Riassunto
Sosteniamo che la guerra in Ucraina e lo strumento delle sanzioni dovrebbero essere inquadrati in una lunga tendenza – dalla globalizzazione e gli squilibri internazionali che essa genera, al successivo movimento di “de-globalizzazione” – che ha avuto un ruolo fondamentale nella preparazione della guerra. I protagonisti del conflitto sono più propriamente identificati con i due blocchi di stati le cui economie sono ancorate rispettivamente agli Stati Uniti o alla Cina, rispettivamente il principale debitore e il principale creditore del mondo. In questo contesto, la distinzione tra sanzioni e politiche protezionistiche è sempre più sfumata, mentre entrambe sono sempre più intrecciate con la politica di difesa.
Introduzione
Poco dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina, la Segretaria del Tesoro degli Stati Uniti ed ex Presidente della Federal Reserve hanno chiesto un punto di svolta nel percorso del capitalismo mondiale: hanno messo in discussione direttamente i dogmi delle libertà incondizionate di movimento di beni e capitali che avevano costituito la base della cosiddetta era della “globalizzazione”, implicando così l’inizio di un nuovo periodo di “de-globalizzazione”, in cui “l’obiettivo è ottenere un commercio libero ma sicuro”, noto con l’etichetta di “friend-shoring”. Secondo la definizione di Yellen, questo termine significherebbe rafforzare i rapporti economici solo tra “amici”, ossia “paesi su cui sappiamo di poter contare”, applicando sanzioni e altre misure per limitare le possibilità di interazione con tutti gli altri. I cosiddetti “altri” verrebbero identificati nell’aggressore russo e nei suoi alleati, e più in generale nei regimi antagonisti al capitalismo liberale e democratico in stile occidentale. Proprio come il crollo del Muro di Berlino è simbolicamente considerato l’inizio della fase precedente, l’invasione russa in Ucraina rappresenterebbe il simbolo e il detonatore di questa nuova era.
La narrazione dominante dell’attuale assetto economico mondiale considera l’aggressione russa sul territorio ucraino, iniziata nel febbraio 2022, come punto di partenza. Questo avrebbe condotto alla reazione degli Stati Uniti in termini di “friend-shoring”, eventualmente seguita da varie contro-reazioni di regimi antagonisti (come la postura aggressiva della Cina verso Taiwan). L’idea che la guerra in Ucraina rappresenti l’inizio di una nuova era di “de-globalizzazione friend-shoring” è infatti la tesi dominante attualmente in voga, come vedremo più avanti in questo documento. Tuttavia, questa tesi non è necessariamente corretta, se non per altri fattori, almeno per il fatto che l’origine dell’espressione “friend-shoring” risale a un periodo antecedente questa fase della guerra (Coy 2021).
Nei paragrafi che seguono, esamineremo criticamente l’interpretazione prevalente, presentando alcune evidenze e considerazioni critiche. La raccolta di dati ed eventi rilevanti che seguirà ha lo scopo di fornire indizi preliminari per una tesi alternativa: quella secondo cui la guerra in Ucraina può essere considerata non il simbolico inizio, ma piuttosto la conclusione simbolica di una fase iniziata molto tempo fa, in cui la de-globalizzazione si era già manifestata e che ha avuto un ruolo fondamentale nella preparazione della vera guerra capitalista; una guerra il cui significato non è unicamente l’opposizione tra Ucraina e Russia, ma più in generale quella tra i due blocchi di stati ancorati rispettivamente alle economie degli Stati Uniti e della Cina, ossia il maggiore debitore e il maggiore creditore del mondo.
Il documento esamina la questione da un punto di vista specifico, concentrandosi sullo strumento politico delle “sanzioni”. Sebbene la maggior parte le consideri una conseguenza ovvia dell’invasione russa in Ucraina, le sanzioni fanno in realtà parte di un percorso consolidato di politiche che, sosteniamo, affonda le sue radici in un passato remoto e che, in una certa misura, possono essere considerate tra i possibili fattori causali della guerra. Questa affermazione è certamente controversa e potrebbe suscitare scetticismo o rifiuto, almeno parzialmente a causa di specifiche scelte epistemologiche, consce o meno. Pertanto, la sezione che segue contiene alcune note teoriche necessarie prima di addentrarsi nel cuore dell’analisi
Relazioni causali e leggi del moto del capitalismo
Proponiamo un metodo socio-storico che sfida non solo l’interpretazione dell’evento specifico della guerra in Ucraina, ma anche la rinuncia a cercare “leggi delle tendenze” nella ricerca storica e nell’analisi politica. In primo luogo, sottolineiamo che l’analisi dell’agency e della contingenza, sia essa comportamentale o congiunturale – per esempio, ciò che dicono e fanno i leader politici o i cambiamenti a breve termine negli indicatori sociali ed economici – deve essere integrata da teorie che indaghino le strutture più profonde alla base degli eventi politici e dei processi sociali immediatamente percepibili.
Queste strutture sono indipendenti dall’intenzionalità e servono a inquadrare l’analisi congiunturale nel contesto di processi a lungo termine e di vasta scala, la cui spiegazione richiede un’analisi strutturale del sistema storico del capitalismo (Robinson 2008; Wallerstein 1979). Notiamo, a proposito, che questa visione è pienamente compatibile con il filone dell’Economia Politica Internazionale (IPE), che parte dalla comprensione fondamentale che l’asse centrale delle relazioni internazionali si situa più vicino all’economia che alle questioni di sicurezza, anche in situazioni belliche come quella discussa in questo articolo.
Ciò non significa ignorare le dimensioni centrali delle teorie tradizionali delle Relazioni Internazionali, in particolare il realismo. In definitiva, le relazioni economiche emergono e si diffondono all’interno di paesi specifici, dato che le relazioni avvengono sempre in e da uno spazio determinato (Tussie 2015)¹. Allo stesso tempo, ciò non implica aderire alla visione diffusa nella ricerca economica, così come nell’IPE tradizionale, secondo cui i problemi diventano “politici” solo a seguito della rottura di regole e norme, e che altrimenti il sistema funzionerebbe in maniera fluida, tecnica e “apolitica”. Pertanto, pur mettendo in discussione le analisi che assumono un’eccessiva autonomia politica, la nostra prospettiva in IPE parte dalla consapevolezza che non basta creare un nuovo scenario transdisciplinare che includa gli interessi economici. Infatti, da un lato, è necessario far emergere le vere leve del potere; dall’altro, bisogna riconoscere che, nella struttura di un’economia mondiale, le relazioni tra gli stati sono ampiamente determinate dalle relazioni di produzione e dagli assetti relativi ai movimenti di capitali, persone e merci.
Questi due requisiti possono essere riconciliati osservando i fenomeni economici come parti di una totalità strutturata gerarchicamente e, quindi, come fenomeni politici. A loro volta, la prospettiva socio-storica inquadra i fenomeni nella loro genesi e sviluppo, tenendo conto delle interrelazioni asimmetriche tra i paesi (Tussie 2015, 167)². A nostro avviso, questo dovrebbe essere il quadro per l’analisi dell’attuale conflitto in Ucraina, sia nelle sue motivazioni e antecedenti immediati, sia come presunto momento di svolta nella storia del sistema globale.
Questo approccio si collega direttamente a una questione tradizionale negli studi storici: l’enfasi nel far emergere i meccanismi che collegano cause ipotetiche e risultati è associata alla preoccupazione per le “grandi questioni”, ossia domande su fenomeni su larga scala che risultano sostanzialmente e normativamente importanti sia per esperti che per non esperti (Mahoney e Rueschemeyer 2003). È evidente che la rilevanza normativa di tali grandi questioni – ad esempio: quali sono le cause profonde di questa guerra? La globalizzazione contiene elementi che potrebbero danneggiare le relazioni (relativamente) pacifiche tra le grandi potenze? La globalizzazione è un processo che può essere invertito, e in che modo? A quale rischio? ecc. – rappresenta un ulteriore elemento destabilizzante nella delicata interazione tra il costruttore di modelli causali nelle scienze sociali e il mondo circostante. La ragione di ciò risiede nel fatto che, nel campo degli studi sociali, la scelta delle variabili esogene può essere facilmente influenzata dalle condizioni storiche in cui il ricercatore è inserito. Tali condizioni contribuiscono a plasmare la sua visione del mondo, o in ultima analisi la sua ideologia³.
Tuttavia, ciò comporta il rischio di negare, implicitamente o esplicitamente, qualsiasi validità ai criteri per la scelta dei dati esogeni. Un tale esito potrebbe sfociare nel solipsismo, ossia l’idea secondo cui, nella fase di scelta delle premesse del modello, “tutto è lecito”, a patto che nella fase successiva della ricerca si deducano proposizioni logicamente coerenti con la scelta iniziale (Feyerabend 1978). Crediamo fermamente che questo non sia l’unico modo di affrontare la questione della scelta dell’esogeno, poiché, senza necessariamente negare l’influenza dell’ideologia nella definizione delle premesse di un modello, è possibile giudicare quest’ultimo sulla base di un’indagine storica, metodologica e logica.
In Trindade d’Ávila Magalhães (2018) questa scelta delle variabili esogene, fondamentale per la costruzione del modello e per le sue implicazioni causali, viene discussa nel contesto della globalizzazione: l’autore concepisce la globalizzazione come una variabile indipendente, frutto delle azioni dei “globalizzatori”. Tuttavia, nella nostra ricerca affrontiamo questa questione in modo leggermente diverso: la chiave risiede nell’indagine storica, metodologica e logica sopra menzionata, in grado di coniugare struttura e agency in maniera dialettica. Questo, a nostro avviso, rappresenta il profondo significato dell’ambizione di cercare “leggi” generali per il funzionamento del sistema sociale. Sebbene solo Marx abbia posto tale ricerca al centro dell’analisi del capitalismo, la ricerca delle “leggi” generali dei sistemi sociali ha generato grandi dibattiti nel corso della storia, anche al di fuori della tradizione marxista (Foster e Sweezy 2011). Come riportato in Brancaccio e De Cristofaro (2022), dopo un periodo di relativo oblio, le crisi degli ultimi anni sembrano aver risvegliato un rinnovato interesse per questo tema (Boyer 2010), sebbene lo spazio ottenuto nelle scienze sociali tradizionali rimanga limitato.
L’analisi contenuta in questo documento, che da un punto di vista strettamente causale è forse poco più di una provocazione, si inserisce in una fiorente tradizione di indagine storico-sociale che evidenzia il legame tra la centralizzazione capitalista e la guerra militare, come legge generale di tendenza insita nel capitalismo. Per citare alcuni giganti, limitandosi alla letteratura sull’imperialismo, possiamo menzionare Rudolf Hilferding (1982), Rosa Luxemburg (1968) e Vladimir Lenin (1966). Pertanto, facendo affidamento su questa illustre tradizione, approfondiamo le ragioni profonde dell’attuale guerra in Ucraina al fine di descrivere la seguente dinamica, che può essere considerata una legge del moto del capitalismo contemporaneo: una tendenza che passa dagli squilibri generati dalla competizione economica tra capitali, in condizioni di libero scambio e libera circolazione dei capitali, al “protezionismo discriminatorio”, e infine alla guerra, lungo un percorso caratterizzato da oppressione e violenza. Tale schema definisce una nuova fase storica del capitalismo, che seguirebbe la globalizzazione e che si contraddistingue per protezionismo discriminatorio, interdipendenza armata ed estrema centralizzazione del capitale. Come avvenne con la globalizzazione, anche la nuova fase è destinata a riscrivere col sangue l’equilibrio di potere tra nazioni e classi.
Pertanto, la guerra in Ucraina non appare come un caso isolato o un momento di svolta inaspettato; anzi, la guerra contemporanea – con i rischi di una collisione atomica che essa comporta – non può derivare banalmente dai deliri individuali di pochi pazzi al potere, come spesso suggeriscono le numerose analisi focalizzate sulle singole personalità coinvolte in questo conflitto. Piuttosto, la guerra capitalista moderna è il tragico risultato di una gigantesca catena di eventi impersonale, un grande meccanismo shakespeariano: una “legge” generale che tende verso la centralizzazione imperialista del capitale. Tenendo presente, tuttavia, che anche in questo quadro metodologico disincantato nulla può essere considerato inevitabile in senso deterministico – la “legge” tendenziale in sé non evoca un’inevitabilità fatale – il concetto di “legge generale” è oggi ritenuto fruttuoso proprio perché confinato nei tipici limiti degli oggetti scientifici, con le loro complesse congiunture, articolazioni e biforcazioni (Brancaccio e De Cristofaro 2022; Althusser 1971).
Portare la forza di una “legge” del moto verso la guerra al centro dell’analisi serve, invece, a far comprendere che, per deviare il suo corso catastrofico, non ci si può affidare all’azione di un singolo individuo, né puntare su specifici soggetti con l’obiettivo di modificarne il comportamento, o ancora sulla spontaneità di un movimento collettivo generico – seppur tanto necessario – che invoca la pace. La “legge” potrebbe invece assumere un carattere fatale e inevitabile se ignorata, cioè quando tale funzione dell’attuale sistema internazionale non viene portata in analisi. Da questo punto di vista, la “legge” del moto e le sue terribili conseguenze rappresentano il risultato di una situazione storicamente determinata, le cui responsabilità non devono essere ricondotte agli individui, ma alle classi e ad altre categorie sociali e storiche di analisi.
Queste sono le ragioni teoriche ed epistemologiche sottostanti che ci hanno spinto a guardare oltre la narrazione dominante sulla guerra in Ucraina: ciò che intendiamo dimostrare è che anche questo evento, spesso rappresentato come scioccante, illogico e imprevedibile, può essere ricondotto a dinamiche profonde e durature del capitalismo. Iniziamo questa operazione nella sezione seguente, che mostra come le sanzioni siano state a lungo uno strumento politico ampiamente utilizzato e di crescente popolarità.
Le sanzioni precedono la guerra
Le sanzioni precedono questa guerra, anche se si considera il 2014 come l’anno in cui la guerra è iniziata, quando la Crimea è passata alla Federazione Russa. Già prima della guerra in Ucraina, le sanzioni venivano ampiamente utilizzate, contro la Russia e altri. È importante notare, a questo proposito, che lo strumento delle sanzioni sta diventando sempre più popolare a livello mondiale e il suo impiego è in rapida crescita. Esse sono imposte non solo dagli Stati Uniti, principali promotori, ma anche da altri paesi e istituzioni, tra cui l’Unione Europea, le Nazioni Unite e la Cina (Hille 2021; per quanto riguarda la diffusione di questa politica e i paesi promotori e bersaglio, vedi Kirilakha et al. 2021; Van Bergeijk 2021; vedi anche: Global Sanctions Data Base, Threat and Imposition of Economic Sanctions (TIES) dataset e CEPR Sanctions Watch⁴).
Le sanzioni possono essere definite come misure adottate per affrontare casi di violazione di regole o convenzioni, con l’obiettivo di punire un determinato paese o ente e spingerlo a conformarsi agli obiettivi politici del soggetto che impone tali misure (Kirilakha et al. 2021). Solitamente, esse vengono distinte dall’imposizione di misure protezionistiche, come tariffe o dazi, che in linea di principio vengono usati per difendere gli interessi economici nazionali e che, negli ultimi anni, sono state applicate seguendo regole ben definite, ad esempio le normative anti-dumping dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Tuttavia, questa distinzione tra sanzioni e politiche protezionistiche è sempre più difficile da tracciare.
Dalla Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti sono stati il paese che ha maggiormente utilizzato lo strumento delle sanzioni, come evidenziato da Campoy e Shendruk (2022): tra il 1950 e il 2019, hanno imposto sanzioni più volte rispetto ai successivi cinque paesi o organizzazioni messi insieme (inclusi anche l’UE e l’ONU). Per quanto riguarda il settore delle sanzioni imposte dagli USA, è interessante notare come le misure di natura finanziaria abbiano riscosso un successo crescente nel tempo. Campoy e Shendruk (2022) presentano le sanzioni in vigore in ciascun anno, suddividendole per settore di imposizione, evidenziando come i movimenti di capitali, merci e persone abbiano acquisito un peso sempre maggiore nel corso dei decenni. Dal 2008, le sanzioni finanziarie, sui viaggi e sul commercio sono di gran lunga quelle più imposte. Al contrario, le sanzioni su armi e in campo militare sembrano essere cadute in disuso negli ultimi quindici anni, dopo il picco raggiunto negli anni dell’amministrazione di George W. Bush. Inoltre, come mostrano Kirilakha et al. (2021), si osserva una tendenza al rialzo nel numero di sanzioni imposte dagli USA ogni anno.
The Economist, in un numero dedicato alle sanzioni, riassume questa evoluzione in poche parole – evidenziando anche il collegamento con il conflitto:
“Il momento unipolare degli anni ’90, quando la supremazia americana era incontrastata, è ormai lontano, e l’appetito dell’Occidente per l’uso della forza militare è diminuito dalle guerre in Iraq e in Afghanistan. Le sanzioni sembravano offrire una risposta, permettendo all’Occidente di esercitare potere attraverso il controllo delle reti finanziarie e tecnologiche al centro dell’economia del XXI secolo” (“Are sanctions on Russia working? The lessons from a new era of economic warfare”, 2022)
Lo stesso editoriale evoca addirittura la possibilità di scoraggiare o punire una possibile “invasione” di Taiwan da parte della Cina tramite le sanzioni. Le cosiddette sanzioni secondarie meritano una menzione a parte: esse derivano dal potere degli Stati Uniti di imporre sanzioni a paesi terzi che intrattengono rapporti commerciali con nazioni soggette a sanzioni primarie. Tale potere nasce dalla riluttanza di questi terzi a mettere in discussione il loro rapporto con il mercato nordamericano.
Non si tratta solo di sanzioni: il rafforzamento della politica commerciale
Sarebbe un errore interpretare l’aumento nell’uso delle sanzioni come un evento isolato, separato dallo sviluppo complessivo delle relazioni internazionali. In effetti, si può sostenere che l’intensificazione delle sanzioni rientri tra le evidenze a supporto dell’emergere di una dinamica più generale secondo cui, con la globalizzazione e la sua crisi, “tutto è diventato guerra” (Brooks 2016).
Da questo punto di vista, secondo l’approccio che abbiamo presentato nella sezione due, l’intensificazione dell’uso delle sanzioni e, ora, la logica del “friend-shoring” dovrebbero essere inquadrati in una tendenza generale: l’uso crescente di politiche commerciali e finanziarie protezionistiche, un fenomeno che si estende chiaramente su un arco storico più lungo. Le politiche commerciali, essenzialmente caratterizzate dal protezionismo, che discriminano apertamente ed esplicitamente tra partner commerciali politicamente ben accetti e paesi avversi, anticipano chiaramente le recenti richieste di ridefinizione delle catene del valore globali, sorte a seguito dello scoppio della pandemia da Covid-19 e, con maggiore intensità, dell’invasione russa dell’Ucraina. In netto contrasto con la retorica ancora diffusa sull’apertura indiscriminata delle frontiere (per merci e capitali), alcuni indicatori catturano la crescita del protezionismo discriminatorio a livello mondiale: dal declino del KOF Globalization Index⁵ all’aumento del numero di azioni commerciali discriminatorie annunciate dai membri del G20 dal 2012, con tariffe e misure anti-dumping come strumenti privilegiati⁶.
Un’analisi più approfondita rivela altri elementi rilevanti che si aggiungono alle misure restrittive del commercio. Ad esempio, in un ordine esecutivo emanato nel maggio 2019, l’ex Presidente degli Stati Uniti Trump introdusse la categoria degli “avversari stranieri” degli Stati Uniti. Cioè, ogni governo straniero o “persona non governativa straniera” che adotti una condotta a lungo termine contraria alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti o dei cittadini americani. L’elemento innovativo consiste nel fatto che ci troviamo di fronte a una misura di politica commerciale concepita per “mettere in sicurezza le catene di approvvigionamento delle ICTS” (tecnologie e servizi dell’informazione e della comunicazione). La preoccupazione è che l'”acquisizione o l’uso indiscriminato” negli Stati Uniti di servizi concepiti, sviluppati, prodotti o forniti da soggetti che rappresentano, sono controllati da, o sono soggetti alla giurisdizione o alla direzione di avversari stranieri, possa aumentare la capacità di questi ultimi di creare e sfruttare vulnerabilità in tali settori, con effetti potenzialmente catastrofici sugli interessi statunitensi. Questo rappresenterebbe “una minaccia insolita ed eccezionale per la sicurezza nazionale, la politica estera e l’economia degli Stati Uniti”, per la quale il Direttore dell’Intelligence Nazionale dovrà “valutare le minacce per gli Stati Uniti e per il suo popolo derivanti dalle tecnologie o dai servizi di informazione e comunicazione” provenienti da tali paesi, producendo valutazioni scritte periodiche di tali minacce (Stati Uniti d’America 2019). Nel gennaio 2021, dunque, nell’ultimo giorno della Presidenza Trump, il Dipartimento del Commercio emanò una serie di regolamenti provvisori volti a mettere in sicurezza le catene globali dei servizi ICT, secondo cui il Dipartimento può proibire o limitare, caso per caso, le transazioni ICT che coinvolgono paesi considerati avversari stranieri. Si potrebbe pensare che l’approccio trumpiano fosse un’eccezione passeggera, ma non è stato così. Nonostante l’opposizione della Camera di Commercio, e nonostante le aspettative che l’Amministrazione Biden avrebbe fatto marcia indietro (US Chamber of Commerce 2021), tali misure sono state confermate nel marzo 2021, e già in quel mese il Dipartimento del Commercio ha citato in giudizio diverse aziende cinesi nel settore ICT (Oleynik et al. 2021). La nuova amministrazione conferma dunque le misure trumpiane, nonostante le numerose critiche, rivolte al carattere sostanzialmente retroattivo, dato l’ampio spettro di transazioni potenzialmente a rischio di successiva censura da parte del Dipartimento. Senza contare l’ambiguità della categoria di avversario straniero: il fatto che il Dipartimento elenchi “Cina, Cuba, Iran, Corea del Nord, Russia e il regime Maduro” come avversari stranieri offre un falso conforto alle imprese (US Chamber of Commerce 2021). Pertanto, già prima dell’invasione dell’Ucraina, la Russia era inclusa nella lista degli “avversari stranieri” dai quali gli Stati Uniti devono necessariamente difendersi. Ma, come verrà mostrato nel paragrafo successivo, la Cina è il principale bersaglio di questo ulteriore restringimento della politica commerciale statunitense.
A questo proposito, si nota una notevole somiglianza tra le nuove misure protezionistiche nei confronti della Cina e le cosiddette sanzioni, al punto che diventa sempre più difficile distinguerle. I due strumenti sono inoltre comparabili nella rapidità di escalation, considerando che, per esempio, nel solo 2018 le tariffe medie sui prodotti cinesi in ingresso negli USA sono aumentate dal 3,1% al 12% (nel caso reciproco, dall’8% al 18,2%), raggiungendo il 21% nel 2019 per entrambi i paesi, un livello rimasto sostanzialmente invariato. Tale dato assume grande rilevanza se si osserva che all’inizio del 2018 la tariffa più bassa era applicata a una quota di prodotti scambiati che era praticamente pari a zero; la percentuale del commercio soggetta a dazi di importazione, in un periodo di tre mesi, è diventata del 47% negli Stati Uniti e del 65,5% in Cina, per poi scendere leggermente in quest’ultima (attualmente al 58,3%), mentre negli Stati Uniti ha raggiunto il 66,4% (Bown 2021).
Anche nel caso specifico della Cina non si è registrata una inversione di tendenza da parte dell’Amministrazione Biden. Al contrario, le azioni contro la Cina sono state incrementate (Padula e Pizetta 2022). Ad esempio, nel marzo 2022, gli USA hanno abolito alcune eccezioni al regime tariffario precedentemente concesse (US Trade Representative 2022). Da allora, le misure rivolte alle aziende cinesi sono aumentate in modo esponenziale. Inoltre, Trump non può essere considerato il fondatore di tale politica: i dati indicano che il protezionismo statunitense ha avuto inizio ben prima, dopo la crisi del 2008, sotto la presidenza di Obama (Georgiadis e Gräb 2013). Come affermano Xing e Bernal-Meza (2022), che inquadrano l’ascesa della Cina in “cicli di egemonia”, “Washington si sta preparando da tempo a un disaccoppiamento economico dalla Cina”. Ciò è confermato da Bown e Irwin (2019), tra i maggiori esperti della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina.
Nelle parole di un editoriale molto recente su The Economist, “Il vecchio sistema era già sotto pressione, poiché l’interesse dell’America nel mantenerlo era venuto meno dopo la crisi finanziaria globale del 2007-09. Ma l’abbandono, da parte del Presidente Joe Biden, delle regole del libero mercato a favore di una politica industriale aggressiva gli ha inflitto un nuovo colpo” (“The destructive new logic that threatens globalization”, 2023). La citazione rende esplicito il legame stretto tra disaccoppiamento e “reshoring”, che possono essere visti come le due facce della medaglia del friend-shoring. Inoltre, va tenuto presente che l’industria militare è un potente strumento di politica industriale e di crescita economica e che, al contrario, essa è sempre più dipendente dalle tecnologie al centro della cosiddetta rivoluzione digitale. Il bersaglio delle sanzioni o del protezionismo potrebbe essere uno (lo sviluppo militare) o l’altro (l’economia nel suo complesso), ma gli effetti si ripercuoteranno su entrambi (Dall’Agnol e Dall’Agnol 2020).
Protezionismo discriminatorio: l’intreccio di sanzioni, politica commerciale e militare
L’intreccio tra sanzioni e politica protezionistica in senso stretto è anch’esso di lunga data e, a nostro avviso, rappresenta un elemento chiave della “legge del moto”, come presentato nella sezione due. Concentrandoci nuovamente sugli Stati Uniti, si è osservato che, invece di utilizzare le tariffe, come previsto dalla legge, per regolare le condizioni d’importazione in risposta a pratiche scorrette dei partner commerciali, gli USA “hanno minacciato e imposto tariffe per costringere i paesi a cambiare politiche a loro sfavorevoli – la stessa logica che sta alla base dell’uso delle sanzioni economiche” (Forrer e Harrington 2019, 23). Di conseguenza, la distinzione tra sanzioni e politica commerciale diventa sempre più labile (Kirilakha et al. 2021).
Come evidenziato, uno dei settori in cui geopolitica, sviluppo nazionale (sia in ambito civile che militare), sicurezza nazionale e commercio sono sempre più interconnessi è quello delle ICTS (tecnologie e servizi dell’informazione e della comunicazione) (Padula e Pizetta 2022). Un caso emblematico di questo intreccio è rappresentato dal National Defence Authorization Act del 2019 (la legge che stabilisce le spese militari annuali degli Stati Uniti), firmato nell’agosto 2018, che mostra in maniera chiara e senza precedenti la mescolanza tra questioni di sicurezza nazionale ed economiche (Chorzempa 2018). Tale legge contiene due disposizioni: la FIRRMA (Foreign Investment Risk Review Modernization Act), che si occupa degli investimenti esteri, e l’ECRA (Export Control Reform Act), relativa alle esportazioni e al trasferimento di tecnologie all’estero. Come ricostruito da Chorzempa (2018), l’atto è stato approvato al termine di un anno di dibattiti su come proteggere gli Stati Uniti dalle minacce alla sicurezza pubblica derivanti dagli investimenti esteri in entrata e dal trasferimento di tecnologie all’estero.
Va sottolineato anche il consenso bipartisan sulla necessità di tali misure. Le due disposizioni, tra le altre cose, conferiscono un maggiore controllo al Dipartimento del Commercio, a cui è affidato un rapporto biennale sugli investimenti cinesi e non solo, e al Committee on Foreign Investments in the United States (CFIUS), incaricato di esaminare gli investimenti alla luce della protezione della sicurezza nazionale. Inoltre, un ulteriore strumento trova la sua base giuridica nell’ECRA: il Bureau of Industry and Security (BIS), che è stato incaricato delle restrizioni alle esportazioni verso la Russia sin dall’invasione dell’Ucraina.
Tra le altre misure, dopo l’escalation della crisi ucraina, questo ufficio decide quali paesi terzi possano ottenere delle eccezioni al nuovo regime di blocco all’esportazione di una lista di prodotti che gli USA non desiderano far arrivare in Russia e Bielorussia. Affinché un paese diventi un’eccezione tollerata, esso deve conformarsi in modo autonomo allo stesso regime sanzionatorio stabilito negli Stati Uniti. Come affermato con decisione da Janet Yellen (2022, senza numerazione di pagina):
“Sia chiaro, la coalizione unificata dei paesi sanzionatori non resterà indifferente alle azioni che minacciano di minare le sanzioni che abbiamo messo in atto”.
L’obiettivo viene così specificato:
“Andando avanti, sarà sempre più difficile separare le questioni economiche da considerazioni più ampie di interesse nazionale, inclusa la sicurezza nazionale. L’atteggiamento del mondo nei confronti della Cina e la sua disponibilità ad abbracciare una ulteriore integrazione economica potrebbero benissimo essere influenzati dalla reazione della Cina alla nostra chiamata ad un’azione risoluta sulla Russia” (Yellen 2022, senza numerazione di pagina).
In sintesi, le disposizioni che limitano i flussi commerciali e finanziari con paesi considerati avversari strategici – ma che, di fatto, intrattengono relazioni pacifiche con gli Stati Uniti e sono anche membri delle istituzioni internazionali che dovrebbero regolamentare tali politiche (come l’OMC) – sono approvate nell’atto che finanzia annualmente l’esercito. Successivamente, queste stesse disposizioni vengono impiegate per regolare la politica sanzionatoria nei confronti della Russia, influenzando fortemente, attraverso il controllo sui paesi terzi, l’intero regime internazionale che, nella retorica dominante, verrebbe eccezionalmente sconvolto dalla guerra in Ucraina.
Si tratta di mezzi ordinari per la gestione dell’eccezionale, o di mezzi straordinari per la gestione dell’ordinario? La stessa domanda potrebbe essere posta in riferimento al sistema SWIFT, dal quale la Russia è stata esclusa: una mossa definita da alcuni come “l’opzione nucleare nel campo finanziario” (tra gli altri, dal Ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire). A questo proposito, si è osservato che:
“La topografia delle reti economiche di interdipendenza si interseca con le istituzioni e le norme interne per plasmare l’autorità coercitiva (p. 44) […]. Per coloro che sono immersi nella tradizione liberale, dimostriamo che le istituzioni progettate per generare efficienze di mercato e ridurre i costi di transazione possono essere impiegate per scopi coercitivi (p. 46) […]. Solo quegli stati che detengono giurisdizione fisica o legale sui nodi centrali saranno in grado di sfruttare i benefici di un’interdipendenza armata.” (Farrell e Newman 2019, 56)
Dopo gli attacchi dell’11 settembre, come mostrano gli autori citati, il governo statunitense riuscì ad ottenere l’accesso ai dati SWIFT come arma fondamentale nella guerra al terrorismo (ciò fu possibile anche perché tali dati erano conservati in Virginia, negli USA). Pigatto et al. (2021, 4) sostengono che si possa fare un ragionamento analogo riguardo a Internet, dove “alcuni stati tengono un controllo stretto sulle aziende e sui cittadini online, utilizzando misure quali regolamentazioni, blocchi d’accesso e attività di policing per assicurarsi che la rete serva scopi specifici ritenuti desiderabili” e affinché
“la rete rimanga abbastanza radicata nel territorio statunitense, a causa della concentrazione di infrastrutture fisiche e servizi. […] Molte piattaforme popolari hanno anche i loro server canonici situati lì, e gran parte dei dati mondiali finisce per fluire in quella direzione, indipendentemente dalle leggi sulla localizzazione dei dati” (Pigatto et al. 2021, 9).
Il disconnettersi da SWIFT, presentato oggi come una “reazione nucleare pacifica” straordinaria in risposta alla presunta minaccia nucleare della Russia, è già stato utilizzato in passato più volte. Ad esempio, contro l’Iran. Non sorprende dunque che questi e altri episodi di “interdipendenza armata”, indissolubilmente intrecciati a misure di protezionismo selettivo e discriminatorio – come quelle menzionate nei paragrafi precedenti – abbiano spinto la Russia e la Cina, ma anche altri paesi di “status geopolitico” inferiore, a promuovere la creazione di reti e infrastrutture a supporto degli scambi globali, alternative a quelle esistenti, ritenute controllate dagli Stati Uniti e dai loro alleati. In altri termini, gli attori del mondo in via di sviluppo stanno sfidando il sistema di governance internazionale, aspirando ad agire come creatori di regole e provocando una “trasformazione disordinata” nella quale la crisi dell’ordine esistente e le prospettive per uno più inclusivo si intrecciano (Villa e Ramanzini Junior 2021).
In questo “circolo disordinato” di azioni e reazioni che prende forma e ridefinisce il mondo, risalire al fattore causale a monte può essere più complesso che identificare ciò che è immediatamente percettibile. In questo caso specifico:
“Con il sostegno di Cina, Iran, Bielorussia, Kazakistan e la neutralità studiata dell’India, è in corso la creazione di un nuovo sistema finanziario internazionale. Non si tratta, in senso stretto, della creazione della Russia stessa, ma di quella operata dai massimi responsabili politici e dai pensatori strategici negli Stati Uniti” (Galbraith 2022, senza numerazione di pagina).
Un altro esempio significativo di dinamiche pericolose, che potrebbero comporre la catena causale che porta alla guerra, riguarda le potenze medie costrette a fare scelte binarie, ossia a scegliere tra gli USA e la Cina. Ad esempio, la letteratura mostra come l’esito controintuitivo di tali scelte prenda di solito la forma di una serie di decisioni in diversi ambiti politici, piuttosto che una scelta definitiva che abbracci tutti i settori, poiché l’opzione del cambio di rotta viene largamente adottata, anche nel caso di alleati di lunga data (Cha 2020).
In conclusione:
“Se gli Stati Uniti intendono disimpegnarsi selettivamente dalla Cina e ridurre al contempo la competitività economica di quest’ultima, dovrebbero valutare in maniera più rigorosa quanta influenza esercitano sullo sviluppo cinese e quanto sostegno potrebbero contare da altri paesi” (Wyne 2020, 44).
Friend-shoring prima del friend-shoring
La direttrice del FMI, Kristalina Georgieva, al World Economic Forum 2022 a Davos, ha ribadito il discorso dominante, insistendo sul fatto che i segni della “frammentazione geoeconomica” dei nostri tempi sono il risultato della pandemia e, soprattutto, dell’invasione russa dell’Ucraina (Georgieva et al. 2022; Aiyar et al. 2023). Tuttavia, abbiamo dimostrato che la guerra in Ucraina non rappresenta il punto di partenza, né la causa, dell’uso dei meccanismi protezionistici punitivi e discriminatori tipici del friend-shoring, siano essi concepiti espressamente come sanzioni oppure come dazi e altri strumenti di politica commerciale. Inoltre, abbiamo osservato che questa distinzione diventa sempre più difficile da fare. Con riferimento alle note epistemologiche del presente lavoro, l’invasione russa – e non tanto un singolo capo di Stato – non va considerata la variabile esogena del modello esplicativo.
Infatti, gli strumenti principali del friend-shoring erano già in funzione ben prima del 24 febbraio 2022. È la magnitudine e l’intensità delle reazioni degli Stati Uniti e dei loro alleati all’invasione che possono differire dalle politiche che l’hanno preceduta, ma non la loro natura. Come illustrato, nella maggior parte dei casi, anche gli strumenti legali e amministrativi, oggi annunciati come sanzioni contro gli invasori, erano in vigore da tempo, in un insieme di politiche commerciali, finanziarie, estere e militari il cui inizio risale a più di un decennio fa, in concomitanza con la grande recessione globale. Ancora più significativamente, queste misure sono dirette contro un ampio spettro di “avversari stranieri”: non solo la Russia, ma soprattutto la Cina, e altri.
L’enfasi posta dagli esponenti dell’amministrazione statunitense e da vari opinion leader sul concetto apparentemente innovativo di friend-shoring nasconde una chiara continuità con le politiche precedenti. Inoltre, ben prima dell’invasione dell’Ucraina, il concetto di “allied-shoring” era già discusso nei circoli dell’amministrazione statunitense (Dezenski e Austin 2020). Soprattutto, il grande racconto della promozione del libero scambio e degli Stati Uniti come portabandiera della globalizzazione era da tempo svanito. Già nella disputa presidenziale statunitense, nonostante la polarizzazione durante le elezioni del 2016, era emerso un consenso bipartisan sulla necessità di rafforzare la resilienza economica degli USA, abbandonando il libero scambio quando necessario (Wyne 2022).
L’Amministrazione Biden ha adottato apertamente ed esplicitamente questo approccio. Un anno prima dell’invasione russa dell’Ucraina, il 24 febbraio 2021, l’Executive Order “America’s supply chain” ha incaricato il Governo di intraprendere una revisione completa delle relazioni commerciali, affinché “una stretta cooperazione sulle catene di approvvigionamento resilienti con alleati e partner che condividono i nostri valori favorisca la sicurezza economica e nazionale collettiva” (Stati Uniti d’America 2021a). Il termine friend-shoring appare già nei documenti ufficiali a giugno 2021 (Stati Uniti d’America 2021b). Potremmo risalire ancora più indietro, all’amministrazione Obama, durante la quale si sono verificate le prime ondate di misure protezionistiche (Evenett e Fritz 2015). Questa tendenza non è limitata agli USA. La necessità di ridefinire le catene di approvvigionamento era già presente nei vari piani di “reshoring” o “onshoring” lanciati da importanti attori occidentali ben prima della pandemia di Covid-19 e dell’invasione dell’Ucraina. Tra questi si annoverano l’insieme di politiche attuate in Giappone negli anni precedenti alla pandemia, come descritto da Schoff (2020), il piano Colbert 2.0 del governo francese adottato nel 2013, il UK Reshore Plan e l’Advanced Manufacturing Supply Chain Initiative del governo britannico nel 2014.
Dal lato occidentale, siamo ormai ben lontani dalla retorica globalista e pacifista, che invece è ancora sostenuta dal governo cinese (definito da Trindade d’Ávila Magalhães (2018, 1728) come “il globalizzatore economico del ventunesimo secolo”, in aperta opposizione alla logica del friend-shoring). Nelle parole di Xi Jinping:
“Dobbiamo sostenere lo spirito pionieristico e l’innovazione e liberare il potenziale e la vitalità della cooperazione. Coloro che coglieranno le opportunità della nuova economia, come i big data e l’intelligenza artificiale, saranno in sintonia con il battito dei tempi. Coloro che cercano di creare monopoli, bloccare e erigere barriere nella scienza e nella tecnologia per ostacolare l’innovazione e lo sviluppo di altri paesi e mantenere la loro posizione dominante sono destinati a fallire. […] Alcuni paesi tentano di espandere le alleanze militari per cercare una sicurezza assoluta, alimentare confronti a blocchi costringendo altri paesi a schierarsi e perseguire un dominio unilaterale a spese dei diritti e degli interessi altrui. Se tali tendenze pericolose saranno permesse di continuare, il mondo assisterà a ulteriori turbolenze e insicurezze” (Xi 2022, senza numerazione di pagina).
Conclusione
Se durante l’età d’oro, a seguito del crollo sovietico, gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali imposero le regole della globalizzazione capitalista e persino trascinarono la Cina in tale sistema, ormai da diversi anni assistiamo a un’inversione dei ruoli, con i cinesi che sostengono il libero scambio e l’Occidente che risponde con il friend‑shoring. Tale inversione di posizioni sulla scena internazionale non è affatto casuale, ma è una conseguenza dei grandi squilibri che si sono sviluppati negli anni dell’apertura globale dei mercati, con gli Stati Uniti e la maggior parte dei paesi occidentali che hanno accumulato deficit esteri e posizioni estere nette passive, mentre la Cina, alcuni paesi emergenti e gli esportatori di energia – e in parte anche la Russia – hanno accumulato surplus e crediti nei confronti degli altri paesi in maniera simmetrica. Uno squilibrio che, nel tempo, avrebbe logicamente favorito un processo di centralizzazione del capitale, con i creditori che liquidano, acquisiscono e inglobano i debitori, a meno che questi ultimi non reagiscano in modo protezionistico.
In breve, il friend‑shoring occidentale può essere visto come una difesa contro i rischi di una centralizzazione del capitale guidata dalla Cina, una strategia applicata da tempo prima che il termine iniziasse ad essere utilizzato apertamente. L’uso di strumenti diversificati per perseguire questa strategia, come descritto in questo documento – strumenti che, di volta in volta, sono stati diretti a numerosi e variegati paesi – non deve indurre in errore riguardo all’obiettivo finale. Infatti, tale politica, principalmente indirizzata contro la Cina e i paesi ad essa ancorati, mira a restringere i benefici dei concorrenti paritari (e non, stavolta, degli stati paria) in un sistema internazionale globalizzato, rafforzando al contempo la resilienza della catena di approvvigionamento degli USA (e dei “friends”) (Wyne 2020). In questo senso, l’attuale scenario potrebbe essere inquadrato anche in termini della spinosa questione che ruota attorno a Tecno‑Nazionalismo e Tecno‑Globalismo (Ostry e Nelson 1995), che risulta altresì esplicativa nel differenziare l’ambito delle misure trattate in questo documento dalle mosse antagonistiche nei confronti di paesi più piccoli (ossia, non paritari). Ora, poiché le principali potenze globali sono direttamente coinvolte e gli strumenti usati – sanzioni, guerra commerciale, misure militari – si fondono in maniera ambigua in un’unica politica aggressiva di protezionismo discriminatorio, eufemisticamente denominata friend‑shoring, la strategia risulta estremamente pericolosa. In questo senso, la guerra cessa di apparire come una causa per assomigliare strettamente all’esito prevedibile di altre politiche e istituzioni. Dovremmo cercare le variabili esplicative in queste ultime, non nelle prime.
Prima della “deglobalizzazione”, i grandi debitori occidentali cercavano da tempo di rimanere a galla nel grande vortice globale adottando una strategia di doppio espansionismo: espansione del debito e dell’influenza militare nel mondo. In termini generali, i debiti esteri finanziavano truppe sul campo che, a loro volta, dovevano procedere a nuovi accumuli capaci di mitigare lo stesso debito. Le campagne belliche in Iraq, mirate anche a migliorare l’equilibrio energetico degli USA, sono solo l’esempio più elementare di questo complesso circuito militare-monetario. Tuttavia, questa forma di imperialismo dei debitori incontrò crescenti ostacoli, fino a raggiungere una crisi dei risultati e un limite superiore di espansione, come dimostrato anche da ritiri precipitosi, ad esempio da Afghanistan. La crisi coincise poi con l’intensificarsi del protezionismo discriminatorio. Il problema è che, a sua volta, i creditori possono reagire, cercando di espandere lo spazio di influenza economica abbattendo le barriere protezionistiche con mezzi ancor più audaci, anche militari. Si tratta di una catena lunga e complessa di azioni e reazioni che spinge l’intero sistema verso una vera guerra capitalista, non più costituita solo da dazi, sanzioni e impedimenti alle acquisizioni estere, ma anche da bombe e truppe sul campo.
Le seguenti citazioni sono esempi di come questo corso fosse stato previsto e annunciato, senza che ciò avesse arrestato lo svolgersi della “legge”. Parlando di sanzioni finanziarie, The Economist (“The pros and cons of a SWIFT response”, 2014) aveva già avvertito nel 2014:
“Another risk is that using SWIFT in this way could lead to the creation of a rival. Russia’s central bank is pre-emptively working to develop an alternative network; China has also shown interest in shifting the world’s financial centre of gravity eastward.”
Un altro rischio è che l’uso di SWIFT in questo modo potrebbe portare alla creazione di un concorrente. La banca centrale russa sta lavorando preventivamente per sviluppare una rete alternativa; anche la Cina ha mostrato interesse a spostare il centro di gravità finanziaria del mondo verso est.
L’amministratore delegato della seconda banca russa, VTB, intervenendo al Forum di Davos nel 2015, arrivò a parlare apertamente di guerra:
“If there is no Swift, there is no banking relationship, it means that the countries are on the verge of war, or they are definitely in a cold war”
(Tett e Farchy 2015).
Medvedev, allora Primo Ministro russo, commentò sulla minaccia di esclusione dal sistema SWIFT:
“We’ll watch developments and if such decisions are made, I want to note that our economic reaction and generally any other reaction will be without limits”⁷.
E nel 2014, Putin interpretò il sistema delle sanzioni occidentali come un mezzo per accelerare le divisioni economiche mondiali e preannunciò le sue potenziali implicazioni:
“The politically motivated sanctions have only strengthened the trend towards seeking to bolster economic and financial sovereignty and countries’ or their regional groups’ desire to find ways of protecting themselves from the risks of outside pressure. We already see that more and more countries are looking for ways to become less dependent on the dollar and are setting up alternative financial and payments systems and reserve currencies. I think that our American friends are quite simply cutting the branch they are sitting on.”
(Putin 2014, senza numerazione di pagina).
“Se non c’è SWIFT, non c’è relazione bancaria, significa che i paesi sono sull’orlo della guerra, o sono sicuramente in una guerra fredda” (Tett e Farchy 2015).
Medvedev, allora Primo Ministro russo, commentò sulla minaccia di esclusione dal sistema SWIFT: “Osserveremo gli sviluppi e se tali decisioni saranno prese, voglio notare che la nostra reazione economica e generalmente qualsiasi altra reazione sarà senza limiti”.
E nel 2014, Putin interpretò il sistema delle sanzioni occidentali come un mezzo per accelerare le divisioni economiche mondiali e preannunciò le sue potenziali implicazioni: “Le sanzioni politicamente motivate hanno solo rafforzato la tendenza a cercare di rafforzare la sovranità economica e finanziaria e il desiderio dei paesi o dei loro gruppi regionali di trovare modi per proteggersi dai rischi di pressioni esterne. Vediamo già che sempre più paesi stanno cercando modi per diventare meno dipendenti dal dollaro e stanno creando sistemi finanziari e di pagamento alternativi e valute di riserva. Penso che i nostri amici americani stiano semplicemente tagliando il ramo su cui sono seduti.”
In altre parole, le iniziative per il disaccoppiamento dal sistema monetario internazionale guidato dagli USA erano già in corso, e le sanzioni hanno solo accelerato queste dinamiche, con risultati economici, finanziari e persino bellici. Possiamo dire che l’invasore russo, con queste parole, si procura un alibi per il futuro, attraverso una propria lettura non come soggetto, ma come oggetto determinato del processo storico: l’invasione come variabile dipendente, per così dire, facendo ricorso alle note epistemologiche sollevate in precedenza in questo documento. In maniera analoga, si può sostenere che la Russia è stata costretta a migliorare la propria resilienza militare e industriale, stimolando la propria industria nazionale, come esito perverso e indesiderato delle sanzioni (Dall’Agnol 2022; vedi anche Wyne 2020 sugli effetti simili in Cina; e Peksen 2019): prepararsi alla guerra attraverso l’esperienza delle sanzioni che l’hanno preceduta. Ancora una volta, il protezionismo discriminatorio aggressivo sembra collocarsi a monte nella catena causale.
La tesi prevalente, secondo cui le sanzioni sono una conseguenza della guerra, risulta pertanto troppo sommaria per essere presa sul serio. Un’analisi più approfondita suggerisce di cercare le cause lungo una lunga tendenza, che parte dalla globalizzazione, attraversa gli squilibri internazionali, le centralizzazioni inaspettate, le reazioni protezionistiche e sanzionatorie e, infine, le contromisure bellicose. Questa interpretazione ci costringe a concepire possibili fili conduttori anche tra fatti piuttosto distanti, dal protezionismo in ripresa dopo la grande crisi finanziaria del 2008 all’azione bellica di sabotaggio del gasdotto Nord Stream del 2022. È una catena complessa, nella quale le consuete distinzioni tra variabili endogene ed esogene del modello, tra cause e conseguenze storiche, appaiono inadeguate. La causalità della guerra capitalista è un oggetto dialettico.
Ringraziamenti
Questo studio è stato finanziato in parte dalla Coordenação de Aperfeiçoamento de Pessoal de Nível Superior – Brasile (CAPES).
Note
- Come si vedrà in seguito in questo articolo, nell’economia globalizzata in particolare, questo spazio è penetrato da coloro che producono e dominano lo scambio e le reti ICT (Farrell e Newman 2019; Pigatto et al. 2021).
- Tutte le traduzioni contenute in questo documento sono degli autori.
- Secondo Lunghini (1998), un’ideologia costituisce o implica un punto di vista filosofico-sociale. Egli sottolinea che l’idea prevalente sarebbe quella secondo cui l’ideologia debba essere tenuta distinta e separata dal nucleo scientifico della teoria, che pertanto dovrebbe aspirare alla neutralità. Nella costruzione di una teoria, tuttavia, e nella valutazione del suo realismo e della sua rilevanza, Lunghini evidenzia come intuizione storica, prospettiva politica e visione sociale intervengano necessariamente.
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- Un rapporto molto recente del Fondo Monetario Internazionale (FMI) fornisce un resoconto esteso di questa “frammentazione geoeconomica” (Aiyar et al. 2023).
- “Russia to respond to possible disconnection from SWIFT — PM.” Russian News Agency, 27 gennaio 2015 https://tass.com/russia/773628
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