Dizionario politico minimo di Luciano Canfora

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Alessandro Somma
Vincenzo Sammaccaro

Scheda bibliografica SBN

Canfora, Luciano
Dizionario politico minimo / Luciano Canfora ; a cura di Antonio Di Siena. – Roma : Fazi, 2024. – XVI, 235 p. ; 20 cm. – (Le terre ; 278).) – [ISBN] 9791259674227.
Classificazione Dewey
320.03 (23.) SCIENZA POLITICA. DIZIONARI, ENCICLOPEDIE, CONCORDANZE

Sommario/Abstract SBN

“Antifascismo”, “Capitalismo”, “Costituzione”, “Democrazia”, “Guerra”, “Libertà”, “Occidente”, “Populismo”, “Potere”, “Propaganda”, “Sovranità”: sono solo alcune delle cinquanta voci che compongono questo Dizionario politico minimo di Luciano Canfora. Intervistato da Antonio Di Siena, il grande storico e filologo spazia dall’antichità al mondo contemporaneo, dalla politica alla storia, dalla filosofia alla cultura, per aiutare il lettore a capire la complessità di parole di cui si dà troppo spesso per scontato il significato. E, per il tramite di quelle, approfondire le principali questioni politiche del nostro tempo. Con straordinaria lucidità, competenza e chiarezza espositiva, in questo volume Canfora condensa oltre cinquant’anni di riflessione storico-politica, offrendo tanto ai suoi numerosi estimatori quanto ai “neofiti” un prezioso strumento di comprensione critica della realtà. In alcune voci parla il raffinato ed erudito accademico, in altre l’uomo, il pungente osservatore del mondo che non ha ancora smesso di interrogarsi su di esso. In tutte emerge con forza un pensiero schietto e disincantato, costantemente fuori dagli schemi, capace – anche grazie al costante richiamo al passato e alla grande conoscenza del mondo antico – di fornire una lettura alternativa del presente. Piccolo breviario laico contro il diffuso analfabetismo politico, Dizionario politico minimo è un testo destinato a diventare un punto di riferimento nel dibattito intellettuale.
Indice

Indice

Introduzione di Antonio Di Siena
Voci
Antifascismo / Anticapitalismo / Blocco sociale / Capitalismo / Cina / Costituzione / Decolonizzazione / /Democrazia / Diritti / Dittatura / Elezioni / Élite / Fascismo / Globalizzazione / Guerra / Hitler / Internazionalismo / Islam / Lavoro / Libertà / Manifesto (il) / Marx / Mediterraneo / Mondo multipolare / Mussolini / Nazionale / (Stato e interesse) / Occidente / Oriente / Pace / Palestina / Patria / Politicamente corretto / Populismo / Postdemocrazia / Potere / Progresso / Propaganda / Quaderni del carcere / Riscaldamento globale / Rivoluzione / Russia / Schiavitù / Scienza / Sinistra / Sovranità / Tecnologia / Ucraina / Unione Europea / Volontà popolare / Zeitgeist
Bibliografia a cura di Antonio Di Siena

Recensioni

Analfabeta a chi? di Alessandro Somma

A proposito del Dizionario politico minimo di Luciano Canfora a cura di Antonio Di Siena*

L’articolo che segue è stato tratto da questo URL

La politica vive di parole, ma queste possono anche provocarne la morte. Succede quando il discorso pubblico viene schiacciato sul “pensiero unico”, quando una censura sovente impalpabile ma sempre pervasiva identifica il dicibile e pretende di tracciare confini netti con l’indicibile. Per “screditare qualunque forma di dissenso” semplicemente impedendo di pronunciarlo, e condannare così all’emarginazione “chiunque si faccia portatore di una visione critica”. Di più: per etichettarlo come “analfabeta politico” (xii) per il solo fatto di essere indisponibile a riprodurre le retoriche allineate ai luoghi comuni e cocciutamente impegnato a produrre un pensiero libero.

Se così stanno le cose, il tentativo di far rivivere la politica non può che passare da un’opera di nuova alfabetizzazione: di paziente ricostruzione delle parole del discorso pubblico che evidenzi le espressioni della sua corruzione e offra strumenti per contrastarla. Un’opera che metta in luce la virulenza delle semplificazioni: che dia conto della complessità del linguaggio e dunque della sua capacità di rendere la complessità della politica. E che così facendo lo porti a “ripoliticizzare lo spazio pubblico” (xiv).

A questo difficile compito si è dedicato Luciano Canfora nel suo ultimo libro, organizzato sotto forma di voci di un Dizionario politico minimo scritte in dialogo con Antonio Di Siena. Lo leggeremo qui a partire da tre coppie di voci che identificano ambiti particolarmente bisognosi di essere liberati dai condizionamenti del pensiero unico: fascismo e antifascismo, capitalismo e democrazia, Stato nazionale e Unione europea. Ovviamente il volume offre lo spunto per individuare molti altri percorsi. Qui abbiamo voluto evidenziare quelli incentrati sulle voci che, una volta risintonizzate con il pensiero critico, possono più di altre alimentare il moto verso il superamento degli equilibri da cui il pensiero unico trae il suo fondamento.

Il tutto nella consapevolezza che ciò attiene alla capacità del pensiero critico di produrre conflitto sociale, senza il quale non è dato ripoliticizzare lo spazio pubblico.

Fascismo e antifascismo

Questa coppia di voci offre lo spunto per inquadrare concetti il cui uso e abuso caratterizzano in modo pervasivo il discorso pubblico, soprattutto per il loro utilizzo a sproposito o comunque catturato entro contrapposizioni prive di reale consistenza. Penso in particolare a coloro i quali reputano che il fascismo sia un fenomeno storico irripetibile e specularmente a quelli che il fascismo lo vedono ovunque ci sia un pensiero diverso dal proprio. Il tutto con ripercussioni sull’opposto del fascismo, ovvero sull’antifascismo, che per i primi è semplicemente un concetto privo di senso e per i secondi l’espressione un impegno politico talmente carico di implicazioni da non averne alcuna.

Ebbene, affermare che il fascismo è un fenomeno storico è evidentemente una banalità difficilmente contestabile, non tuttavia se con questo si intende affermare che esso è irripetibile. O meglio lo è dal punto di vista dello storico, il quale sa bene che gli avvenimenti che scandiscono il tempo non si presentano mai identici a loro stessi. Non lo è invece dal punto di vista del confronto politico, dal momento che ben può esserci un presente che ricorda da vicino vicende del passato o più facilmente avvenimenti da cui quelle vicende hanno tratto fondamento.

Da un simile punto di vista è però fondamentale chiarirsi sul senso di ciò che è stato il fascismo, troppo spesso ridotto a quanto è avvenuto nel campo delle libertà politiche: la loro cancellazione. Tanto che proprio a questo aspetto si pensa istintivamente quando si pensa al fascismo, ben rappresentato da immagini tutte relative alla violenza politica: dalla bottiglia di olio di ricino, al manganello, passando per l’assalto alle sedi sindacali o l’assassinio degli avversari politici. Difficilmente si ricorda invece che il fascismo è stato anche la riforma, e si badi non la cancellazione, delle libertà economiche: che insomma vi è stato un fascismo economico, in massima parte assente dall’iconografia di quella fase drammatica della storia italiana ed europea.

Ce lo ricorda molto opportunamente Canfora nel momento in cui discute dei “due piani d’azione di Mussolini”: per un verso “una stretta politica in perfetta sintonia con i Savoia e i capitalisti” e per un altro “l’apertura verso le esigenze sociali” (66). Manca forse il riconoscimento che anche quest’ultima si è svolta in accordo con i capitalisti o meglio con quanto era indispensabile al fine di rendere il capitalismo storicamente possibile: non solo la repressione del dissenso ma anche forme di inclusione nell’ordine proprietario necessarie e sufficienti a prevenirne l’autofagia, prime fra tutte quelle di carattere redistributivo. Il tutto sulla scia di quanto messo in luce da Karl Polanyi nella sua celebre descrizione del fascismo come soluzione dalla “impasse raggiunta dal capitalismo liberale”[1], e sullo sfondo di quanto indicato dai padri del neoliberalismo. Questi volevano invero la trasformazione dello Stato nella mano visibile del mercato, chiamato a imporre la concorrenza come strumento di direzione politica o se si preferisce a tradurre le leggi del mercato in leggi dello Stato: a operare come “severa polizia del mercato”[2].

Insomma, come precisato da Canfora, il fascismo ha realizzato uno “Stato sociale autoritario”, senza che però debba provocare imbarazzo il riconoscerlo. Ciò che lo distingue dalla democrazia, oltre ovviamente al fatto di aver “portato l’Italia alla catastrofe” (69), è che in quest’ultima la sicurezza sociale non costituisce la contropartita per la rinuncia alla lotta politica. La sicurezza sociale è ora uno strumento di emancipazione che i pubblici poteri sono tenuti a fornire in virtù del riconoscimento dei diritti sociali: è esattamente questo che, a differenza dello Stato sociale, caratterizza e qualifica le democrazie.

Abbiamo così un primo punto fermo per identificare l’antifascismo in quanto negazione del fascismo, ovvero di una riforma delle libertà economiche funzionale a rendere il capitalismo storicamente possibile. Un secondo punto fermo lo individua Canfora nel momento in cui ricorda quanto Piero Calamandrei ebbe a dire dell’articolo 3 della Costituzione repubblicana, ovvero la disposizione in cui si dispone il principio di uguaglianza in senso sostanziale: “lo definì un articolo sovversivo” (8). Il tutto ribadito nell’affermazione, questa volta di Canfora, secondo cui “se uno volesse veramente applicare l’articolo 3… dovrebbe instaurare una vera e propria rivoluzione sociale” (33).

Il principio di uguaglianza in senso sostanziale è tale, ovvero si differenzia dal principio di uguaglianza in senso formale, perché implica il dovere dei pubblici poteri di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano “di fatto” la parità. Il tutto non solo per promuovere attivamente “il pieno sviluppo della persona umana”, ma anche e soprattutto per consentire “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Altrimenti detto l’uguaglianza è tale perché produce emancipazione, ma questa non si risolve in vicende relative alla sola vita privata. Deve produrre altresì avere una dimensione che è squisitamente politica nella misura in cui attiene alla definizione dello stare insieme come società in quanto essenza della partecipazione democratica[3]. Di qui la radicale differenza rispetto alle ricette neoliberali, per intenderci quelle in linea con la definizione del fascismo come soluzione all’impasse del capitalismo. Se quelle ricette imponevano di tradurre le leggi dello Stato in leggi del mercato, e dunque di polverizzare il potere economico al fine di impedire concentrazioni di ostacolo alla concorrenza, la reazione antifascista indica la strada opposta: consentire la formazione di contropoteri economici capaci di contrastare il potere economico[4].

Insomma, il principio di uguaglianza sostanziale concerne la redistribuzione delle armi del conflitto sociale attraverso il rafforzamento dei soggetti socialmente deboli. È questo il motivo per cui lo si può ritenere a buon titolo sovversivo, il che venne non a caso approfondito nel corso degli anni Settanta: quando si realizzò il cosiddetto disgelo costituzionale, ovvero si iniziò a realizzare il disegno abbozzato dalla Carta fondamentale. E quando proprio l’attuazione del principio di uguaglianza venne ritenuta un possibile passo verso “l’avvento di un sistema socialista” senza ricorrere a una rottura rivoluzionaria, ovvero “nella continuità costituzionale e nella legalità”[5].

Capitalismo e democrazia

Quanto abbiamo visto essere l’essenza del fascismo, ovvero il suo aver assicurato la riforma delle libertà economiche e la soppressione di quelle politiche indispensabili a rendere il capitalismo storicamente possibile, viene sintetizzato in una affermazione perentoria di Canfora: quella secondo cui “quanto alla relazione con la democrazia, il capitalismo è la sua negazione” o “se c’è una antitesi quindi è proprio tra capitalismo e democrazia” (22).

La sintesi esprime una verità incontestabile, e non tanto perché il capitalismo è intrinsecamente antidemocratico: è semplicemente indifferente alle sorti della democrazia, il che forse è peggio perché corrisponde a un atteggiamento più subdolo. È però l’atteggiamento in linea con l’ortodossia neoliberale, secondo cui il punto di riferimento per l’azione dei pubblici poteri è il corretto funzionamento del mercato, per il quale ben si può accettare di sacrificare la democrazia nella misura necessaria e sufficiente a perseguire l’obbiettivo.

In tutto questo occorre però mettere meglio a fuoco il ruolo dello Stato, o più precisamente vagliare con attenzione le trasformazioni che esso ha subito con il passare del tempo. Nessuno dubita che queste si siano verificate e che anzi abbiano avuto un peso non indifferente: lo Stato ai tempi dei Trenta gloriosi non è certo lo Stato la cui agenda è stata riscritta per allinearlo ai dettami del neoliberalismo a partire dagli anni Ottanta. Detto questo, sebbene la storia conosca rotture oltre alle continuità, è bene evitare le ricostruzioni che enfatizzano le prime e occultano le seconde, le quali del resto sono molto meno frequenti di quanto sovente si riconosca o si voglia riconoscere.

Canfora descrive una parabola che mette in luce rotture e continuità nella relazione tra lo Stato e il capitalismo. Osserva che per molto tempo questa è stata equilibrata, in quanto ha visto lo Stato nel ruolo “super partes” di “garante” del capitalismo, ma anche del suo “controllore”: “copre e protegge la proprietà in tutti i modi, ma al contempo apre uno spiraglio perché essa venga eventualmente messa in discussione”. Recentemente le cose sarebbero mutate radicalmente, dal momento che “lo Stato nazionale e il suo ordinamento sono stati messi nell’angolo perché ormai tutto funziona al di sopra delle organizzazioni statali” (23 s.).

Più sfumata la riflessione di Di Siena, il quale sottolinea il ruolo dello Stato nel rendere possibile il capitalismo: “senza l’architettura giuridica statuale che tutela la proprietà e l’impresa privata, i contratti, il libero scambio ecc., un’economia di mercato risulterebbe impossibile” (22). A questo possono aggiungersi vicende non certo di dettaglio, come il ricorso alla forza, inclusa quella degli eserciti, per l’approvvigionamento di materie prime e la conquista di mercati indispensabili per lo smaltimento della produzione nazionale: per comprimere il potere del lavoro si è affossato il compromesso keynesiano e dunque depresso il consumo interno.

Più in generale occorre non sottovaluterei il ruolo dei pubblici poteri, magari più nascosto ma non certo meno pervasivo anche quando si tratta di attuare le quattro libertà su cui si fonda il modello neoliberale: di circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Il tutto in linea con la rottura che ha in effetti caratterizzato la relazione tra capitalismo e Stato nazionale: l’edificazione del secondo come strumento del primo, ovvero come strumento al servizio di una logica di sistema piuttosto che di “singoli capitalisti o di singoli ceti capitalistici”[6].

Stato nazionale e Unione europea

La rottura cui abbiamo appena fatto riferimento descrive al meglio il definitivo consolidamento del neoliberalismo come punto di riferimento per l’azione degli Stati nazionali, che proprio in quanto attiene alla volontà di rendere il capitalismo storicamente possibile si è voluto per un verso rafforzare, e per un altro limitare nel suo raggio di azione: deve sostenere il funzionamento di un ordine economico incentrato sul libero incontro di domanda e offerta e dunque neutralizzare qualsiasi azione di segno opposto. Il tutto a corredo della massima neoliberale per cui l’inclusione sociale è ridotta a inclusione nel mercato, motivo per cui l’emancipazione a cui si deve mirare non è quella del cittadino, bensì quella del consumatore. Così come la redistribuzione delle risorse da sostenere non è quella realizzata dai pubblici poteri, bensì quella ottenuta attraverso l’incontrastato funzionamento della concorrenza.

Altrimenti detto, lo Stato neoliberale è uno “Stato forte”, senza il quale non si realizza una “economia sana”[7]. Ma è allo stesso tempo uno Stato nel quale la scelta politica deve rendersi impermeabile all’esito del conflitto sociale, da reprimere in virtù del menzionato principio secondo cui occorre polverizzare il potere economico: primo fra tutti quello dei lavoratori coalizzati, che isolati d fronte al mercato sono condannati a tenere i soli comportamenti descrivibili in termini di reazioni automatiche ai suoi stimoli.

Lo strumento primo per impedire al conflitto sciale di orientare il comportamento dei pubblici poteri è il federalismo, in particolare quello realizzato dall’Unione europea nel solco delle indicazioni fornite da un padre del neoliberalismo alla fine degli anni Trenta. Il riferimento è a Friedrich von Hayek, che affidava alla federazione il compito fondamentale di eliminare ogni ostacolo alla libera circolazione dei fattori produttivi in quanto espediente attraverso cui ottenere la moderazione fiscale degli Stati membri: una pressione fiscale elevata “spingerebbe il capitale e il lavoro da qualche altra parte”. La libera circolazione consentiva insomma di spoliticizzare l’ordine economico, dal momento che sottraeva alle “organizzazioni nazionali, siano esse sindacati, cartelli od organizzazioni professionali”, il “potere di controllare l’offerta di loro servizi e beni”. Di più: se lo Stato nazionale alimentava “solidarietà d’interessi tra tutti i suoi abitanti”, la federazione impediva legami di “simpatia nei confronti del vicino”, tanto che diventavano impraticabili “persino le misure legislative come le limitazioni delle ore di lavoro o il sussidio obbligatorio di disoccupazione”[8].

Se così stanno le cose, si comprende l’enfasi di Canfora sulla dimensione nazionale come “dimensione a misura d’uomo… contestabile e difendibile”, motivo per cui “le lotte sociali” per “ovvie ragioni di affinità di interessi” (207) si “svolgono esclusivamente all’interno degli Stati” (120). Così come si comprende la sottolineatura che “l’interesse nazionale è un valore positivo” nella misura in cui contrasta “l’asservimento ai centri di potere sovranazionale costruiti con l’Ue e le sue strutture di governo” (121). Giacché non si tratta di una invocazione frutto di nazionalismo, bensì di una reazione a un sentimento uguale e contrario: il sovranazionalismo per cui la dimensione europea deve essere preferita a prescindere[9]. Come se non fosse importante prima stabilire quali sono i valori per cui vale la pena combattere, e poi stabilire qual è la dimensione territoriale capace di meglio avvicinarci all’obbiettivo.

Purtroppo, però, la cosiddetta sinistra non è al momento attrezzata a recepire queste semplici constatazioni. È prigioniera di quanto Canfora stigmatizza come “ipersensibilità del politicamente corretto… verso il concetto di interesse nazionale” (121). Prigioniera di un atteggiamento fondamentalmente antipopolare, dal momento che opera le sue scelte in funzione di un “immaginario popolo europeo” in ultima analisi coincidente con un insieme di “élite non elettive” (206) coalizzatesi per escludere la “partecipazione popolare attiva” (217). Il tutto secondo schemi costruiti in modo raffazzonato per rimpiazzare il sistema dei punti di riferimento precedenti la caduta del blocco sovietico[10].

La cosa però non stupisce, dal momento che la deriva della cosiddetta sinistra comprende ben altre manifestazioni virulente messe in luce da Canfora, tutte in ultima analisi riconducibili alla incapacità di riconoscere la drammatica e sovversiva “incompatibilità tra il dettato della Costituzione italiana” e “l’insieme dei Trattati europei” (32). È del resto una sinistra incastrata in pericolose illusioni, come quella operaista del “non lavoro” (91), o in alternativa attenta alla sola dimensione dei diritti civili (49). In quest’ultimo caso dimentica del fatto, ampiamente testimoniato da quanto avvenuto nel corso degli anni Settanta, che questi avanzano solo se in combinazione con i diritti sociali: “le conquiste sul terreno dei diritti civili sono tanto più efficaci in rapporto a quanto si è attuato e realizzato sull’altro piano, quello dei diritti sociali” (50).

Ma torniamo all’Europa unita, per la quale è facile individuare il progetto politico a cui è asservita, meno la via di uscita. Ovviamente non vi sono scorciatoie, e tuttavia sembra di poter dire che la soluzione non sia premere per “diluire a allargare”: come proposto da Canfora (122). Se non altro perché proprio in questa direzione spingono i neoliberali, consapevoli come abbiamo detto che in questo modo si edificano corpi politici incapaci di reggersi su meccanismi solidaristici. Detto questo, però, non ci sono ricette da seguire, se non quella che ispira l’intero volume di Canfora: coltivare la complessità di cui vive la politica, o se si preferisce evitare le semplificazioni che possono ucciderla.


*Dizionario politico minimo, a cura di Antonio Di Siena, Fazi Editore, 2024. pp. xvi + 236. I numeri tra parentesi nel testo si riferiscono alle pagine di questo volume.

 Note

[1] K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca (1944), Torino, 1974, p. 297.
[2] A. Rüstow (1938), in S. Audier, Le Colloque Walter Lippman, Lermont, 2012, p. 469 s.
[3] P. Rosanvallon, Il Politico. Storia di un concetto (2003), Soveria Mannelli, 2005, p. 10.
[4] Citazioni in A. Somma, Principio di uguaglianza e ordine e economico, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 2024, p. 287 ss., liberamente accessibile qui: www.academia.edu/121741995/Principio_di_uguaglianza_e_ordine_economico.
[5] C. Lavagna, Costituzione e socialismo, Bologna, 1977, p. 7 ss.
[6] F. Galgano, Le istituzioni dell’economia capitalista, 2. ed., Bologna, 1980, p. 8 ss.
[7] C. Schmitt, Starker Staat und gesunde Wirtschaft, in Volk und Reich, 1933, p. 87.
[8] F.A. von Hayek, Le condizioni economiche del federalismo tra Stati (1939), Soveria Mannelli, 2016, p. 54 ss.
[9] A. Somma, Un supermercato non è un’isola. Contro l’apologia del sovranazionalismo, in La Fionda, 2021, p. 199 ss., liberamente accessibile qui: www.academia.edu/44748035/Un_supermercato_non_%C3%A8_unisola_Contro_lapologia_del_sovranazionalismo.
[10] A. Somma, Contro Ventotene, Cavallo di Troia dell’Europa neoliberale, Roma, 2021, in parte liberamente disponibile qui: www.academia.edu/61693510/Contro_Ventotene_cavallo_di_Troia_dellEuropa_neoliberale.

Recensione di Vincenzo Mazzaccaro per SoloLibri.net

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Luciano Canfora è un intellettuale sopraffino. Non solo saggista, ma grecista, studioso, sempre senza fare sconti a nessuno. Ora ha scritto il libro Dizionario politico minimo (Fazi editore, 2024. Curatela di Antonio Di Siena) per farci riflettere su cosa è la politica, ma soprattutto in quali palazzi viene esercitata.
Quindi a ogni parola che attiene la politica e il suo esercizio.

Si parte in ordine alfabetico e la parola che apre il saggio è Antifascismo.
Perché è una parola così importante per gli elettori di sinistra? Canfora ripercorre tutta la storia del secondo conflitto bellico, voluto dai fascisti che appoggiavano Hitler e Mussolini insieme contro la democrazia.
Fino a oggi non c’è stata nessuna condanna per chi ha votato Movimento sociale italiano, anzi alcuni sono pure nel governo. Finora hanno rispettato la nostra storia, ma fino a quando? Per ora seguendo la scia di Canfora si arriva al Capitalismo, che è contrario alle democrazia, ma dal momento che i paesi ex sovietici hanno dimostrato l’inanità e la corruzione nei paesi socialisti, ma Canfora scrive che non possiamo emendare quei settanta anni con lo slogan che il capitalismo sia un baluardo della democrazia. Perché non è vero.
Non fosse altro perché il capitale è sovranazionale e i governi non possono nulla su decisioni prese dall’alto delle istituzioni democratiche. Dopo una analisi accurata su cosa è la Cina, Canfora parte da lontano fino alle bombe atomiche, sarà il paese che ci aiuterà a livello economico, anche da parte dell’ecologia, oppure egoisticamente faranno quello che vogliono. Dopo anni di lavoro e le biciclette come mezzo di trasporto, non meritano anche loro di godere della vita dell’Occidente?
Sul vocabolo “Costituzione”, Canfora diventa piuttosto preoccupato, perché i giovani sono più preoccupati dai loro algoritmi social, piuttosto che dal tenere in piedi la Costituzione italiana che fra qualche anno avrà cento anni. Ma nel frattempo, lo studioso consiglia di lasciarla così, per evitare stralci che la renderebbero più debole. Sul tema della “Democrazia”, chi scrive riporta un piccolo estratto, anche per fare capire lo sforzo di leggibilità del saggio:

Oggi, o meglio, ancora ieri, perché oggi non se ne parla neanche più, barattare per democrazia il sistema misto ha un ancoraggio a un valore ancora irresistibile, che è la competenza.

La competenza comporta la nascita di un ceto intermedio ben più influente rispetto al passato, e rispetto al quale il principio “un uomo un voto”, viene svilito come modo banale e fanciullesco di interpretare la democrazia.
Questo è l’espediente. Se il ceto medio risulta, in soldoni, che ha maggiore potere, quale democrazia che non sia una farsa, dal momento che i poveri sono sempre più poveri e andare a votare democraticamente non cambia nulla. Sono finiti da anni i minatori che in Inghilterra lottavano contro il governo Thatcher nel secolo scorso. Il ceto medio non sa più cosa sia una manifestazione con milioni di presenze della working class e gli impiegati sono i figli, i nipoti dei minatori, ormai morti o, i più longevi, divenuti pensionati da tempo.
Dopo la parola “Elezioni”, dove Canfora torna a essere di immediata lettura, siamo di nuovo a Fascismo, Guerre e Hitler. Canfora quando si parla di Hitlerismo, scrive che non è la peste bubbonica. È stato invece un abile politico, che nel 1932, ricevette la qualifica di Cancelliere e in seguito all’incendio del Reichstag, nel 1933, fu facile vincere, anche con la violenza.
Alla parola “Lavoro”, Canfora non crede assolutamente in una società in cui si lavorerà pochissimo, mentre i nuovi schiavi saranno le persone straniere, o italiani che hanno ben poco nei curricula, perché bisognerà pur pulire gli uffici, le case private, badare agli anziani.
Poi c’è nel vocabolario la parola “Palestina”, dove lo studioso parte dal 1917 ad oggi. Trovo che, solo per l’importanza di questa sezione, il saggio vada letto e comprato, anche perché riguarda la stretta attualità. Forse l’unica cosa da dire è che i palestinesi non hanno mai avuto alleati. Poi importante in un dizionario politico minimo è il “politicamente corretto”. Per l’antropologa Ida Magli, si tratta di una sofisticata tecnica di lavaggio del cervello. Anche se nei paesi islamici, in alcuni, c’è proprio la censura. Ma esagerare porta alla satira. È talmente ridicola, che un editore americano aveva deciso di pubblicare Pace di Tolstoj, togliendo Guerra dal titolo perché ritenuta una parola pericolosissima.
Poi Canfora non può fare finta di niente e nel dizionario politico minimo ci entra di diritto “Il riscaldamento globale”, anche se per chi scrive la domanda è sempre quella e non demorde: perché i paesi occidentali, Stati Uniti compresi, hanno fatto il cavolo che gli pareva e ora venga detto loro che il pianeta Terra sta diventando inabitabile, ma nel frattempo il cinese di Shanghai ha finalmente comprato una Mercedes Benz che usa solo a benzina. È già la seconda volta che mi pongo questa domanda, che purtroppo non ha una risposta.

Il libro di Luciano Canfora è anche un ottimo breviario laico, quando abbiamo bisogno di fatti storici e di previsioni per il futuro, appunto.

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