.9 Il cinismo proviene dall’opinione che il Partito comunista cinese (PCC) si dedichi prima di tutto e soprattutto a perfezionare il potere del controllo. Ma se del PCC diciamo soltanto che non è diverso nell’essenza dai giorni di Mao e che il sistema politico cinese è simile per natura a quello di altri sistemi autocratici, stiamo tralasciando parti centrali della storia politica della Cina. È ovvio che il PCC probabilmente non adotterà riforme politiche che portino alla sua fine, ma aver deciso di (ri)stabilire una meritocrazia politica distingue la Cina da altri sistemi non democratici ed è centrale per il successo che ha avuto negli ultimi trent’anni.

Come si può dire se esiste meritocrazia politica? In effetti è una domanda complicata. La meritocrazia politica è l’idea che il sistema politico dovrebbe tendere a scegliere e promuovere leader con qualità superiori, ma che cosa si intenda come merito varia da contesto a contesto (si veda il capitolo 2). Mi concentro sull’indagare che cosa costituisca il merito politico per funzionari dal livello cittadino in su in un paese grande, rinnovatore e relativamente pacifico che aspiri a essere una meritocrazia politica, per poi applicare le mie conclusioni al caso della Cina. Secondo me il sistema politico dovrebbe puntare a scegliere e promuovere leader con intelligenza, abilità sociali e virtù eccellenti e suggerisco meccanismi in grado di aumentare le probabilità che vengano individuati. Riconosco, d’altronde, che è difficile mettere in atto una meritocrazia politica. Diversamente da elezioni democratiche libere ed eque che si possono adottare (nel bene e nel male) anche in società povere e caotiche come l’Iraq e l’Afghanistan, ci vogliono decenni, se non di più, per stabilire un sistema equo e affidabile che scelga e promuova leader con qualità superiori.

Perciò perché diciamo che la Cina ha fatto progressi meritocratici negli ultimi trent’anni? Certo, il divario tra ideale e realtà è grande:10 clientelismo e reti sociali, per non parlare di lotte di potere non percepibili dall’opinione pubblica, aiutano a spiegare chi va dove. Il funzionamento del Dipartimento per l’organizzazione, che stabilisce gli standard per la scelta e la promozione dei funzionari, è leggermente più aperto di qualche anno fa, ma rimane ampiamente oscuro agli esterni.

Però è difficile negare che il sistema politico cinese sia molto più meritocratico che ai giorni di Mao. Istruzione ed esami hanno svolto un ruolo sempre più importante nella scelta e promozione dei leader politici. Il mio libro fa riferimento a dati empirici per dimostrare che i funzionari sono stati spesso promossi per le loro buone prestazioni ai livelli inferiori di governo, e il metro di misura per giudicare le buone prestazioni era in genere la crescita economica.11 La conclusione generale che si trae da questi studi è che riuscire a ottenere una crescita economica di solito svolge un ruolo nella scelta e promozione di funzionari di governo nel corso della loro carriera – pochi, se non nessuno, dei funzionari si avvicinano ai vertici senza un curriculum economico relativamente buono – ma ai livelli più alti di governo contano maggiormente le reti clientelari. In termini più positivi, gran parte dei principali leader della Cina ha un livello di competenze economiche straordinariamente alte (rispetto ai leader delle democrazie elettorali, per non parlare di paesi come la Corea del Nord), e le abilità sociali sono particolarmente utili nell’assicurarsi reti sociali più profonde e ricche ai livelli più alti del governo, il che può essere utile per l’attuazione delle politiche.

Alcuni critici esprimono dubbi a proposito dell’idea che i governanti della Cina siano in alcun modo responsabili del successo del paese nell’aver sollevato centinaia di milioni di cinesi dalla povertà. Dovremmo lodare il duro lavoro del popolo cinese invece che quello del governo. Ma il popolo opera entro un contesto di politiche che è favorevole al miglioramento economico. È questo il legame tra la meritocrazia politica attualmente esistente in Cina e il miracolo della riduzione della povertà nel paese: i funzionari venivano spesso promossi perché le loro prestazioni a livelli medio-bassi di governo erano buone, e le buone prestazioni si misuravano con la crescita economica, e dal momento che la crescita economica è la chiave per ridurre la povertà, allora il sistema di incentivi per promuovere i quadri ha svolto un ruolo importante nella riduzione della povertà. La riforma fondiaria e “la sperimentazione sotto gerarchia”, anch’essa alla base della crescita economica, sono state attuate da funzionari pubblici scelti e promossi almeno in parte per le loro competenze economiche.

È vero che la competenza economica non è il solo fattore che determina chi viene promosso anche quando ha un impatto misurabile sulle prospettive di carriera di funzionari pubblici. Ringen afferma che “il criterio più importante per il quale funzionari di livello inferiore vengono promossi è il mantenimento della stabilità”. Ma la stabilità viene valutata in senso negativo, vale a dire che non è probabile che i funzionari vengano promossi se i loro distretti sono piagati da instabilità. Lo stesso vale per la “fedeltà al partito”: è quando i funzionari di partito sono apertamente sleali che incorrono in problemi. Il mantenimento della stabilità politica e la lealtà al partito non sono le sole ragioni per cui i funzionari vengono promossi, o neanche la principale.

Chi sostiene (in modo controfattuale) che una riduzione della povertà di queste dimensioni sarebbe stata possibile anche con un sistema politico diverso dovrebbe essere in grado di provarlo. È vero, come osserva Ringen, che la Corea del Sud e Taiwan sono assurti a paesi a reddito elevato entro una struttura politica democratica. Ma se giudichiamo il numero di persone sollevate dalla condizione di povertà, allora i risultati cinesi sono ben più impressionanti (la popolazione della Corea del Sud è meno della metà di quella della provincia del Guangdong). In più, gran parte della crescita economica della Corea del Sud e di Taiwan è avvenuta in condizioni non proprio democratiche, e la crescita è rallentata dall’avvento della democratizzazione.

Alcuni critici contestano l’idea stessa della superiorità in politica e perciò rifiutano in toto l’idea di scegliere e promuovere leader con qualità superiori. Nathan dichiara che “il problema maggiore nella teoria della meritocrazia avanzata da Bell è che pensare di volere leader di qualità per prendere decisioni di alto livello si fonda sul concetto che vi siano decisioni giuste e sbagliate”.12 Ovviamente ogni decisione può portare a controversie, ma alcune decisioni sono migliori di altre: ci aspettiamo, perlomeno, che i nostri leader non prendano decisioni disastrose riguardo alla questione del cambiamento climatico, quando si tratti di invadere altri paesi, o di promuovere una crescita sostenibile. Non è una fortuna che negli ultimi trent’anni la Cina abbia scelto e promosso i suoi leader con abbastanza buon senso da concentrare le energie del paese sulla riduzione della povertà e senza entrare in guerra con altri paesi? Ci saranno nuove sfide politiche in futuro, ma sembra ovvio che i miglioramenti nel sistema politico devono appoggiarsi a meccanismi meritocratici per la scelta e la promozione dei governanti invece che comprometterli.

Naturalmente, il potere di leader politici scelti per meriti deve essere contenuto, come spiego nel capitolo 3. Qualsiasi sistema politico decente deve conferire potere a leader affinché agiscano bene e limitarli quando agiscono male. Ma possono esserci disaccordi giustificabili su come equilibrare i due desiderata. Viste le differenze nella cultura politica e quel che i cinesi chiamano “le condizioni nazionali”, mi aspetto che i cinesi si avvicineranno di più a dare potere ai leader affinché agiscano bene, mentre gli americani si avvicineranno di più a contenere il loro potere di agire male. In epoca moderna ci sono forse anche buone ragioni normative per avvicinarsi più al conferimento di poteri che al loro contenimento, quando shock finanziari e ambientali inaspettati richiedono risposte di governo forti ed efficaci.13 Ciò detto, la preoccupazione è che il PCC mostri segni di vecchiaia e potrebbe non essere in grado di guidare il paese nel futuro.

la fine del modello Cina?

Soltanto qualche anno fa, la Cina era da moltissimi considerata una potenza economica inarrestabile governata da leader capaci e impegnati, e ben instradata nel diventare un’antagonista degli Stati Uniti a livello globale.14 Oggi, la grande preoccupazione è che l’economia della Cina stia implodendo e crolli portandosi appresso il resto del mondo.

Le preoccupazioni di questi pessimisti sono fondate, ma i loro timori eccessivi. Buone prestazioni economiche sono divenute in Cina un importante metro di giudizio della legittimità politica, motivo per il quale i problemi economici odierni hanno generato tali correnti di preoccupazione. Ma dalle scarse prestazioni economiche ne consegue – come sembrano pensare molti analisti in Occidente – che il governo perderà l’appoggio del popolo, mettendo così a repentaglio il sistema politico?

Non necessariamente. È chiaro che il governo abbia commesso errori, tra cui il gonfiare la bolla della Borsa è quello più evidente. Incoraggiati da media a proprietà statale, singoli investitori sono entrati in massa nella Borsa di Shanghai, mandando le azioni a cifre stellari. Il 21 aprile del 2015, le azioni erano salite di più dell’80 per cento in meno di quattro mesi, ma un commento online in People’s Daily incoraggiava ancora i suoi lettori a mettere i loro risparmi nel mercato, rassicurandoli che guadagni continui avrebbero goduto del pieno “appoggio da parte della strategia di sviluppo della Cina e delle riforme economiche”.

Recensioni

Simone Pieranni Il modello Cina, in un mondo grande e ambivalente
Il Manifesto 8.8.2019

TRA ORIENTE E OCCIDENTE. Attraverso saggi, di taglio sociologico e politologico, un percorso di letture su meritocrazia e leadership. Daniel A. Bell, canadese esperto di politica e filosofia asiatica, si difende dalle accuse di «panda huggers». Yan Xuetong prosegue il ragionamento del collega partendo dall’analisi delle relazioni internazionali

Nella prefazione alla nuova edizione del suo libro Modello Cina, meritocrazia politica e limiti della democrazia (Luiss, 2019, pp. 350, euro 25, prefazione di Sebastiano Maffettone, traduzione di Gabriella Tonoli) il sociologo canadese ed esperto di politica e filosofia asiatica Daniel A. Bell, espone e risponde ad alcune delle critiche che vennero riservate al suo volume al momento dell’uscita – in lingua inglese – avvenuta nel 2015. In particolare, il testo venne etichettato come un «attacco alla democrazia», finendo per inserire il suo autore all’interno dei cosiddetti «panda huggers», espressione per indicare studiosi eccessivamente indulgenti, quando non «sostenitori», del sistema politico cinese.
Si tratta di una critica che fa il pari con il suo contrario: quando si evidenziano storture all’interno della governance cinese, talvolta, si viene inseriti nell’estremo opposto, ovvero tra i cosiddetti «China basher», gli «odiatori» del sistema politico cinese. Queste due «accuse» il più delle volte sono esageratamente tranchant e semplicistiche, ma per rimanere al caso di Daniel A. Bell sono anzitutto ingenerose. Sostenere che «il modello cinese» possa fornire un’alternativa ai modelli politici occidentali liberali, o supposti tali, e che la sua storia e la sua ricerca della meritocrazia – ampiamente migliorabile – possa essere utile anche ai sistemi occidentali (questo è il cuore del libro, come spiega nell’ottima prefazione Sebastiano Maffettone) non significa essere anti-democratici. Significa semplicemente inserire la propria riflessione all’interno della storia del paese di cui ci si occupa.
COME SCRIVE BELL, «la teoria politica e le istituzioni cinesi devono essere prese sul serio e per giudicare il progresso e il regresso politico in Cina si deve partire principalmente dalla cultura politica e dalla storia cinese», considerando che dovrebbe «sembrare strano sostenere di riformare il sistema politico cinese secondo i valori dei padri fondatori dell’America o dei liberali kantiani».
In Cina la concezione dei cicli politici si basa sull’opposizione tra ordine e caos. Solo con l’ordine nasce la virtù. Conseguenza della tradizione cinese è un attuale sistema politico che pesca dal passato la volontà di svilupparne uno efficiente grazie a una scelta basata sul merito dei suoi funzionari. E che Bell non considera affatto superiore alla democrazia; si limita a sostenere il diritto dei cinesi di considerare il proprio sistema come diverso e non per questo inferiore a quelli occidentali.
ANALOGO DISCORSO può essere effettuato sulla questione dei diritti umani, concetto occidentale, che in Cina si trasforma nella volontà del governo di aumentare il benessere e la felicità della popolazione (di recente Xi Jinping in suo discorso ha sottolineato come l’aspetto principale della sua «Nuova era» sia proprio quello di sforzarsi per garantire il benessere della popolazione, invitando quadri e funzionari di partito a cercare «di capire il più possibile quali sono le esigenze dei cittadini cinesi»). Insomma, sarebbe il momento di finirla di considerare aprioristicamente dei sistemi «buoni» e dei sistemi «cattivi».
Nella sua prefazione alla nuova edizione del volume Daniel A. Bell scrive: «Ma vi è qualcosa di problematico nel sostenere che la democrazia è adatta ad alcuni paesi ma non alla Cina? Non dovremmo stare attenti all’orientalismo che sembra riecheggiare le tesi di John Stuart Mill contro la democrazia in paesi «barbari» come l’India? Se è così accuse simili potrebbero essere sollevate contro intellettuali cinesi che spesso sostengono che la «qualità» del popolo cinese è troppo bassa per la democrazia elettorale». Il cuore della meritocrazia cinese è riscontrato da Daniel A. Bell nella storia e dinamica degli esami imperiali, metodologia che dagli anni ’90 è stata ripresa per selezionare anche i funzionari politici (ed elemento suscettibile di miglioramento secondo lo stesso Bell): «l’idea di ricorrere a esami per individuare il talento politico sembra strano agli occidentali ma ha radici profonde nella cultura politica cinese».
IL PRINCIPIO di meritocrazia politica, la designazione di funzionari «secondo il merito piuttosto che per il loro pedigree», scrive Bell, «era condiviso da tutte le principali correnti intellettuali del periodo pre-imperiale». Con l’istituzionalizzazione del sistema di esami nella Cina imperiale, il dibattito si è sostanzialmente chiuso». A istituirli fu l’imperatore Wu della dinastia degli Han (141 a.C.-87 a.C.) già protagonista dell’invio dell’emissario che avrebbe poi aperto la Cina al commercio su quella che poi sarebbe stata chiamata la «via della seta». Con la dinastia Tang furono una condizione necessaria per accedere agli incarichi di funzionari, per maturare poi definitivamente nel periodo Ming (passando anche per una fase nella quale erano una sorta di soluzione allo strapotere aristocratico: in quel caso la «meritocrazia» si prefiggeva di sconfiggere privilegi di natura ereditaria).
Lee Kuan Yew, fondatore e ideatore della Singapore come la conosciamo oggi, non senza repressione e pugno di ferro contro gli oppositori, era un grande conoscitore della Cina. E a proposito delle tradizioni ricordava in continuazione la contrapposizione tra ordine e caos, citando il famoso detto, «le montagne sono alte, l’imperatore è lontano»: solo la centralità e la sua garanzia dovuta alla selezione dei funzionari può assicurare ai cinesi una sorta di continuità storica con un metodo di reclutamento che, modificatosi nel corso dei secoli, è per lo più ancora lo stesso.
DANIEL A. BELL ha scelto inoltre alcune linee guida per esaminare il cosiddetto «modello cinese», inserendosi all’interno di un dibattito nazionale. Sono stati molti gli autori cinesi che negli ultimi anni hanno indagato le caratteristiche del sistema cinese, cercando di trovare confronti e agganci con i modelli occidentali: alcuni di sicuro lo fanno partendo da posizioni ultra nazionaliste, come nel caso di Zhang Weiwei, altri come ad esempio Yan Xuetong, tentano invece di analizzare il modello cinese alla luce delle relazioni internazionali. Per questo l’ultima opera di Yan Xuetong, Leadership and the rise of great powers (Princeton University Press, pp. 260, 30 dollari) pubblicato di recente nella collana curata proprio da Daniel A. Bell, si può considerare attiguo e per certi versi una continuazione del ragionamento offerto da Bell nel suo volume.
Il primo analizza alcune caratteristiche fondanti del «modello Cina»; il secondo si chiede se questo modello, partendo dalla sua teoria delle relazioni internazionali che affida suprema importanza alla categoria del «politico», possa contribuire a fare della Cina il paese leader pur in un mondo che è tornato a essere bipolare. Xuetong analizza in particolare il periodo pre Qin (quindi dal 700 a.c. Circa fino al 200 circa), quando ancora l’aspirazione imperiale della Cina era falcidiata da scontri durante i quali si oscillava tra l’ordine e il caos. In particolare Yan si concentra sul periodo delle Primavere e degli autunni e sul periodo degli Stati Combattenti analizzando le dinamiche interstatali e scorgendo all’interno di queste traiettorie importanti lezioni di relazioni internazionali ancora valide, a suo dire, oggi. All’interno di quei periodo Yan rileva la scansione dell’approccio internazionale, da «umano» a «egemone», evidenziando una lezione che indubbiamente vale ancora oggi: «quando il sistema tributario è consolidato, le relazioni tra gli Stati sono in ordine; altrimenti sono caotiche».
IN CINA, scrive Bell, «il principale ideale politico – condiviso da funzionari di governo, riformatori, intellettuali e persone in genere – è quello che io definisco meritocrazia democratica verticale, intendendo una democrazia ai livelli inferiori di governo e un sistema politico che diventa progressivamente più meritocratico ai livelli più alti». Daniel A. Bell nel libro si pone anche alcune problematiche relative a una corretta, o meno, meritocrazia, a come la Cina dovrebbe «aprire» a sperimentazioni di natura democratica ai livelli più bassi per migliorare le caratteristiche della propria «meritocrazia». A questo proposito bisogna ricordare che quest’ultimo concetto è spesso un tentativo di mascherare blocchi sociali, attraverso l’attribuzioni di particolari doti.
Se non bastasse la letteratura al riguardo, sarebbe sufficiente guardare la prima stagione della serie brasiliana dal titolo 3% in cui il mondo è diviso da un tre percento che vive in un paradiso terrestre (nell’Offshore) mentre il restante della popolazione sta in condizioni di indigenza totale (nell’Entroterra). Ma ogni anno i ventenni dei disperati possono partecipare a un grande esame (seppure più cruento di quelli cinesi) per «meritarsi» di stare tra il tre percento. E una volta nel paradiso terrestre i più «meritevoli» dovranno sterilizzarsi: la discendenza, sostengono gli abitanti dell’Offshore, è il «supremo simbolo della diseguaglianza».

Maurizio Scarpari La meritocrazia serve ma la politica è di più La lettura 25/8/2019

Inconvenienti La naturale propensione degli uomini a esercitare in modo personalistico il potere non risparmia certo il gigante asiatico
Lo studioso Daniel A. Bell indica all’Occidente il sistema di selezione dei leader praticato in Cina: qui la verifica dei titoli e le qualità morali e intellettuali (oltre all’appartenenza al Partito comunista) sono essenziali. Sembrano suggerimenti utili per sistemi politici come i nostri, dove l’incompetenza delle classi dirigenti fa danni. Eppure non è così semplice…
In un’era caratterizzata dall’incompetenza e dalla spettacolarizzazione della politica come strumenti di consenso e legittimazione, la questione rilevante è se il concetto di democrazia sia ormai superato e se le elezioni a suffragio universale siano davvero in grado di garantire il diritto di essere governati da leader preparati e capaci di prendere decisioni ponderate orientate al bene collettivo e non agli interessi di pochi. Il tema del buon governo e della formazione e selezione della classe politica è da sempre al centro della speculazione filosofica cinese, soprattutto in ambito confuciano, dove la distinzione tra funzionario pubblico e leader politico non è mai stata netta. Sono questioni complesse che toccano da vicino la realtà in cui viviamo, peraltro sempre più protesa verso forme di governance illiberali. Viene dunque a proposito la pubblicazione da parte di Luiss University Press del controverso saggio di Daniel A. Bel l (Montreal, Canada, 1964, nessuna parentela con il sociologo americano Daniel Bell) Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia.
Uscito in America quattro anni fa (in quell’occasione l’autore era stato intervistato da «la Lettura» del 17 maggio 2015), il volume è stato fortemente criticato e l’autore, noto per le sue posizioni filo-cinesi, è stato tacciato di apologia. Il merito di Bell sta nell’aver descritto il «modello cinese» all’Occidente e nell’aver sollevato questioni rilevanti per il futuro della democrazia. Bell non propone di sposare
tout court il modello cinese, peraltro poco esportabile al di fuori del suo contesto, ma di valutare se alcuni suoi elementi — primo fra tutti la meritocrazia politica — possano essere utilizzati per migliorare il sistema democratico liberale, che a fatica riesce a stare al passo con i tempi. Di che cosa si tratta?
Iniziamo col dire che la classe politica cinese è tra le più preparate al mondo. Il sistema di reclutamento è infatti volto a individuare e a selezionare i migliori, nulla è lasciato all’improvvisazione: l’idea che persone prive dei requisiti necessari e di esperienza di gestione politico-amministrativa possano assumere responsabilità di governo, anche solo a livello locale, non è nemmeno presa in considerazione, secondo una tradizione che in Cina è vecchia di secoli. Prerequisiti per intraprendere la carriera politica sono il possesso di una laurea, l’aver superato brillantemente una serie di test attitudinali ed esami estremamente selettivi, e l’aver ricoperto un incarico nell’apparato di governo locale per almeno un biennio. Sembra un’ovvietà, ma sappiamo bene che non lo è. Conta anche l’appartenenza al Partito comunista, che recluta i suoi affiliati tra gli studenti universitari più promettenti. Più si sale di livello e più rigorosi sono i requisiti richiesti.
La carriera inizia a livello periferico, nei comitati di villaggio o di quartiere, prosegue poi nell’amministrazione comunale, di contea, di prefettura, di provincia, per approdare infine a ruoli di rilievo nell’apparato centrale, per ricoprire i quali sono necessari almeno un paio di decenni di duro lavoro. In questo lungo percorso il funzionario-politico viene inviato ad affinare la propria preparazione in scuole di partito e nelle migliori università, anche all’estero, e deve sottostare a periodiche valutazioni per verificare le sue doti, le capacità intellettuali e di leadership, il profilo etico, le abilità sociali, la competenza e le sue esperienze. È stato calcolato che su sette milioni di civil servant in servizio, solo uno su 140 mila arriva a livello di provincia o ministero e solo un numero ristrettissimo approda ai massimi livelli.
La meritocrazia politica in stile cinese che Bell chiama «meritocrazia democratica verticale» consiste dunque in un sistema fortemente organizzato e competitivo, strutturato in base al principio «democrazia in basso, sperimentazione nel mezzo e meritocrazia al vertice», che non consente l’accesso a chiunque: a livello locale i candidati sono scelti attraverso libere elezioni (primo cardine del modello), che in genere vedono affluenze elevate, intorno al 90 per cento. Via via che si sale nella gerarchia sono invece il profilo etico, le competenze e i risultati ottenuti nella gestione della cosa pubblica i fattori determinanti per proseguire nella carriera. La sperimentazione tra livello locale e livello centrale (secondo cardine) consente ai funzionari locali e intermedi e alle autorità governative centrali di verificare quali politiche innovative introdotte in via sperimentale in alcune aree del Paese possano essere assunte a livello nazionale. Il processo di riforma avviato alla fine degli anni Settanta del secolo scorso è basato su questo principio, rivelatosi il fattore determinante della politica di cambiamento e modernizzazione del sistema politico, sociale e produttivo.
La realizzazione di tale modello, all’apparenza inattaccabile, nella realtà non è avvenuta senza che ne venissero denunciati gli abusi, il diffondersi della corruzione e l’affermarsi di un governo sempre più autoritario e repressivo.
Il passaggio dalla teoria alla pratica si è rivelato più problematico del previsto, quanto l’applicazione, nelle democrazie liberali, del sistema basato sul concetto «una persona, un voto» che, di fatto, comporta la svalutazione della competenza e del merito (spesso additati come nemici da combattere), e che deve confrontarsi con l’emergere della naturale propensione degli uomini giunti al vertice a esercitare in modo personalistico il potere. Sono fattori che determinano il susseguirsi di formazioni politiche impreparate e inadeguate che, una volta giunte al potere, tendono a promuovere i propri interessi a discapito del bene comune e che fondano la ragione stessa della propria esistenza sulla difesa e sulla conservazione a ogni costo della posizione e dei privilegi di cui godono.
Il mondo di oggi necessita di nuove forme di governance in grado di affrontare i cambiamenti epocali in corso; il dibattito è appena avviato, richiederà tempo e soprattutto solide competenze e statisti di levatura che in questa fase storica stentano a emergere.

Bell difende l’idea di meritocrazia politica, da lui definita «l’idea che il potere politico dovrebbe essere distribuito secondo le abilità e le virtù» di Giulia Balossino 23/3/2021

Nel leggere Il modello Cina: meritocrazia politica e limiti della democrazia si ha l’impressione di trovarsi in una stanza degli specchi. Ci si scontra, storditi, contro l’idea di politica che vorremmo vedere realizzata, contro le sue attuali deformità e le sue alternative. L’autore è Daniel A. Bell, sociologo canadese, direttore della School of Political Science and Public Administration della Shandong University e professore di Filosofia alla Tsinghua University. Pubblicato nel 2015, il libro attira grande attenzione: Bell difende l’idea di meritocrazia politica, da lui definita «l’idea che il potere politico dovrebbe essere distribuito secondo le abilità e le virtù». Due sono i suoi obiettivi principali: «desacralizzare» la democrazia e promuovere l’idea che la natura meritocratica del sistema politico cinese potrebbe migliorare senza ricorrere al suffragio universale.

Dipingendo un contesto molto poco rassicurante delle attuali democrazie e proiettandosi verso il futuro, Bell rende la sua analisi una provocazione per il lettore democratico. L’incertezza del domani preoccupa tutti noi, in particolar modo nella crisi sociale generata dalla pandemia di Covid-19, che ha acuito la mancanza di solidarietà e di senso di comunità, la paralisi e l’incoerenza nelle scelte, oltre alle difficoltà economiche e sociali delle nostre democrazie. Specie nel contesto italiano, la classe politica ha creato nel tempo una ferita di sfiducia difficile da colmare. Esistono il bisogno di avere di nuovo fiducia nel sistema e la paura che alcuni meccanismi non funzionino in modo efficace: Il Modello Cina può essere un’occasione per ripensare a ciò che davvero chiediamo alla politica.

Vengono presentati i quattro difetti delle democrazie, chiamate tirannidi, della maggioranza, della minoranza, della comunità degli elettori e degli individualisti competitivi, cui segue l’analisi delle qualità necessarie alla classe dirigente. Si affrontano poi i problemi relativi alle meritocrazie politiche, come la corruzione e la chiusura delle élite, per giungere alla proposta della coniugazione tra meritocrazia e democrazia in senso verticale: democrazia locale, sperimentazione delle politiche e meritocrazia pura ai vertici.

Il desiderio di Bell è mostrare gli aspetti positivi della Cina di oggi e poter contribuire a migliorare la Cina di domani. Non c’è un tentativo di convincere ad abbandonare il suffragio universale. È in questa logica che alla fine del primo capitolo viene richiesto di fermarsi al «fanatico» della democrazia ed è con sincera curiosità che si prosegue nella lettura. Da un lato, il libro vuole presentare il modello cinese senza pretese di universalizzazione, dall’altro, Bell auspica che la Cina diventi ambasciatrice della meritocrazia nel mondo. È a partire da questa ambiguità che nascono alcune tensioni. Bell afferma che le democrazie dovrebbero imparare dalle meritocrazie e cede a giudizi di valore confondendo i due obiettivi posti all’inizio del percorso. Descrive la democrazia come un «sistema politico disfunzionale che ostacola leader con buone intenzioni». E ancora, a proposito della possibilità di migliorare la classe politica «[…] la Cina ha un chiaro vantaggio sulle democrazie elettorali, che lasciano tutto ai capricci della gente svincolata dalle lezioni della filosofia, della storia e delle scienze sociali». Implicitamente, quindi, e a volte neanche troppo, l’autore sta cercando di convincerci che le democrazie non possono migliorare, mentre i sistemi meritocratici sì.

Al termine del primo capitolo il lettore democratico si potrebbe sentire senza speranza: la maggioranza degli elettori è disinformata e soggetta a bias cognitivi; l’enorme divario economico rende molto difficile la mobilità sociale; gli elettori condizionano la vita di chi non può votare, come le generazioni future e gli stranieri. Infine, la democrazia è basata sulla competizione e sul confronto spesso talmente ostile da diventare puro conflitto. È problematico il caso delle generazioni future in relazione al cambiamento climatico, che secondo Bell le meritocrazie potrebbero gestire in modo più efficace e più a lungo termine rispetto ai nostri governi in continuo cambiamento.

Di particolare interesse è il caso della tirannide degli individualisti competitivi. Per Bell, la Cina avrebbe più opportunità di agire per il bene comune perché più armoniosa a livello sociale. È difficile immaginare che cosa sia davvero l’armonia sociale, quando le idee divergenti vengono sopite prima ancora che possano generare un confronto. Inoltre, non viene presa in considerazione l’idea di addestrarci a un uso diverso delle parole in politica e di sfruttare metodi di dibattito sani (Lakoff, 2006).

Bell si dimostra anche scettico di fronte alla soluzione di istruire in senso civico e morale i cittadini (Nussbaum, 2011) arrivando ad affermare che «nulla impedisce ai politici di prendere la strada più breve verso la vittoria elettorale». Ma anche i politici che costituiranno l’élite dovrebbero essere parte del processo di educazione morale, e questo dovrebbe proprio portarli a ripensare le loro scelte politiche e i loro metodi. Lo scetticismo di Bell sembra qui una presa di posizione basata su una questione di principio.

Una delle tesi proposte è che la classe dirigente dovrebbe essere sopra la media relativamente a virtù, abilità sociali e intellettuali. Ai fini di escludere chi non possiede le qualità minime, l’autore propone di affidarsi alle scienze sociali per sviluppare sistemi di valutazione delle capacità intellettuali, e per quanto riguarda la virtù, un meccanismo di selezione trasparente dovrebbe affidare la scelta del leader per il 60%, e 20% a subordinati e superiori. Il quadro lascia perplessi, perché il bisogno di competenza non giustifica in modo così chiaro la costituzione di una gerarchia morale tra gli esseri umani, basata su criteri che possono rivelarsi fallibili, e che verrebbero stabiliti dalla élite.

Bell afferma che nella meritocrazia «il compito della politica è quello di individuare chi abbia abilità superiori alla media e fare in modo che siano loro a servire la comunità». L’impressione è che si cerchi di costituire una classe politica perfetta, che non può commettere errori di valutazione perché formata in modo eccellente. Come fa notare Sebastiano Maffettone nella prefazione all’edizione italiana, viene il dubbio che non sia solo l’efficienza ciò che chiediamo alla politica oggi. Forse, si è sovrapposta la frustrazione, frutto di una oggettiva mancanza di efficienza, alla perdita di fiducia nel senso di rappresentanza. Ma non è solo risolvendo i problemi tecnici che si può ricostituire il senso di comunità, e ancor più non è rinunciando alla libertà che le democrazie potrebbero risolvere le loro distorsioni.

Fondamentale per la proposta di Bell è l’idea che la Cina non debba aprirsi al multipartitismo. Afferma che «il bisogno di formare leader per diversi cicli elettorali significa che la meritocrazia è incompatibile con il governo multipartitico» perché nessun leader accetterebbe di formarsi per stare in carica per poco tempo. Inoltre «[…] è possibile (e desiderabile) ridurre in modo sostanziale tale divario [tra l’ideale e la realtà della meritocrazia politica] senza istituire una democrazia elettorale ai vertici». È per questo che conclude il libro affermando che il Pcc non è un partito ma «un’organizzazione pluralistica composta da membri scelti per meriti da diversi gruppi e classi, e punta a rappresentare l’intero Paese».

Questo mina l’idea stessa che la Cina sia già da ora o che possa diventare una meritocrazia politica. Se non si abbandona il partito unico, la scelta non sarà realmente tra i migliori, ma solo tra i migliori che si adeguino al partito, che ne accettino i fondamenti e si muovano entro i suoi confini. Allora il merito diventa ciò che viene stabilito dal partito. Lo stesso Bell sostiene che l’idea di merito è mutevole e in constante evoluzione, e propone di ampliare la libertà di parola e di confronto, oltre al fatto di includere in una «minoranza di posti» membri eccellenti non appartenenti al partito. Anche se si ampliasse la competizione interna e si lasciasse più libertà a organizzazioni esterne e al mondo dell’informazione, come viene proposto da Bell riferendosi alle attuali correnti riformiste cinesi, impedire a gruppi di persone di organizzarsi secondo le proprie idee e di confrontarsi a livello di dirigenza politica rende molto difficile modificare l’idea di merito prevalente.

I dubbi relativi all’analisi del contesto cinese sorgono perché lo schema argomentativo oscilla tra la ricerca della migliore soluzione per la Cina e la sensazione che si stia cercando di convincere della superiorità della meritocrazia. Il libro suscita però una riflessione sull’idea di merito in sé. Che tipo di natura hanno le richieste di merito nel contesto occidentale? Perché questo concetto è quasi ogni giorno sui giornali? È solo un desiderio di efficienza? Esiste un merito utile alle democrazie che non sia ancora stato messo in atto?

Forse l’idea di merito dovrebbe essere ripensata per renderla compatibile con le nostre idee di eguaglianza e libertà, per non cadere nelle pericolose tendenze assolutiste e nella gerarchia morale tra gli esseri umani. Parlare di merito non è soltanto parlare di meritocrazia: potrebbe essere necessario rompere il legame tra merito e potere, spesso dato per scontato. Molto si potrebbe fare per ripristinare quel senso di comunità e di patto sociale che oggi manca, investendo parte dei nostri sforzi intellettuali su un’idea di merito che contribuisca al senso di solidarietà e non rappresenti solo l’efficienza. Investire sulla scuola, ripensare al ruolo dei partiti, a riformare la cultura nel senso del rispetto reciproco tra ruoli sociali diversi: la stanza degli specchi non diventerebbe allora un labirinto senza fine, ma un prezioso esercizio per ripensare il nostro futuro di democratici.

Rivista il Mulino 2023 Riproduzione riservata
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NOTA di PRESENTAZIONE

Tra i miti che l’occidente ha coltivato con cura per giustificare una pretesa superiorità nei confronti del resto del mondo c’è quello di derivare dal grande albero della civiltà greco-romana da un lato e di quella giudaico-cristiana dall’altro. Il capitalismo ha fatto piazza pulita di ogni istanza teologica, affogandola con parodie pseudoreligiose, miti mercantilesoterici e…

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