Cicalese, P. Piano contro mercato. 2022

Piano contro mercato : per un salario sociale di classe / Pasquale Cicalese ; prefazione di Guido Salerno Aletta ; postfazione di Vladimiro Giacchè. – 2. ed. aggiornata – Napoli ; Potenza : La città del sole, 2022. – 239 p. ; 21 cm.. – [ISBN] 978-88-8292-545-1.

Il report contiene:
Sommario
Abstract
Prefazione di Guido Salerno Aletta
Postfazione di Vladimiro Giacchè

SOMMARIO
  • L’oro dell’oriente Marx 21 – 28 Novembre 2012
  • BCE/PBOC Differenti modi di intendere l’accumulazione di capitale Marx 21 – 09 Luglio 2012
  • Il salario sociale globale di classe come meccanismo di accumulazione: il caso Cina Marx 21 – 11 Marzo 2013
  • Il trionfo di Marx. La banca asiatica come compimento del mercato mondiale
  • Marx 21 – 03 Aprile 2015
  • Mezzogiorno: da piattaforma militare al servizio americano a piattaforma industriale per la cooperazione con l’Asia. Marx 21 – 05 Maggio 2015
  • Si prospetta il G4 finanziario. Marx 21 – 05 Agosto 2015
  • La risposta cinese alla crisi mondiale del 2008. Marx 21 – 08 Ottobre 2015
  • L’Europa come campo di battaglia tra USA e Cina. Marx 21 – 18 Novembre 2015
  • A Russia e Cina servono 5-10 anni per rimpiazzare il dollaro. Marx 21 – 4 Agosto 2016
  • Aspetti delle relazioni economiche tra RPC e Italia. Marx 21 – 01 Novembre 2016
  • Dalla de-globalizzazione esce vincente la Cina. Marx 21 – 22 Gennaio 2017
  • Cina-USA: La vittoria del piano contro il mercato. Marx 21 – 11 Novembre 2017
  • Il “nuovo paradigma” cinese Marx 21 – 27 Febbraio 2018
  • Dazi USA contro Cina, segno di impazzimento dell’occidente. Marx 21 – 23 Marzo 2018
  • Mercato mondiale contro capitale finanziario. La sfida futura. Marx 21 – 19 Aprile 2018
  • Filiere agricole e industriali integrate. L’alleanza economica di Cina e Federazione Russa evolve. L’Antidiplomatico – 5 agosto 2019
  • Cina-USA: il fattore tempo sarà decisivo L’Antidiplomatico – 12 agosto 2019
  • Ormai gli indici borsistici mondiali seguono Shanghai. L’Antidiplomatico – 4 settembre 2019
  • L’istruzione di massa sostiene la crescita della Cina. La privatizzazione dell’istruzione è alla base del declino USA L’Antidiplomatico – 9 settembre 2019
  • La Cina viene incontro a Trump. L’Antidiplomatico – 11 settembre 2019
  • Limiti e contraddizioni dei negoziati bilaterali UE-Cina sugli investimenti – CAI. L’Antidiplomatico – 14 ottobre 2019
  • L’accordo USA-Cina e la fine della New Economy. L’Antidiplomatico – 16 gennaio 2020
  • Xi: dopo l’aumento delle pensioni, la sanità è la priorità numero 1. L’Antidiplomatico – 5 giugno 2020

L’autunno dell’Europa

  • Banca d’Italia non lascia speranze. Marx 21 – 19 Aprile 2013
  • La leva dell’offerta dei banchieri centrali italiani come panacea di tutti i mali
  • Marx 21 – 28 Marzo 2014
  • L’illusione del padronato italiano. Marx 21 – 10 Settembre 2015
  • Italia 2016: la speculazione sulla fame. Marx 21 – 24 Gennaio 2016
  • Se la borghesia italiana si scopre euroscettica. Marx 21 – 21 Febbraio 2016
  • Draghi prepara la prossima crisi nell’eurozona. Marx 21 – 16 Marzo 2016
  • Rimettere il dentifricio nel tubetto. La vendetta dell’autunno caldo. Marx 21 – 09 Marzo 2016
  • Il riassetto capitalistico del governo Renzi. Marx 21 – 07 Aprile 2016
  • Si prepara la più grande distruzione economica dell’Italia. Marx 21 – 13 Maggio 2016
  • Perché Confindustria scarica le piccole imprese. Marx 21 – 13 Giugno 2016
  • Il fallimento della formula «più stato per il mercato». Marx 21 – 06 Settembre 2016
  • La lezione di Deutsche Bank. Marx 21 – 02 Ottobre 2016
  • Italia campo di battaglia: guerre finanziarie all’ombra dell’egemonia nel Mediterraneo. Marx 21 – 29 Novembre 2016
  • Il modello tedesco … in salsa italiana. Marx 21 – 20 febbraio 2017
  • In merito alle ultime rilevazioni dell’Istat. Marx 21 – 05 Marzo 2017
  • Il mercantilismo è finito ma l’Europa non lo sa. Marx 21 – 04 Aprile 2017
  • Il blocco del Nord Europa azzoppa l’Italia. Marx 21 – 16 Febbraio 2018
  • I primi effetti positivi del reddito di cittadinanza sull’economia italiana. L’Antidiplomatico – 2 agosto 2019
  • Il Corriere della Sera lancia bordate alla Germania. L’Antidiplomatico – 19 Dicembre 2019
  • Deficit all’1.6%. Crollano tutte le fake news su Quota 100 e Reddito di cittadinanza. Lantidiplomatico – 2 marzo 2020

MISCELLANEA

  • La capitolazione finale: l’hausmanizzazione monetaria è compiuta. Marx 21 – 15 set 2014
  • L’Italia e la Nuova Via della Seta: firmato maxi-accordo. Così l’Italia entra nella catena del valore cinese. L’Antidiplomatico – 10 luglio 2019
  • Reuters, la Germania sta per dire addio all’avanzo di bilancio. E noi?. L’Antidiplomatico – 8 agosto 2019
  • La presidente della Bce Lagarde sconfessa il modello tedesco ed europeo. Marx 21 – 24 Novembre 2019
  • Dati export Germania. Merkel, abbiamo un problema. L’Antidiplomatico – 10 giugno 2020
  • In memoria di Sbancor. Carmillaonline – 23 Giugno 2016
  • Il declino della sanità Storia della Sanità Italiana La Contraddizione – 2002
ABSTRACT

Negli ultimi trent’anni la dicotomia tra capitale fittizio e capitale industriale è stata ben rappresentata dal conflitto Usa-Cina. L’Europa ha creduto che la distruzione del sistema del «salario sociale globale», costruito nel dopoguerra, gli avrebbe permesso di giocare in questo conflitto un ruolo decisivo. La storia recente ha mostrato che questa scelta era sbagliata, e che la Cina, ispirandosi proprio al modello italiano, costruito nella Prima repubblica e abbandonato nel 1992, ha potuto conquistare posizioni a danno proprio degli occidentali. In questo nuovo scenario il Mediterraneo conquista la sua antica centralità nel commercio globale. Nuove vie si aprono per l’Italia, nuove possibilità sono offerte ad una diplomazia, anche economica, che abbia il coraggio di volgere lo sguardo ad Oriente, come nel XIII secolo, quando le repubbliche marinare dominavano il commercio mondiale.

Prefazione di Guido Salerno Aletta


Ripubblicare, appena riorganizzando per argomenti quanto si è andato scrivendo nel tempo, è di gran lunga preferibile al riscrivere. E non tanto perché vale sempre il detto secondo cui non c’è nulla di più inedito di quanto appare quotidianamente sui media, e non importa che si tratti dei giornali o dei siti on-line. E non solo perché si resiste alla tentazione di rielaborare col senno del poi, dando al proprio pensiero una organicità ex-post che è frutto della successiva esperienza che tutto giustifica. Ma perché è la lettura a trarne un enorme beneficio: si può leggere la Raccolta iniziando dagli argomenti che più interessano, o addirittura ad apertura di libro, dove capita: è la realtà che irrompe, con la medesima freschezza di quando venne descritta. Non c’è bisogno dell’artifizio del presente storico, né serve volgere al passato gli eventi.
Al di là di questo già innegabile pregio, c’è soprattutto il valore intrinseco rappresentato dalla intelaiatura razionale che inquadra gli eventi: questi non vengono solo raccontati ma analizzati, concatenandoli tra loro con un filo discorsivo inesauribile.
La narrazione, che copre il periodo 2012-2020, ha sempre come punto di vista l’Italia a cui si rapportano gli eventi e le scelte politiche. È organizzata su due cerchi concentrici: il primo considera l’“Economia Mondo”, e dunque la tensione geoeconomica e geopolitica derivante dal complesso rapporto tra Cina ed Usa.
Della Cina si descrive, passo dopo passo, la crescita continua dell’economia reale, sempre meno dipendente dal surplus commerciale sull’estero e sempre più orientata alla dinamica della domanda interna. Quest’ultima è sostenuta sia dagli aumenti salariali che dalle riforme volte a fornire beni pubblici su base tendenzialmente universale, dalla istruzione alla sanità. È una economia comunque sostenuta dal capitalismo di Stato, pur tendenzialmente sempre meno invadente, ma in cui la convenienza del mercato non rappresenta mai il criterio in base a cui si assumono le scelte strategiche: queste sono comunque scelte politiche che spettano al Partito Comunista Cinese, in modo da far convergere le scelte della politica industriale con quelle monetarie, finanziarie e di bilancio. Dall’altra la progressiva evaporazione della economia reale a favore della finanza. Anche sull’estero, è il Partito che decide, con una sorta di tridente che ha come punte la strategia geopolitica fondata sulle alleanze tra i Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) e delle istituzioni ed i fora che ad essa si richiamano, l’OBOR (One Belt, One Road), le relazioni con i Paesi in via di sviluppo fondate sullo scambio tra il finanziamento delle infrastrutture e la fornitura di materie prime strategiche. Un approccio, quest’ultimo, ben più pervasivo e vincolante rispetto al paradigma “Trade for Aid” di matrice occidentale, in cui il commercio ed il profitto dei privati lasciano completamente in ombra i processi di sviluppo.
La sfida “Made in China 2030” è stata la svolta decisiva del processo di sviluppo, sia per quanto riguarda la scalata nella catena del valore, sia per quanto attiene alle relazioni con gli Usa, sponsor del paradigma che voleva la “Cina fabbrica del mondo”, ma solo nella manifattura a basso costo salariale, con un valore aggiunto corrispondente solo a quest’ultimo. Si è infranto così quel tacito accordo sulla cui base la Cina era stata ammessa nel Wto, ancora come economia non di mercato, che la confinava al segmento basso della divisione internazionale del lavoro: è stata dunque una sfida all’Occidente, quella lanciata dal Presidente Xi, rispetto al vecchio paradigma mercantilistico che era stato sostenuto in precedenza dal Presidente Hu, fermo alla insostenibilità di un riequilibrio a saldo zero nelle relazioni commerciali tra il Sud ed il Nord del mondo.
Degli Usa si narra la divaricazione crescente tra economia reale e finanza, con la dissoluzione del sogno americano, che era stato rappresentato fino agli anni Sessanta da una classe media centrale nei processi di produzione, consumo e crescita. Il paradosso è la sostituzione tendenziale della Cina in quel modello americano di centralità della classe media, ma in un contesto in cui il welfare rooseveltiano e la politica keynesiana nella gestione della spesa pubblica non rappresentano solo i rimedi emergenziali e congiunturali volti a contrastare le crisi parossistiche ed eccezionali del mercato, ma un modello di sviluppo che aggiunge al salario monetario diretto il salario sociale rappresentato dai beni pubblici di cui si beneficia. La deflazione salariale, pur imposta negli Usa a partire dagli anni Ottanta, e che è consistita nella drastica e progressiva riduzione della percentuale del salario in rapporto al reddito nazionale, non è stata sufficiente a mantenere sul suolo americano il sistema manifatturiero, che è stato delocalizzato a partire dagli anni Ottanta in Messico e Brasile e poi, nel nuovo secolo, in Cina e nel Far East: la politica monetaria restrittiva ha dunque strangolato le imprese americane ancor più che l’inflazione, determinando un apprezzamento del dollaro che per un verso ha squilibrato strutturalmente i conti con l’estero favorendo eccessivamente le importazioni e danneggiando irrimediabilmente le esportazioni, e per l’altro ha fatto affluire capitali da tutto il mondo, convogliati su Wall Street.
È una morsa, dunque, quella che affligge gli Usa: una economia non più fondata sulla produzione manifatturiera, che assorbe una manodopera stabile a condizioni retributive medio alte, ma sui servizi commerciali, finanziari e tecnologici, che portano ad una violenta divaricazione tra i cosiddetti McJob del terziario tradizionale, ora enfatizzata dai paradigmi organizzativi e distributivi gestiti dalle piattaforme informatiche su cui si fondano i successi di Amazon o nel settore delle vendite per corrispondenza o di Uber nel trasporto di persone a chiamata, con un lavoro precario e malpagato. All’estremo opposto ci sono le retribuzioni stellari dei money manager che gestiscono i portafogli ed i profitti globali degli Unicorni che vengono ampiamente trattenuti all’estero. Ancor più rilevante è la continua dipendenza americana dai prezzi internazionali delle derrate agricole e dalla competizione con i Paesi più poveri. A tutto si somma un risparmio interno declinante, sostituito dalla dipendenza dai capitali esteri.
Rispetto alla Cina, sono due modelli di sviluppo incommensurabili, in cui al dominio del Mercato si risponde con quello della Politica, ed alla centralità della accumulazione finanziaria si contrappone quella del salario sociale.
Segue, nella partizione, “L’autunno dell’Europa”. È la denuncia implacabile della progressiva irrilevanza dell’Unione sullo scacchiere globale, derivante dal prevalere di un disegno piegato alla logica dell’ordoliberismo , del mercantilismo e della deflazione salariale come strumenti per la competizione internazionale e l’accumulazione basata sulla svalorizzazione del lavoro ed alla marginalizzazione della domanda interna. L’Unione ha accettato passivamente il modello tedesco: prima, con il Trattato di Maastricht, ha messo vincoli inderogabili ai disavanzi dei bilanci pubblici, imponendo un risanamento finanziario che è servito solo ad abbattere i tassi di crescita e ad arricchire la rendita derivante dagli impieghi sui titoli di Stato emessi dai Paesi più indebitati come l’Italia. Poi è stata la volta della adozione dell’Euro, fondato sulla medesima costituzione monetaria del Marco, che ha impedito gli aggiustamenti in precedenza operati attraverso i meccanismi di svalutazione delle monete: congiunto alla libertà di movimento dei capitali, è stato il tappeto sotto cui sono stati nascosti per anni disavanzi commerciali insostenibili: mentre bilanci degli Stati erano sottoposti alla occhiuta vigilanza, il settore bancario della Spagna si indebitava follemente sull’estero, fino ad essere travolto. Infine, il Fiscal Compact ha messo gli ultimi chiodi sulla bara della crescita e della piena occupazione. L’Unione esporta deflazione e disoccupazione in giro per il mondo: a questo conduce l’avanzo commerciale strutturale europeo, di cui la Germania è l’alfiere, ben accompagnato dall’Italia dopo le politiche recessive adottate dal governo Monti e le riforme del mercato del lavoro decise da quello di Renzi. Ma l’avanzo commerciale italiano e quello ancor più ampio della bilancia dei pagamenti correnti, il risparmio netto importato dall’estero, non ha avuto come destinazione un aumento degli investimenti, ma ulteriori movimenti in uscita del conto finanziario: la fuga dei capitali dall’Italia è proseguita senza sosta.
Brano dopo brano, passo dopo passo, giorno dopo giorno, le contraddizioni esasperanti del dominio americano e del modello europeo si appalesano in tutta la loro gravità. La Cina mantiene fermo il privilegio della politica sul mercato, ma sacrifica ampiamente le libertà civili e politiche su cui si fondano le democrazie occidentali. Queste ultime sono nate dalle rivoluzioni borghesi contro il feudalesimo, contro i Sovrani assoluti e contro la tassazione senza rappresentanza: una nuova classe dominante, quella pur frammentata della proprietà terriera, e della borghesia commerciale, industriale e finanziaria, è subentrata ed ha fatto blocco. La Cina odierna nasce invece da una Lunga Marcia, da una lotta di popolo: contadini, commercianti e piccoli imprenditori, uniti contro le élite politiche e militari colluse con i colonizzatori stranieri.
La Storia non dimentica.

Postfazione di Vladimiro Giacchè

 Il libro che avete letto è stato scritto da uno dei pochi economisti italiani che valga la pena di leggere. Il termine “economista” andrebbe posto tra virgolette, non solo e non tanto perché Pasquale – come del resto il sottoscritto – non fa di mestiere l’economista accademico, quanto per un altro motivo: perché poche categorie professionali sono uscite screditate come questa dalla Grande Recessione e, più in generale, dalle vicende economiche dell’ultimo decennio.

 La certezza che non vi sarebbero state più crisi (espressa nientemeno che da un premio Nobel pochi anni prima del suo scoppio), previsioni sbagliate non solo sul lungo periodo ma anche su quanto sarebbe accaduto a breve (è “solo una crisi finanziaria”), e poi – una volta accertata l’esistenza e la gravità della crisi – il fiancheggiamento “scientifico” prestato a ricette controproducenti, che, in particolare nel nostro Paese, hanno reso quella che era una recessione severa la crisi più grave dall’Unità d’Italia. Tutto questo espresso con la spocchia caratteristica di una professione che ha trovato nella formalizzazione matematica (sovente di problemi irrilevanti) la prova della propria scientificità e al tempo stesso una tattica elusiva e un meccanismo esclusivo: per non parlare di ciò che veramente conta (ossia di come e a favore di chi si produce e distribuisce la ricchezza) e sbarrare l’accesso ai profani. Più di recente, quando è emerso con incontrovertibile chiarezza come l’appartenenza dell’Italia all’area monetaria dell’euro sia stata una rigidità chiave nell’impedire un riallineamento della competitività di sistema prima della crisi, e un contrasto efficace alla crisi dopo – quando tutto questo è emerso, la professione ha rifiutato e impedito ogni dibattito in materia per chiudersi a riccio nella difesa di quello che appare ogni giorno di più un semplice posizionamento ideologico. Un posizionamento a favore dell’integrazione europea a ogni costo (preferibilmente pagato dagli altri, sotto forma di deflazione salariale), a favore della moneta unica a prescindere, a favore di ogni nuovo meccanismo giuridico vincolante posto in essere a livello europeo, a dispetto di qualsivoglia asimmetria a noi sfavorevole possa contenere.

 Incapacità di confrontarsi seriamente con la realtà, rifiuto anche solo di affrontare un dibattito serio su temi cruciali, conformismo, corsa ad accaparrarsi l’ennesima consulenzina europea, fiancheggiamento di politiche socialmente ingiuste ed economicamente regressive. Questo è purtroppo quanto i professionisti dell’economia – con poche eccezioni – ci hanno regalato in questi anni. E questo è precisamente quanto non avete trovato in questo libro, e il motivo profondo del suo valore. Le analisi di Pasquale Cicalese sono lucide, illuminanti, anticipatorie, non nonostante, ma precisamente perché Pasquale Cicalese non fa parte di alcun circuito accademico, precisamente perché le sue analisi traggono alimento dalla teoria marxista (non compitata sillabando citazioni, ma posta a confronto creativamente con la realtà dei processi del nostro tempo), precisamente perché gli articoli che compongono questo libro non sono comparsi su sedi e siti d’informazione mainstream.

 Ma proviamo a vedere più da vicino gli snodi principali di queste pagine. Assai opportunamente il libro si apre con una parte dedicata a “Economia-Mondo” e assai opportunamente gli articoli che lo compongono riportano la data della loro prima pubblicazione. Questo ci consente di apprezzare la capacità di Cicalese di cogliere in anticipo rispetto alla gran parte dei commentatori la direzione e il significato di alcuni fondamentali processi che caratterizzano l’economia mondiale.

 Lo sguardo di Pasquale Cicalese si rivolge in particolare in direzione della Cina. A questo riguardo egli rileva assai per tempo quattro processi fondamentali, tra loro connessi. Il primo è la risposta alla Grande Recessione, fondata sul rilancio dei consumi interni e degli investimenti infrastrutturali. Il secondo è il più generale processo di riorientamento dell’economia cinese dalle esportazioni al mercato interno. Il terzo è la costruzione di un grande mercato interasiatico, che consente alla Cina di gestire con successo a quella ri-regionalizzazione degli scambi che sembra essere uno dei portati più significativi della Grande Recessione (e più recentemente delle guerre commerciali scatenate da Trump). Il quarto è il progetto della nuova Via della Seta, che Cicalese vede – correttamente – anche come una grande opportunità per l’Italia.

 Tutti questi processi sono stati capiti in ritardo dagli osservatori occidentali nella loro importanza e nella loro concreta configurazione. Emblematico, per quanto riguarda i primi due punti menzionati, il rapporto tra politiche fiscali e politiche monetarie in Cina, in cui Cicalese correttamente individua già nel 2012 l’esatto rovescio delle politiche perseguite nell’Eurozona. Quando, nel 2016, può rivendicare con legittimo orgoglio di aver visto prima di altri questa contrapposizione e i suoi effetti, lo fa a piena ragione. Ecco le sue parole: “Qualche anno fa scrivevo che tra BCE e People’s Bank of China c’era una distanza siderale nell’intendere l’accumulazione del capitale. Per la prima è l’asset inflation e il gonfiamento della carta finanziaria, che fa da contraltare a una feroce deflazione salariale, per la seconda contano gli investimenti e la crescita, basata sulla reflazione salariale”. In Cina “da una parte abbiamo una politica fiscale espansiva, dall’altra una politica monetaria restrittiva. In Occidente si è fatto l’opposto, con i risultati che conosciamo”. Del pari giustificata è quindi l’ironia di Cicalese sui “‘brezneviani del tardo capitalismo’, ignari di economia e intenti a distruggere il capitale produttivo dei paesi latini”: bersaglio della sua critica – lo ricordiamo ai troppi smemorati che popolano anche le pagine di quotidiani che amano definirsi “comunisti” – il Draghi che nel luglio 2012 abbassa i tassi e nel frattempo invoca “riforme strutturali”. Il risultato di questo approccio imperniato sulla “austerità espansiva”, ricorda Cicalese mentre i fatti stanno avvenendo (e non cinque anni dopo, come è capitato a numerosi economisti e commentori), sarà inevitabilmente quello di affossare “l’economia europea e, con essa, l’economia mondiale”.

 Se il primo risultato è stato ottenuto, ma il secondo no, lo si deve in effetti proprio alle ben diverse politiche portate avanti in quegli stessi anni dalla Cina, che già nel 2012 consentivano a quel paese di contribuire per il 31% alla crescita mondiale, mentre l’Eurozona contribuiva per un miserabile 2,4%. Purtroppo per noi – questo Cicalese non lo dice, ma a posteriori possiamo affermarlo con certezza – il contributo cinese ha anche consentito alla Germania di non patire più di tanto, almeno nel breve periodo, le conseguenze dei disastri combinati nei paesi del Sud Europa, potendo per l’appunto sostituire il mercato di sbocco cinese a quelli lasciati agonizzare con le politiche di austerity. In ogni caso, fa una certa impressione leggere oggi gli accorati appelli di certi scrittori di cose economiche alla Cina, i loro moniti affinché quel paese “rilanci la domanda interna”, quando si tratta di un processo che con tutta evidenza è in corso da anni, ed è del resto stato messo nero su bianco da tempo e ufficialmente quale obiettivo dalla stessa dirigenza cinese. Gli articoli di questo libro ci fanno capire che quel processo, che ha lasciato alla Germania il poco onorevole primato di ultimo paese mercantilista del mondo, è un processo ormai consolidato, e anche che chi avesse voluto leggersi i numeri del commercio internazionale avrebbe potuto capirlo da svariati anni.

 E veniamo al terzo aspetto: la creazione di un grande mercato asiatico. Nel maggio del 2015 Cicalese scrive: “Nel giro di un ventennio l’Asia conterà per circa il 60% della produzione mondiale e, cosa ancora più importante, sposterà l’accento della politica economica dall’esportazione alla creazione di un immenso mercato interno comune, sulla scia dell’esperienza europea” (il riferimento è al mercato comune degli anni Sessanta). Ora, a chiunque provi a esaminare oggi i tassi di crescita delle economie mondiali non può sfuggire un dato: negli ultimi anni l’Asia nel suo complesso cresce più delle altre regioni del globo e accorcia le distanze rispetto alle economie maggiormente industrializzate dell’Occidente. Il motivo va ricercato principalmente nel processo indicato da Cicalese.

 Quanto al quarto aspetto, ossia la cosiddetta Via della Seta, da quando Cicalese ne ha iniziato a trattare il progetto ha cambiato un paio di nomi, e ora si chiama Belt & Road Initiative. Non è però cambiato il fatto che si tratta di una rivoluzione geopolitica (la BRI è il vettore di una “progressiva integrazione eurasiatica”, scrive Cicalese) e di un’“opportunità epocale” per l’Italia. Va detto che a oggi questa opportunità non è stata colta. Al Memorandum of Understanding con la Cina – fortemente criticato da paesi europei che negli stessi giorni firmavano contratti miliardari con la Cina – non hanno fatto seguito iniziative adeguate. Addirittura, si è favorito l’acquisto del porto di Trieste – possibile sbocco della parte marittima della BRI – da parte del (concorrente) porto di Amburgo; e per il momento nessun porto del Meridione sembra essere concretamente coinvolto nel progetto. Nel frattempo, i nostri dirimpettai che si affacciano sulla sponda Sud del Mediterraneo stanno costruendo o ampliando porti precisamente per giocare un ruolo in questa importante linea di traffico.

 Questo ci porta alla seconda parte del libro, intitolata “L’autunno dell’Europa”. I temi chiave qui sono: le politiche sbagliate imposte dalla Germania all’Eurozona nel suo complesso, tutte dal lato dell’offerta, che fanno sì che essa (come scrive Cicalese nel 2014) stia “esportando deflazione in tutto il mondo”; le conseguenze catastrofiche dell’Unione Bancaria; i problemi strutturali dell’economia italiana.

 Per quanto riguarda il primo aspetto la questione (su cui abbiamo già detto qualcosa sopra) va inquadrata nella scelta di campo occidentale a favore del capitale produttivo d’interesse: se la Cina punta sugli investimenti reali e sulla crescita della domanda interna per ripartire, a Occidente, e più in particolare in Europa, si preferiscono politiche fiscali restrittive e la corsa del gambero sui diritti del lavoro; e quando per questa via (economicamente regressiva, in quanto sacrifica sistematicamente la domanda interna) “si ha record di avanzo commerciale, si ha surplus delle partite correnti” – come è accaduto negli ultimi anni in Italia – “il ricavato non è destinato a investimenti aziendali, ma a investimenti di portafoglio all’estero, in carta finanziaria”. Questi investimenti sono anche il grande beneficiario delle politiche monetarie ultraespansive.

 Veniamo ora ultimi due aspetti. Tra essi Cicalese stabilisce un nesso importante. A questo proposito si può forse osservare un’evoluzione del suo pensiero, in particolare sulla configurazione del capitalismo italiano, imperniato su imprese di minore dimensione dei competitor. Se negli scritti più risalenti nel tempo Cicalese sembra limitarsi all’equivalenza “piccola dimensione = scarsa produttività del lavoro e bassa competitività”, via via sembra farsi strada un quadro più articolato. Esso emerge in concomitanza con la crisi bancaria innescata dall’adesione dell’Italia alla cosiddetta Unione Bancaria Europea. Sulla quale Cicalese ha parole durissime: “Si distrugge la struttura industriale per via bancaria, attraverso quell’Unione Bancaria che Enrico letta definì a suo tempo un ‘successo dell’Europa unita’. Mediante il meccanismo della Vigilanza Europea, negli ultimi due anni c’è stato un accanimento pazzesco della BCE nei confronti del sistema bancario italiano, reo di attuare una funzione di banca commerciale, cioè di fornire credito all’economia reale. Infischiandosene dei derivati, di cui sono pieni i sistemi bancari del Nord Europa. La Vigilanza ha imposto alle banche italiane aumenti di capitale, accantonamenti e regole varie che hanno bloccato l’erogazione del credito… Il sistema bancario è sotto pressione via Vigilanza Europea, il sistema industriale è sotto pressione via sistema bancario italiano e i salariati sono massacrati dal sistema economico. Questo è il quadro italiano.”

 Il processo che Cicalese individua è un processo di concentrazione via acquisto delle sofferenze bancarie da parte di medie e grandi imprese: “Siamo agli albori della Terza Repubblica: la piccola impresa viene abbandonata, è l’ora della grande industria e della concentrazione manifatturiera, come controtendenza alla caduta del saggio di profitto”. Questo processo in verità non è andato molto avanti negli anni scorsi, ma è probabile che con le ulteriori penalizzazioni dell’attività creditizia previste dalle regole sugli NPLs approvate nel 2019 da Consiglio e Parlamento Europeo (e nel fissare le quali l’attuale ministro delle finanze italiano, lo storico Gualtieri, ebbe un ruolo chiave) esso, complice l’attuale crisi, nei prossimi anni si dispieghi pienamente.

 Anche l’ultima parte del libro di Cicalese, intitolata “Miscellanea”, contiene scritti illuminanti, come il lettore non avrà mancato di notare. Desidero soffermarmi brevemente in particolare su uno di essi, diverso dagli altri anche nello stile: “In memoria di Sbancor”. Sono pagine che mi hanno colpito molto, per diversi motivi. Il principale è che Sbancor era un mio amico e un mio collega. Era il responsabile del servizio studi della banca nella quale ho lavorato per undici anni, e per tre anni sono stato il suo vice (poi la nostra banca è stata incorporata in un’altra, nella quale io ho ricoperto – come si dice in gergo – “ruoli di responsabilità” in una struttura diversa dal servizio studi, mentre lui ha continuato a farne parte, ormai non più a suo agio in un ambiente che percepiva estraneo). Ma soprattutto era un finissimo analista economico, che nel tempo libero poneva le sue analisi al servizio di un’investigazione critica della realtà, di una demistificazione del pensiero dominante. Poteva quindi capitare di trovare il suo “vero” nome come firma di serissimi lavori a uso interno in relazione alla fusione tra Banco di Sicilia e Sicilcassa mentre, con lo pseudonimo di Sbancor, scriveva articoli per riviste online o libri come il folgorante Diario di guerra. Critica della guerra umanitaria (Roma 1999) o come il suo capolavoro, American Nightmare. Incubo americano (Bologna 2003). In quest’ultimo libro Sbancor riprese e sviluppò una formidabile intuizione che lo aveva portato, una decina di giorni prima dell’attentato alle Torri Gemelle, a prevedere la necessità di una guerra in Asia Centrale, declinando con esattezza i motivi di quella che sarebbe stata la guerra in Afghanistan (per chi fosse interessato, l’articolo uscì sul n. 86 de “la Contraddizione”, chiuso in redazione il 3 settembre 2001 e firmato con un altro pseudonimo, Vinicio Gasparone, in quanto la redazione della rivista non gradiva pseudonimi troppo scopertamente tali). Nei suoi articoli e libri di “controinformazione” (termine orrendo che indica letteralmente il contrario di ciò che dovrebbe significare, ma usiamolo per capirci) il suo stile si faceva immaginifico ma non per questo diveniva meno rigoroso, né le sue analisi meno penetranti. Al contrario: con violenti scarti che non di rado saltavano passaggi logici (costringendo il lettore a ricostruirli da sé), Sbancor procedeva sicuro e coglieva il problema, afferrava il bandolo della matassa di una situazione ingarbugliata, indicava con sicurezza lo sviluppo di processi la cui logica sfuggiva ai più – e con questo ci faceva capire di quante menzogne deliberate e di quanta cialtronesca approssimazione fosse fatta l’informazione “ufficiale”. Sbancor si definiva “anarco-comunista” (io gli dicevo che era un ossimoro, e lui contraccambiava dandomi dello “stalinista”), ma le sue analisi non avevano più alcuna finalizzazione a un agire politico, la sua “teoria” non era funzionale a una “prassi”, come si sarebbe detto qualche decennio fa. Sicuramente non avevano nulla a che fare con l’agitarsi, già allora piuttosto confuso, dei partiti che occupavano la scena politica in Italia. Erano un atto di ribellione e, insieme, di illuminismo: erano il tentativo di dare strumenti di lettura della realtà economica e politica a chi ne aveva bisogno. Ma erano in fondo, già in sé, un atto di liberazione.

 Quando si parla di un amico scomparso si è sempre insoddisfatti di quello che se ne dice, e queste mie righe su Sbancor non fanno eccezione. Credo però che esse siano quantomeno utili a introdurre l’ultimo aspetto del libro di Pasquale Cicalese su cui desidero soffermarmi. Questo testo, le analisi economiche di cui è intessuto, parlano anche e soprattutto del “declino” italiano. Un declino che è inscindibile dalle politiche economicamente regressive imposte per anni a un tessuto economico e sociale sempre più provato, al quale si spiegava che quelle politiche erano “di modernizzazione”, che esse avrebbero “svecchiato” la nostra economia introducendo in essa l’aria fresca della “concorrenza”, del “mercato”, la vivificante forza del “privato” contro la burocrazia dello Stato, e insomma tutte le altre favole che chiunque di noi si sente ripetere sino alla nausea da almeno 30 anni. Anche Cicalese, come già Sbancor, attribuisce a queste favole il loro giusto peso: quello di essere specchietti per le allodole, copertura ideologica di una gigantesca regressione economica e civile che è a sua volta l’effetto di uno smottamento nei rapporti di forza tra le classi; uno smottamento iniziato sul finire degli anni Settanta e che con la fine dell’Unione Sovietica è divenuto una valanga inarrestabile, finendo per travolgere le conquiste di decenni – ma sempre all’insegna della “modernizzazione”, dello “svecchiamento”. Quello che fu presentato come svecchiamento fu lo smantellamento dell’economia mista (pubblica e privata) del nostro Paese, fu la privatizzazione completa del settore bancario, fu l’alienazione di colossi pubblici che rappresentavano il grosse delle spese in ricerca e sviluppo dell’intera industria italiana.

 Si potrebbe continuare. Ma possiamo fermarci qui e fare il punto, per indicare un motivo per cui le pagine di Cicalese sono estremamente utili: esse ci dimostrano che tutto questo non era soltanto socialmente ingiusto, ma anche economicamente regressivo. Qui io trovo un importantissimo punto di contatto tra le analisi di Sbancor e quelle di Cicalese: in entrambi i casi viene mostrato ciò che non funziona negli attuali assetti del dominio economico.

Io credo che la fine di ciò che era stata la sinistra in Italia sia stata decretata, nel migliore dei casi, dall’incapacità di rispondere alle classi dominanti e alle politiche a loro favore in modo diverso che attraverso richiami moralistici, alla generica indicazione di ciò che è “ingiusto”, della difesa dei “deboli” (come se questi ultimi fossero tali per nascita e non in quanto situati in ben precisi rapporti sociali); sia stata decretata, cioè, da un approccio moralistico-retorico che immaginava di poter rispondere all’attacco dell’avversario di classe sfoderando elenchi di “diritti” sempre più lunghi. Nel peggiore, questo approccio sempre più rivolto a “diritti cosmetici” si è unito prima alla complicità, e poi alla conduzione in prima persona dell’opera di smantellamento di diritti e conquiste del lavoro.

 Ripetiamolo: l’importanza dell’analisi economica marxista di Cicalese consiste precisamente nell’indicare come ciò che è socialmente regressivo sia regressivo anche da un punto di vista economico (altro che “modernizzazione”!). È qui, secondo me, che diventa appropriato il titolo di questo libro: Piano contro mercato. Fermiamoci sul primo termine: il riferimento qui è all’idea di programmazione economica, di strategia di sviluppo economico. Questo ci indica una grande direzione di ricerca e di azione politica, che in fondo altro non è che una declinazione del più generale tema – che ha costituito una dei motivi di fondo del movimento socialista sin dai suoi albori e che ha dato linfa a gran parte della storia del Ventesimo secolo – del controllo del proprio futuro da parte degli esseri umani, e in particolare quelli tra essi che avevano sempre e solo subìto gli eventi storici.

È difficile, alle nostre latitudini, vedere uno sbocco pratico ravvicinato della ricerca. Ma questo in fondo non è che un motivo in più per spingere in profondità l’analisi economica critica e per promuoverne la conoscenza. La ricerca, questo presupposto di ogni prassi consapevole, è oggi in larga parte essa stessa prassi. Non possiamo che ringraziare Pasquale Cicalese per il suo importante contributo in questo senso.

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