Reinert, E. Come pochi paesi sono diventati ricchi, 2023

Come pochi paesi sono diventati ricchi e perché gli altri rimangono poveri / Erik S. Reinert ; prefazione di Jomo Kwame Sundaram ; traduzione di Monica Di Fiore. – Roma : Castelvecchi, c2023. – 425 p. ; 21 cm. – (Nodi).) – [ISBN] 978-88-329-0807-7. – IT\ICCU\UBS\0023515 – http://id.sbn.it/bid/UBS0023515

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Scheda IBS

Recensione di Marco Onado Il Sole 24 ore Domenica 06 AGOSTO 2023

IBS Descrizione

Oggi soltanto pochi paesi continuano ad accumulare ricchezza, mentre la maggior parte della popolazione mondiale vive al di sotto della soglia di povertà. Erik S. Reinert ricostruisce con rigore i meccanismi che hanno portato a questo «sviluppo del sottosviluppo» attraverso un’innovativa analisi della storia economica globale, e dimostra che gli Stati più ricchi hanno prosperato grazie a una combinazione di interventi governativi, protezionismo e investimenti strategici. È così che adesso il Primo Mondo può godere dei benefici del libero scambio, che – al contrario di quanto sostiene l’economia neoclassica – non è la soluzione naturale alla povertà, ma un lusso che solo in pochi possono concedersi. Per un mondo più equo è importante riuscire a ridurre il divario tra teoria e realtà; abbandonare quindi l’idea che l’armonia economica sia un risultato automatico, per tornare invece a politiche consapevoli e adeguate alle specificità e alle esigenze di ogni paese. Prefazione di Jomo Kwame Sundaram.

Recensione

Marco Onado Il Sole 24 ore Domenica 06 AGOSTO 2023

Effetti perversi della globalizzazione

Disuguaglianze. La monumentale opera di Erik S. Reinert evidenzia come le disparità fra Paesi ricchi e poveri non accennino a ridursi: le politiche successive alla caduta del Muro di Berlino si sono rivelate inadeguate

C’è un lato oscuro della globalizzazione che i suoi fautori spesso ignorano: è vero che il numero di poveri è diminuito in modo significativo, ma non bisogna dimenticare che la statistica definisce come poveri quelli al confine della sopravvivenza (2,15 dollari al giorno per l’esattezza), includendo quindi milioni di persone che fanno fatica a conciliare il pranzo con la cena, hanno un tetto precario, non hanno accesso all’istruzione anche primaria. Non basta. Nonostante decenni di politiche per lo sviluppo, le distanze fra Paesi ricchi e Paesi poveri non accennano a ridursi. I Paesi che escono dal sottosviluppo (il Sud-Est asiatico, l’India, la Cina) sembrano riuscirci grazie a circostanze (anche politiche) specifiche a ciascun Paese più che alle misure classiche per uscire dal sottosviluppo. Le nazioni definite povere e molto indebitate sono oggi ben 36. Dal 1960 il loro reddito pro-capite è aumentato del 33 per cento. Quello degli Stati Uniti di 2,33 volte. Reinert ha dedicato tutta la sua vita a studiare questo problema con un’ampia ricerca comparata risalendo ben al di là dei testi classici di Adam Smith e Ricardo. La sua tesi fondamentale è che abbiamo dimenticato le teorie che ci consentono di capire non solo perché alcuni Paesi diventano ricchi, ma soprattutto perché altri sono fatalmente condannati alla povertà. Questo libro, la cui prima edizione è del 2006, è un’opera tanto monumentale quanto affascinante, soprattutto per la grande capacità dell’autore di muoversi in altri campi: quello della storia e della filosofia, ma anche del pensiero politico. L’ipotesi di fondo dell’autore è che l’economia non basta e soprattutto quella oggi prevalente (adottata dalle istituzioni di Washington) condanna inesorabilmente i Paesi poveri a rimanere tali. L’economia mainstream è infatti ancorata al postulato dei vantaggi comparati che risale a Ricardo: ogni Paese deve specializzarsi nell’attività in cui gode di costi unitari di produzione più bassi e aprirsi al commercio internazionale: alla fine i rendimenti dei fattori si allineeranno e la prosperità regnerà sovrana. Il fatto è che i Paesi poveri sono specializzati in produzioni agricole, dove i rendimenti sono tendenzialmente decrescenti, mentre quelli ricchi si concentrano nelle attività manifatturiere e ad alta tecnologia, caratterizzate da rendimenti crescenti. Le velocità relative, cioè i ritmi di crescita, non possono che divergere, a vantaggio dei secondi. Non è questa la ricetta che molti economisti del passato (ad esempio Friedrich List nell’Ottocento) hanno formulato e tanto meno quella seguita dai Paesi oggi industrializzati, Inghilterra in testa. Basti pensare a come questa ha protetto l’economia nazionale a discapito delle sue colonie distruggendone l’industria e la finanza. Se ne era accorto anche Oscar Wilde che in L’importanza di chiamarsi Ernesto fa dire all’istitutrice: «Cecily, studia l’economia quando sono via. Meglio che salti il capitolo sulla caduta della rupia: è troppo forte». E infatti, quando il problema dello sviluppo si pose per la colonia nordamericana, il motto dei Padri fondatori, che saranno i primi grandi presidenti, fu «Non fare quello che gli inglesi ti dicono di fare. Fai quello che gli inglesi hanno fatto». La rivoluzione industriale non ci sarebbe mai stata se l’industria nazionale non fosse stata protetta in ogni modo. Dunque, la prima regola dello sviluppo è quella di puntare non solo sull’agricoltura, ma anche di avere una manifattura (a rendimenti crescenti): è la sinergia fra questi due settori che fa scattare la molla del decollo economico, come è avvenuto in tutti i Paesi oggi al vertice dello sviluppo. L’opera di Reinert ci conduce per mano lungo millenni di pensiero economico (non mancano citazioni che spaziano da Senofonte a Brunetto Latini e Pietro Verri) per dimostrare l’ipotesi fondamentale e per farci capire quanto le terapie adottate, in particolare il mito della globalizzazione dopo la caduta del muro di Berlino, siano inadeguate e condannino i Paesi poveri a rimanere tali. L’edizione del 2006 si chiudeva con tre previsioni: una grande crisi finanziaria è imminente; questo costringerà a reinventare il pensiero keynesiano; è possibile che il libero scambio, in quanto fulcro dell’ordine mondiale, ritardi la soluzione dei problemi. La prima e la terza previsione si sono avverate immediatamente. Non così si può dire per la seconda: nonostante qualche onesta autocritica, la teoria dominante stenta ad essere scalzata soprattutto per le sue implicazioni di politica interna e internazionale. Keynes diceva nelle ultime pagine della Teoria generale che i politici sono sempre schiavi di qualche economista defunto. Una svolta decisa nelle politiche di sviluppo è ancora di là da venire: la lezione di Reinert merita di essere studiata a fondo.

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