Saraceno, F. Oltre le banche centrali. Luiss, 2023

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Sintesi dell’A. su Sinistrainrete
Recensione di Cesare Alemanni
Recensione su Menabò 202/2023

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Scheda SBN

Oltre le banche centrali : inflazione, disuguaglianza e politiche economiche / Francesco Saraceno. – Roma : Luiss University Press, 2023. – 197 p. ; 21 cm. – (Koinè).) – [ISBN] 978-88-6105-993-1. ebook EAN 9791255960225

Scheda editore

Descrizione
John Maynard Keynes nel 1936 concludeva con queste parole la sua opera più famosa: “Gli uomini pratici che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale sono generalmente schiavi di qualche economista defunto”. L’economista defunto di cui sono schiavi gli uomini pratici di oggi è il premio Nobel per l’economia Milton Friedman, al cui nome è associata, oltre a “imprese” di dubbio valore come quelle dei cosiddetti Chicago Boys, la controrivoluzione teorica che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso ha fatto tabula rasa delle idee keynesiane. Gli “uomini pratici” che “si ritengono completamente liberi” sono oggi i banchieri centrali e molti esperti di economia. Dopo i “gloriosi Trenta”, e il lungo periodo di dominio della teoria keynesiana che ha seguito la crisi del 1929, Milton Friedman è stato il maggior artefice del ritorno in auge dell’idea che i mercati siano quasi sempre in grado di fare meglio della mano pubblica. Il nome dell’economista di Chicago è indissolubilmente legato alla teoria monetarista, che legava l’inflazione alla quantità di moneta in circolazione, dando quindi alle banche centrali la colpa di aumenti dei prezzi eccessivi. Il monetarismo ha avuto vita breve in accademia ed è stato apparentemente dimenticato anche da banchieri centrali e policy maker, forse complice il lungo periodo di tassi d’inflazione moderati che ha caratterizzato l’economia mondiale tra i primi anni Ottanta e oggi. Tuttavia, il ritorno sulla scena di Friedman è stato spettacolare e inarrestabile appena l’inflazione si è riaffacciata, nel 2021. L’idea per cui questa è essenzialmente un fenomeno monetario è riapparsa prepotentemente, nonostante tutto sembrasse indicare che gli aumenti dei prezzi fossero legati a scarsità, colli di bottiglia, tensioni sui mercati dell’energia e dei beni alimentari. I prezzi hanno iniziato a impennarsi nel 2021 con la ripresa successiva alla pandemia e sono in seguito stati alimentati anche dalla crisi energetica e dall’invasione dell’Ucraina. La fiammata dei prezzi di energia e beni alimentari è durata poco più un anno, dalla metà del 2021 fino alla fine dell’estate del 2022, ma si è lentamente diffusa nell’economia. L’energia, infatti, è un input essenziale di produzione nei processi industriali e per molti servizi, che hanno quasi tutti visto i loro prezzi aumentare. Il biennio 2021-2022, in aggiunta, ha riportato in auge il termine stagflazione, la coesistenza di un’economia in stagnazione e prezzi che aumentano. È certamente vero che, qualunque sia la natura della fiammata inflazionistica, le banche centrali possono riportare l’inflazione sotto controllo: contraendo l’offerta di moneta e aumentando i tassi di interesse possono, infatti, rendere più difficile e costoso per imprese e famiglie prendere in prestito per investimenti o consumi, più oneroso pagare i debiti, e più redditizio risparmiare. Tutto ciò riduce la domanda aggregata portando a una diminuzione del livello dei prezzi e a un aumento della disoccupazione. Vi sono pochi dubbi sull’efficacia di una restrizione monetaria nel far fronte all’inflazione. Quello su cui oggi infuria la discussione è se, nella contingenza attuale, questa sia davvero la migliore opzione, il mezzo meno costoso, per riportare i prezzi sotto controllo; o se si possa invece fare ricorso ad altri strumenti senza infliggere all’economia un rallentamento o una recessione. Per rispondere a questa domanda è fondamentale, tuttavia, comprendere la natura dell’inflazione e i suoi comportamenti nel tempo in base alle diverse coordinate storico-economiche.

INDICE

Ringraziamenti
Introduzione
Capitolo 1
Che cos’è l’inflazione?
1.1. Inflazione da domanda e inflazione da costi
1.2. Non conta da dove vieni, ma dove vai: le aspettative e la spirale prezzi – salari
1.3. La domanda da un milione di dollari: perché l’inflazione è un costo?
Capitolo 2
Siamo tutti schiavi di un economista defunto
2.1. La moneta conta: la critica keynesiana alla teoria neoclassica
2.2. Dopo di lui nulla come prima. Friedman e la storia monetaria dell’economia
Capitolo 3
Dalla conquista dell’inflazione alla fine della storia. “L’eroe” Paul Volcker
3.1. Il peggior banchiere centrale della storia: i turbolenti anni Settanta
3.2. Spezzare le reni all’inflazione
3.3. “Maestro”: la grande moderazione e il trionfo dei banchieri centrali
Capitolo 4
Quasi mai un fenomeno monetario: non una ma mille inflazioni
4.1. Alla radice dell’inflazione: individui e settori
4.2. Il vero costo dell’inflazione. Una tassa sui poveri
4.3. Gli anni Settanta sotto una luce differente
Capitolo 5
La Grande Moderazione e i semi del disastro
5.1. Banche centrali virtuose o cambiamenti strutturali?
5.2. Fu vera gloria? Gli squilibri sotto al tappeto
5.3. Un cambio di paradigma
Capitolo 6
La Grande Instabilità: da Lehman alla stagnazione secolare
6.1. La fine della bolla: i maestri impotenti
6.2. La nuova stagnazione secolare: lo spettro della deflazione permanente
6.3. Poi venne il Covid. Lockdown e politiche economiche
Capitolo 7
Il ritorno dell’inflazione. L’economia mondiale sballottata tra pandemia, guerra, energia
7.1. Catene del valore in pezzi
7.2. La crisi nella crisi: guerra, energia, grano
Capitolo 8
2023: il monetarismo è vivo e lotta contro di noi
8.1. La sconfitta di Friedman… nell’accademia
8.2. Il banchiere centrale di Pavlov. Il fantasma di Paul Volcker
Capitolo 9
Spegnere una candela con l’idrante
9.1. No, non sono gli anni Settanta
9.2. I costi della restrizione monetaria
Capitolo 10
E se lasciassimo Christine Lagarde seduta al posto del passeggero?
10.1. Colli di bottiglia, politica industriale e investimento
10.2. L’inflazione come conflitto: lo Stato non può essere neutrale
Capitolo 11
Il mondo di domani
11.1. Inflazione e cambiamenti strutturali
11.2. Combattere la disuguaglianza per aumentare la resilienza
11.3. Il futuro: inflazione o stagnazione secolare?
Capitolo 12
Epilogo: il ritorno del policy mix
12.1. Le lezioni della crisi
12.2. Europa: un’architettura istituzionale da ripensare
12.3. Abbandonare la chimera dell’equilibrio

Sintesi dell’A. su Sinistrainrete

Francesco Saraceno: Le lezioni dell’inflazione per la politica economica (sinistrainrete.info)

TESTO

Le lezioni dell’inflazione per la politica economica
di Francesco Saraceno
Francesco Saraceno mette in discussione il luogo comune secondo cui l’inflazione può e deve essere contrastata solo con la politica monetaria e sostiene che, soprattutto quando l’inflazione ha radici in squilibri dal lato dell’offerta, come è accaduto con (e dopo) il Covid e con la guerra in Ucraina, bisogna andare “oltre le banche centrali”, come recita il titolo del suo ultimo libro. Ciò che occorre, in questi casi, è un insieme ben disegnato di strumenti di politica economica, tra loro coordinati

Dopo la crisi finanziaria globale, quella del credito sovrano e la pandemia, quest’epoca turbolenta ci ha portato in dote l’inflazione dell’ultimo biennio, un fenomeno che le generazioni nate dopo il 1970 non avevano mai sperimentato; anzi, gli anni Duemila Dieci sono stati caratterizzati da una difficile lotta delle banche centrali contro la tendenza deflazionistica dell’economia.

Un’inflazione strutturale. L’inflazione ha iniziato ad aumentare nell’estate del 2021. Dopo i lockdown si è assistito a una ripresa robusta di consumi e investimenti mentre in molti settori l’offerta, disarticolata dalla pandemia, stentava a ripartire.

A complicare le cose, la composizione settoriale della domanda è stata fortemente alterata (a oggi non è chiaro in che misura questa ricomposizione sia permanente). Alcuni settori si sono dunque trovati a sperimentare eccessi di domanda e altri eccessi di offerta. L’aumento dei prezzi dell’energia è poi stato amplificato da fattori geopolitici, in primis l’invasione dell’Ucraina.

L’episodio inflazionistico recente è un fenomeno multiforme, insomma, causato da una combinazione di trasformazioni nella struttura dell’economia, shock economici e geopolitici; è un’inflazione insidiosa, quindi, e difficile da afferrare. Forse anche per questo la discussione su come affrontarla ha girato al largo dalle cause strutturali per aderire ad un’interpretazione molto più semplice e in qualche modo rassicurante: richiamando una vecchia massima del monetarista premio Nobel Milton Friedman, commentatori ed economisti hanno affermato che l’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario. Ma se l’inflazione è esclusivamente “troppa moneta a caccia di troppi pochi beni”, ne consegue che essa non può che essere affrontata dalla politica monetaria, che deve riuscire a drenare la liquidità in eccesso. Non è questa la sede per affrontare in dettaglio le ragioni e i limiti di questa narrazione (lo faccio in Oltre le banche centrali, appena uscito per Luiss University Press). Qui basti dire che, coerentemente con l’interpretazione monetarista, dopo una encomiabile iniziale prudenza, le banche centrali si sono lanciate nella primavera del 2022 in una corsa alla restrizione che da noi in Europa ha portato i tassi di interesse ai massimi storici.

Il ritorno di un paradigma malconcio. La virata delle banche centrali (e di molti commentatori ed economisti) è in qualche modo sorprendente. La crisi finanziaria globale del 2007-2008 ha infatti mostrato i limiti della visione, di cui l’enfasi sul carattere monetario dell’inflazione è uno degli elementi chiave, per cui i mercati sono il motore della convergenza verso l’equilibrio detto “naturale” e per cui lo strumento principale della politica economica sono le riforme strutturali volte a eliminare gli ostacoli al funzionamento dei mercati stessi. Dopo la crisi, economisti e decisori politici hanno iniziato a interrogarsi sulla solidità delle fondamenta teoriche del consenso. Dopo oltre trent’anni di enfasi sulla supremazia dei mercati nel garantire l’allocazione delle risorse, la crescita e l’innovazione, si è avviato un dibattito a tutto campo sulla necessità di rivalutare il ruolo della mano pubblica nel regolare il ciclo economico, nel regolamentare i mercati e nel correggerne le inefficienze. Il dibattito non risparmia nessun dogma del consenso, dalla politica industriale alla distribuzione del reddito, dalla tassazione al ruolo e alla natura delle riforme “strutturali”.

Gli ultimi tre lustri hanno insomma segnato il “Ritorno dello Stato”, in particolare delle politiche di bilancio. Questo ritorno si articola in tre fasi: all’inizio, in reazione alla crisi finanziaria, politiche di stabilizzazione keynesiane. Poi l’attenzione si sposta sulla necessità di rinnovare uno stock di capitale deteriorato dopo tre decenni di investimenti pubblici sottotono. Infine, con la pandemia emerge in modo lampante l’insufficienza di beni pubblici globali (sanità e istruzione ad esempio) per i quali non si può contare sui soli mercati. È quindi in qualche modo sorprendente la rapidità con cui questo dibattito è stato messo da parte per tornare, in Europa come negli Stati Uniti, a predicare da un lato la restrizione monetaria per combattere l’inflazione; dall’altro, la riduzione del debito pubblico che, come nel consenso precedente al 2007, è visto come un ostacolo all’operare di mercati supposti efficienti.

E se non fosse la politica monetaria lo strumento adatto a combattere l’inflazione? Nell’autunno scorso l’inflazione ha iniziato a calare, spingendo alcuni a esultare e a lodare le banche centrali finalmente rinsavite. In realtà il calo dell’inflazione è stato esclusivamente dovuto al venir meno dei fattori strutturali: i colli di bottiglia si sono riassorbiti, i prezzi dell’energia sono calati, le catene del valore si sono riorganizzate. La politica monetaria non ha giocato alcun ruolo. La letteratura empirica è infatti concorde nello stimare i ritardi di trasmissione (il tempo che deve trascorrere perché variazioni dei tassi inizino a farsi sentire su inflazione e crescita) in 12-18 mesi almeno. Detto altrimenti, le politiche monetarie restrittive iniziano a mordere solo ora. Non è un caso che le previsioni di crescita per molte economie avanzate siano nelle settimane scorse state riviste al ribasso.

Chi difende la stretta monetaria argomenta che, indipendentemente dalla natura dell’inflazione e dai ritardi di trasmissione, lasciar correre i prezzi può innescare aspettative di inflazione futura e una spirale prezzi-salari. Questo argomento non ha molto fondamento: infatti, non siamo negli anni Settanta, e i salari non si adeguano rapidamente all’inflazione. Inoltre, i mercati, mostrando di essere molto più lungimiranti di molti economisti, non hanno mai pensato che l’inflazione potesse persistere una volta venuti meno i fattori contingenti che l’avevano causata; anche quando si era ai massimi, nell’autunno 2022, le aspettative di inflazione a medio termine non sono aumentate significativamente.

Ben più robusto è il secondo argomento in favore della restrizione: l’aumento dei tassi raffredda la domanda e quindi riporta comunque l’inflazione sotto controllo, indipendentemente dalla sua natura. Questo è certamente vero. Ora che l’aumento dei tassi inizia a mordere si vede l’impatto negativo sulla domanda che, inevitabilmente, eserciterà una pressione al ribasso sui prezzi. Tuttavia, il rischio (la quasi certezza, in realtà) è che il costo della restrizione monetaria in termini di crescita si riveli eccessivo. È come se si usasse una clava per schiacciare un moscerino. Certo, l’insetto finirebbe male, ma sicuramente verrebbe rovinata anche la parete su cui era poggiato. Molti commentatori, come è logico, si concentrano sui rischi di recessione dei prossimi mesi. Pochi sottolineano i costi, ben maggiori, che rischiano di materializzarsi nel lungo periodo.

Non danneggiare l’investimento nella congiuntura attuale. L’aumento dei tassi, infatti, riduce l’investimento che non è solo domanda corrente di beni e servizi, ma anche costruzione della capacità produttiva futura. Minori investimenti oggi, insomma, significano minore accumulazione e minore capacità di produrre domani.

Dopo la crisi del 2008 l’investimento è rimasto stagnante per più di un decennio, per ripartire con vigore solo dopo la pandemia. È fondamentale che questo rimbalzo non sia soffocato, perché per ricostituire uno stock di capitale (pubblico e privato) eroso da anni di insufficiente accumulazione serve un lungo periodo di investimenti sostenuti. Inoltre, se si considerano i bisogni legati alla transizione ecologica, non ci si potrà limitare a ricostituire lo stock di capitale passato. Non solo perché le nuove tecnologie hanno un’alta intensità di capitale; ma anche perché molte delle energie rinnovabili hanno altissimi costi di installazione e bassi costi di funzionamento, per cui i bisogni di finanziamento saranno particolarmente elevati nel breve-medio periodo.

Infine, un investimento insufficiente potrebbe ostacolare la ricomposizione settoriale della produzione. Il cambiamento delle abitudini di consumo causato dalla pandemia e i cambiamenti strutturali legati alle transizioni ecologica e digitale, necessitano un’importante riallocazione del capitale tra settori. Il capitale non è fungibile e la riallocazione implicherà distruzione di capacità produttiva in alcuni settori e costruzione in altri. Per favorire questa ricomposizione, dunque, saranno necessari investimenti importanti.

Nel 2013 l’economista di Harvard Dani Rodrik criticò la scelta di imporre alla Grecia riforme e austerità simultaneamente: in condizioni normali, sosteneva Rodrik, le riforme rendono più facile la distruzione di risorse in settori meno produttivi e la creazione in settori ad alto valore aggiunto. In un contesto di crescita stagnante la domanda per i settori più dinamici potrebbe non essere sufficiente ad indurre le imprese a investire, per cui le risorse distrutte nei settori meno produttivi potrebbero non essere ricreate altrove e gli effetti positivi delle riforme sulla produttività potrebbero non materializzarsi. In questo frangente siamo in un caso analogo: comprimendo la domanda globale in un momento in cui per motivi contingenti (la riorganizzazione post pandemica) e strutturali (la transizione ecologica) il bisogno per l’economia di riallocazioni settoriali è particolarmente acuto, le banche centrali rischiano di ostacolare le trasformazioni strutturali necessarie per una crescita robusta e sostenibile.

Meno inflazione oggi per più inflazione domani? Non si tratta di considerazioni astratte. Due economisti della Federal Reserve di San Francisco hanno recentemente studiato decine di episodi di restrizione monetaria nei paesi avanzati, trovando un impatto negativo e significativo sulla crescita potenziale ancora dieci anni dopo l’aumento dei tassi. Un effetto, peraltro, non simmetrico: la restrizione danneggia la crescita potenziale ma politiche espansive non la stimolano. Un altro lavoro, presentato al simposio annuale dei banchieri centrali di Jackson Hole nell’agosto scorso, mostra che l’aumento dei tassi riduce la domanda aggregata, e la profittabilità degli investimenti; per questa via, questo influenza negativamente la spesa per Ricerca e Sviluppo, l’investimento in venture capital, e quindi la crescita potenziale

Insomma, una restrizione monetaria eccessiva rischia non soltanto di rallentare la crescita nel breve periodo, ma anche di comprimere la capacità produttiva nel lungo periodo e di ostacolare la riorganizzazione settoriale, perpetuando i colli di bottiglia. Inoltre, ostacolando la transizione verso le rinnovabili, l’aumento dei tassi rischia di tenere alti i prezzi a causa del mancato abbandono delle energie fossili. È insomma reale il rischio che la lotta all’inflazione di oggi sia pagata con un’inflazione più elevata domani.

Sfide multiformi richiedono una pluralità di strumenti. Cosa andrebbe fatto, allora? Come notato sopra, il tasso di inflazione aggregato nasconde molteplici situazioni di eccesso di domanda e di offerta a livello settoriale che hanno radici diverse e richiedono misure di contrasto diverse. Parafrasando Milton Friedman si potrebbe affermare che ‘l’inflazione non è quasi mai un fenomeno monetario’. Alla clava della politica monetaria, che con i tassi di interesse impatta tutti i settori allo stesso modo, si dovrebbe preferire il fioretto della politica di bilancio che può operare in maniera più mirata (e non necessariamente aumentando il deficit): controlli di prezzo temporanei nei settori meno concorrenziali e in cui ci sono rendite di posizione, incentivi dove i colli di bottiglia sono dovuti a capacità produttiva insufficiente, politiche attive del lavoro quando il problema è l’offerta di manodopera, sostegno ai redditi per coloro più colpiti dall’inflazione, e via di seguito.

La lezione di questi ultimi quindici anni sembra insomma evidente. Per fronteggiare problemi multiformi e con cause diverse si deve abbandonare il vecchio principio per cui a ogni obiettivo deve associare uno strumento e optare invece per un policy mix più complesso ma più efficace.

RECENSIONE di Cesare Alemanni

RECENSIONE di Cesare Alemanni TESTO

CESARE ALEMANNI 27.10.2023
Oltre le banche centrali di Francesco Saraceno
Cesare Alemanni è scrittore ed editor. Si interessa di sistemi globali e dell’interazione tra tecnologia, economia e geopolitica. Su questi temi cura una newsletter che si chiama Macro (macroo.substack.com). Nel 2023 ha pubblicato La signora delle merci (LUISS University Press), un libro sulla storia della logistica e il suo ruolo nei meccanismi della globalizzazione.
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L’ideologia può nascondersi anche dentro strumenti all’apparenza puramente tecnici? La risposta è ovviamente sì, ce lo insegna la Storia. Nel caso l’avessimo però dimenticata, Oltre le banche centrali. Inflazione, disuguaglianza e politiche economiche di Francesco Saraceno è qui per ricordarcela.

Il primo aspetto di cui il libro si occupa è uno degli argomenti più sentiti degli ultimi anni: l’inflazione. Il secondo, altrettanto importante ma meno vicino al sentimento delle persone “comuni”, sono gli strumenti per combatterla, l’inflazione. Perché, si domanda Saraceno, la lotta all’inflazione si è trasformata in una faccenda quasi dogmatica che, come vediamo in questi anni, coinvolge una sola categoria di attori (le banche centrali) e una sola categoria di strumenti (le politiche monetarie e l’intervento sui tassi)? E quali sono le possibili alternative al dogma?

La prima parte del lavoro di Saraceno è dedicata a ricostruire come siamo arrivati a questo punto. Le tappe sono note. La crisi energetica e la stagflazione degli anni Settanta, che fanno precipitare il consenso intorno alla teoria keynesiana – l’ortodossia dominante nei primi decenni del dopoguerra occidentale – e aprono spiragli di visibilità e agibilità politica per vecchie nuove idee. In quello spazio si infila un economista americano che insegna a Chicago. Si chiama Milton Friedman e sostiene che “l’inflazione sia sempre e soltanto un fenomeno monetario”. Ovvero è sempre e solo il riflesso di una situazione in cui “una quantità maggiore di moneta va a caccia di una quantità costante beni”. E dato che aumentare il numero dei beni, cioè la produttività, si può rivelare difficile – e di sicuro si stava rivelando quasi impossibile negli anni Settanta dello shock petrolifero – la cosa da fare, secondo Friedman, è ridurre la quantità di moneta in circolazione. Come? Tramite un rialzo dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali. Per chi non fosse avvezzo alla questione, quando una banca centrale alza i tassi d’interesse, il costo di prendere denaro in prestito cresce, generando una contrazione del credito che, a tutti gli effetti, causa una riduzione della moneta in circolazione, riportando equilibrio nel rapporto tra domanda e offerta.

Come racconta Saraceno, l’idea che l’inflazione sia sempre e solo un problema di quantità di moneta non era nulla di nuovo già negli anni Settanta. Di fatto le primi intuizioni “monetariste” si possono far risalire al ‘600. Tuttavia, a partire dagli anni Trenta, questa idea era divenuta largamente minoritaria e al suo posto dominava una teoria diametralmente opposta. E ovvero che il modo per mantenere un’economia in salute passasse del sostegno, da parte della finanza pubblica, all’occupazione e alla domanda private. In un contesto di espansione economica come il dopoguerra, ciò coincise con decenni di denaro a “buon mercato”, ampio ricorso alla spesa e bassi tassi d’interesse. Tuttavia, come detto, quando negli anni Settanta il giocattolo si ruppe, economisti come Friedman ebbero buon gioco nell’indicare le politiche monetarie troppo generose tra le principali responsabili del dissesto.

Perché la lotta all’inflazione si è trasformata in una faccenda che coinvolge solo le banche centrali?
Le idee di Friedman sulla crisi e le su soluzioni non attecchirono subito ma quando lo fecero, lo fecero con grandi conseguenze. Nel 1979, quando l’inflazione americana è ormai in cronica doppia cifra da anni, ai vertici della FED siede un banchiere di nome Paul Volcker. Nel corso di quell’anno, Volcker decide una serie di rialzi dei tassi d’interesse come mai si era vista nella storia. Il risultato è che, infine, l’inflazione viene domata. L’effetto collaterale del “Volcker shock”, tuttavia, è la recessione. Milioni di persone perdono il lavoro e interi settori entrano in crisi. Una specie di tabula rasa che porta all’emergere di un nuovo mondo in cui, come ricorda Saraceno: “la preferenza delle banche centrali per la stabilità dell’inflazione si è spinta fino a sacrificare l’occupazione”.

I decenni successivi al “Volcker shock” sono in effetti caratterizzati da una calma piatta sul fronte dei prezzi. Tanto che si parla in proposito di un periodo di “grande moderazione”, in cui più che l’inflazione si teme semmai la deflazione. All’incirca negli stessi anni, a corollario naturale della dottrina Friedman, si afferma l’idea che il mercato sia un meccanismo autonomo in grado di allocare risorse e capitali meglio di qualunque decisore politico o pubblico. La grande moderazione dei prezzi contribuisce a una lunga stagnazione dei profitti e a rendere meno allettante l’investimento nell’economia reale e così, anche grazie a una serie di liberalizzazioni del settore nel corso degli anni Novanta, i grandi capitali cominciano a inseguire i margini ben più interessanti che promettono i mercati finanziari.

In quegli anni alcuni economisti mettono in guardia dai rischi della cosiddetta “finanziarizzazione” dell’economia e chiedono ai banchieri centrali di intervenire sui tassi per arrestare il gonfiarsi di bolle sempre più evidenti e pericolose. Tuttavia una delle ricette di Friedman, ormai cristallizzatasi in dogma, suggeriva che le banche centrali dovessero astenersi il più possibile dal condizionamento del mercato, specie se per agenda politica. Non dovevano dettare il ritmo all’economia, ma seguirlo e correggerlo solo in caso di evidenti deviazioni dei prezzi dalla norma. In altre parole dovevano mantenere un atteggiamento di “benign neglect”, come da celebre mantra del potente Alan Greenspan della FED. Il quale, come ricorda Saraceno, “amava ripetere che far scoppia la bolla fosse troppo costoso […] e che il meglio che le banche centrali potevano fare era essere pronte ‘ad asciugare passando lo straccio’ dopo che essa era scoppiata naturalmente”.

E così, tra anni Novanta e Duemila, il mondo, come sappiamo, è punteggiato da una serie di crisi finanziarie con epicentro l’economia americana. Crisi che, come noto, raggiungono un punto critico con il fallimento di Lehman nel 2007 e da lì a cascata con l’esplodere della bolla delle bolle, quella dei subprime. Da quel momento in poi, il mito del “benign neglect” e la “regola Freidman” rivelano tutti i loro limiti e le banche centrali tornano, prima in America e poi con in ritardo in Europa, pro-attive protagoniste, “inondando i mercati di liquidità e facilitando l’accesso al credito”. Diffondendosi a livello globale, il collasso motiva ampie politiche di espansione monetaria, incluso il celebre “whatever it takes” di Draghi, “banchiere superstar” per antonomasia.

La grande moderazione dei prezzi contribuisce a rendere meno allettante l’investimento nell’economia reale, così i grandi capitali cominciano a inseguire i mercati finanziari.
Di crisi in crisi, Saraceno rimbalza fino a quella in corso. Una crisi cominciata con il COVID, proseguita con la guerra in Ucraina e le sue conseguenze sul costo dell’energia e da lì sull’inflazione, che è ritornata così a proiettare la sua lunga ombra sull’emisfero occidentale dopo quasi quarant’anni. Considerato il discredito del monetarismo nel post-2008, ci si aspetterebbe, ci dice Saraceno, che di fronte all’attuale inflazione si sia andati “oltre le banche centrali”, oltre l’idea che l’unica cura possibile all’inflazione sia la restrizione monetaria e l’intervento massiccio sui tassi. E invece, non appena è ricomparsa l’inflazione: “il ritorno sulla scena di Friedman è stato spettacolare […] l’idea per cui questa è essenzialmente un fenomeno monetario è riapparsa prepotentemente, nonostante tutto sembrasse indicare che gli aumenti dei prezzi fossero legati a scarsità, colli di bottiglia, tensioni sui mercati dell’energia e dei beni alimentari”

La ragione per cui Friedman e la sua eredità sono così duri a morire, è molto semplice: l’efficacia dell’aumento dei tassi d’interesse nel contenimento dell’inflazione è indubbia e indiscutibile. Alla lunga la riduzione della moneta circolante riesce – è matematico – a contenere l’aumento dei prezzi. Ma a quale… prezzo?

Come abbiamo visto il credo monetarista emerge in seguito alla crisi degli anni Settanta che, come detto, aveva cause complesse e multi-sistemiche – lo shock energetico, l’instabilità geopolitica, le grandi contrattazioni dell’epoca. Complessità su cui la soluzione monetarista passò come una falciatrice, fornendo sì una soluzione, ma una soluzione che faceva di tutta l’erba un fascio, senza distinguere tra problemi che emergevano dal lato dell’offerta e altri che riguardavano invece quello della domanda. Il tutto, peraltro, causando, come detto, una grave recessione destinata a cambiare per sempre la relazione tra economia e società, con il tramonto dell’assunto che ampia occupazione ed equa ridistribuzione fossero il fine ultimo del sistema socio-economico.

Qualcosa di simile, secondo Saraceno, sta accadendo anche oggi. Di fronte a un’inflazione che ha chiaramente un’origine complessa e multi-sfaccettata (il covid, la guerra, i sostegni all’economia pandemica, la ricomposizione settoriale, il frazionamento geopolitica), l’unica risposta che finora siamo stati in grado di elaborare è il rialzo dei tassi. Una risposta che, scrive Saraceno, equivale a “spegnere una candela con un’idrante”.

Il credo monetarista causò una grave recessione destinata a cambiare per sempre la relazione tra economia e società.

Sarà efficace? Sconfiggerà l’inflazione? È (quasi) certo. Risolverà, o anche solo interverrà, sui problemi strutturali e sistemici che l’hanno causata? No e anzi, probabilmente, ne creerà altri. E, proprio questo, secondo Saraceno, è il problema e la ragione del suo invito ad andare “oltre le banche centrali”. Non solo perché l’affidarsi soltanto alle banche centrali ha effetti collaterali deleteri ma perché affidarsi soltanto alle banche centrali significa togliere dalle spalle della politica e dello Stato una responsabilità che invece dovrebbe essere anche delle politica e dello Stato. Perché l’inflazione, così come gli strumenti monetari che usiamo per combatterla, è una malattia con sintomi e conseguenze in primis sociali: impoverimento, concentrazione della ricchezza verso i ceti più alti e così via. Pensare che la sua risoluzione debba essere lasciata alla tecnocrazia delle banche centrali è sicuramente conveniente per chi governa nei periodi d’inflazione ma è il riflesso di un’ignavia politica che i problemi del presente e del futuro semplicemente non consentono più.

Se la pars destruens del libro di Saraceno è senz’altro efficace e ben argomentata, un po’ meno convincente appare la pars costruens, ovvero la proposta di soluzioni alternative – come per esempio l’invito alla concertazione che lo stesso autore ritiene improbabile e al ritorno a un’idea di “policy mix”, ovvero a un mix di diverse politiche economiche e industriali, mirate a individuare e a combattere le singole cause dell’inflazione una alla volta. E tuttavia, in quanto autore di un libro su logistica e supply chain, mi viene da obiettare che le tubature da cui passa l’economia globale sono talmente numerose e intricate che risalire, con precisione, ai punti in cui si sono guastate si rivela spesso una fatica di Sisifo. Tanto da far credere che la vera ragione per la predilezione della politica monetaria sia in realtà molto semplice, e in un certo senso deprimente: è l’unica che ci consente la complessità raggiunta dal sistema economico (o la nostra capacità di comprenderlo).

Se sia davvero l’unica o meno, lo capiremo magari anche attraverso l’esperienza di questa crisi. Ma aldilà degli strumenti che eventualmente potrebbero sostituire o affiancare l’intervento delle banche centrali – e che potrebbero cambiare o meno l’idea di onnipotenza che gli abbiamo attribuito; l’auspicio è che a cambiare sia la rigidità, spesso dogmatica, con cui in questi decenni la politica economica ha concepito il funzionamento del mercato e il suo optimum.

Affidarsi soltanto alle banche centrali significa togliere dalle spalle della politica e dello Stato una responsabilità che invece dovrebbe essere anche loro.
Ovvero, per lasciare l’ultima parola a Saraceno: “La politica economica dovrà perseguire una crescita stabile ed equilibrata, assicurandosi di non sacrificare la resilienza sull’altare di una crescita fine a se stessa e in fin dei conti fragile”.

Saraceno: le lezioni dell’inflazione

Francesco Saraceno: Le lezioni dell’inflazione per la politica economica (sinistrainrete.info)

Recensione su Menabò N. 202/2023

Menabò n. 202/2023 – Etica ed Economia

Le lezioni dell’inflazione per la politica economica
di Francesco Saraceno
Francesco Saraceno mette in discussione il luogo comune secondo cui l’inflazione può e deve essere contrastata solo con la politica monetaria e sostiene che, soprattutto quando l’inflazione ha radici in squilibri dal lato dell’offerta, come è accaduto con (e dopo) il Covid e con la guerra in Ucraina, bisogna andare “oltre le banche centrali”, come recita il titolo del suo ultimo libro. Ciò che occorre, in questi casi, è un insieme ben disegnato di strumenti di politica economica, tra loro coordinati

Dopo la crisi finanziaria globale, quella del credito sovrano e la pandemia, quest’epoca turbolenta ci ha portato in dote l’inflazione dell’ultimo biennio, un fenomeno che le generazioni nate dopo il 1970 non avevano mai sperimentato; anzi, gli anni Duemila Dieci sono stati caratterizzati da una difficile lotta delle banche centrali contro la tendenza deflazionistica dell’economia.

Un’inflazione strutturale. L’inflazione ha iniziato ad aumentare nell’estate del 2021. Dopo i lockdown si è assistito a una ripresa robusta di consumi e investimenti mentre in molti settori l’offerta, disarticolata dalla pandemia, stentava a ripartire.

A complicare le cose, la composizione settoriale della domanda è stata fortemente alterata (a oggi non è chiaro in che misura questa ricomposizione sia permanente). Alcuni settori si sono dunque trovati a sperimentare eccessi di domanda e altri eccessi di offerta. L’aumento dei prezzi dell’energia è poi stato amplificato da fattori geopolitici, in primis l’invasione dell’Ucraina.

L’episodio inflazionistico recente è un fenomeno multiforme, insomma, causato da una combinazione di trasformazioni nella struttura dell’economia, shock economici e geopolitici; è un’inflazione insidiosa, quindi, e difficile da afferrare. Forse anche per questo la discussione su come affrontarla ha girato al largo dalle cause strutturali per aderire ad un’interpretazione molto più semplice e in qualche modo rassicurante: richiamando una vecchia massima del monetarista premio Nobel Milton Friedman, commentatori ed economisti hanno affermato che l’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario. Ma se l’inflazione è esclusivamente “troppa moneta a caccia di troppi pochi beni”, ne consegue che essa non può che essere affrontata dalla politica monetaria, che deve riuscire a drenare la liquidità in eccesso. Non è questa la sede per affrontare in dettaglio le ragioni e i limiti di questa narrazione (lo faccio in Oltre le banche centrali, appena uscito per Luiss University Press). Qui basti dire che, coerentemente con l’interpretazione monetarista, dopo una encomiabile iniziale prudenza, le banche centrali si sono lanciate nella primavera del 2022 in una corsa alla restrizione che da noi in Europa ha portato i tassi di interesse ai massimi storici.

Il ritorno di un paradigma malconcio. La virata delle banche centrali (e di molti commentatori ed economisti) è in qualche modo sorprendente. La crisi finanziaria globale del 2007-2008 ha infatti mostrato i limiti della visione, di cui l’enfasi sul carattere monetario dell’inflazione è uno degli elementi chiave, per cui i mercati sono il motore della convergenza verso l’equilibrio detto “naturale” e per cui lo strumento principale della politica economica sono le riforme strutturali volte a eliminare gli ostacoli al funzionamento dei mercati stessi. Dopo la crisi, economisti e decisori politici hanno iniziato a interrogarsi sulla solidità delle fondamenta teoriche del consenso. Dopo oltre trent’anni di enfasi sulla supremazia dei mercati nel garantire l’allocazione delle risorse, la crescita e l’innovazione, si è avviato un dibattito a tutto campo sulla necessità di rivalutare il ruolo della mano pubblica nel regolare il ciclo economico, nel regolamentare i mercati e nel correggerne le inefficienze. Il dibattito non risparmia nessun dogma del consenso, dalla politica industriale alla distribuzione del reddito, dalla tassazione al ruolo e alla natura delle riforme “strutturali”.

Gli ultimi tre lustri hanno insomma segnato il “Ritorno dello Stato”, in particolare delle politiche di bilancio. Questo ritorno si articola in tre fasi: all’inizio, in reazione alla crisi finanziaria, politiche di stabilizzazione keynesiane. Poi l’attenzione si sposta sulla necessità di rinnovare uno stock di capitale deteriorato dopo tre decenni di investimenti pubblici sottotono. Infine, con la pandemia emerge in modo lampante l’insufficienza di beni pubblici globali (sanità e istruzione ad esempio) per i quali non si può contare sui soli mercati. È quindi in qualche modo sorprendente la rapidità con cui questo dibattito è stato messo da parte per tornare, in Europa come negli Stati Uniti, a predicare da un lato la restrizione monetaria per combattere l’inflazione; dall’altro, la riduzione del debito pubblico che, come nel consenso precedente al 2007, è visto come un ostacolo all’operare di mercati supposti efficienti.

E se non fosse la politica monetaria lo strumento adatto a combattere l’inflazione? Nell’autunno scorso l’inflazione ha iniziato a calare, spingendo alcuni a esultare e a lodare le banche centrali finalmente rinsavite. In realtà il calo dell’inflazione è stato esclusivamente dovuto al venir meno dei fattori strutturali: i colli di bottiglia si sono riassorbiti, i prezzi dell’energia sono calati, le catene del valore si sono riorganizzate. La politica monetaria non ha giocato alcun ruolo. La letteratura empirica è infatti concorde nello stimare i ritardi di trasmissione (il tempo che deve trascorrere perché variazioni dei tassi inizino a farsi sentire su inflazione e crescita) in 12-18 mesi almeno. Detto altrimenti, le politiche monetarie restrittive iniziano a mordere solo ora. Non è un caso che le previsioni di crescita per molte economie avanzate siano nelle settimane scorse state riviste al ribasso.

Chi difende la stretta monetaria argomenta che, indipendentemente dalla natura dell’inflazione e dai ritardi di trasmissione, lasciar correre i prezzi può innescare aspettative di inflazione futura e una spirale prezzi-salari. Questo argomento non ha molto fondamento: infatti, non siamo negli anni Settanta, e i salari non si adeguano rapidamente all’inflazione. Inoltre, i mercati, mostrando di essere molto più lungimiranti di molti economisti, non hanno mai pensato che l’inflazione potesse persistere una volta venuti meno i fattori contingenti che l’avevano causata; anche quando si era ai massimi, nell’autunno 2022, le aspettative di inflazione a medio termine non sono aumentate significativamente.

Ben più robusto è il secondo argomento in favore della restrizione: l’aumento dei tassi raffredda la domanda e quindi riporta comunque l’inflazione sotto controllo, indipendentemente dalla sua natura. Questo è certamente vero. Ora che l’aumento dei tassi inizia a mordere si vede l’impatto negativo sulla domanda che, inevitabilmente, eserciterà una pressione al ribasso sui prezzi. Tuttavia, il rischio (la quasi certezza, in realtà) è che il costo della restrizione monetaria in termini di crescita si riveli eccessivo. È come se si usasse una clava per schiacciare un moscerino. Certo, l’insetto finirebbe male, ma sicuramente verrebbe rovinata anche la parete su cui era poggiato. Molti commentatori, come è logico, si concentrano sui rischi di recessione dei prossimi mesi. Pochi sottolineano i costi, ben maggiori, che rischiano di materializzarsi nel lungo periodo.

Non danneggiare l’investimento nella congiuntura attuale. L’aumento dei tassi, infatti, riduce l’investimento che non è solo domanda corrente di beni e servizi, ma anche costruzione della capacità produttiva futura. Minori investimenti oggi, insomma, significano minore accumulazione e minore capacità di produrre domani.

Dopo la crisi del 2008 l’investimento è rimasto stagnante per più di un decennio, per ripartire con vigore solo dopo la pandemia. È fondamentale che questo rimbalzo non sia soffocato, perché per ricostituire uno stock di capitale (pubblico e privato) eroso da anni di insufficiente accumulazione serve un lungo periodo di investimenti sostenuti. Inoltre, se si considerano i bisogni legati alla transizione ecologica, non ci si potrà limitare a ricostituire lo stock di capitale passato. Non solo perché le nuove tecnologie hanno un’alta intensità di capitale; ma anche perché molte delle energie rinnovabili hanno altissimi costi di installazione e bassi costi di funzionamento, per cui i bisogni di finanziamento saranno particolarmente elevati nel breve-medio periodo.

Infine, un investimento insufficiente potrebbe ostacolare la ricomposizione settoriale della produzione. Il cambiamento delle abitudini di consumo causato dalla pandemia e i cambiamenti strutturali legati alle transizioni ecologica e digitale, necessitano un’importante riallocazione del capitale tra settori. Il capitale non è fungibile e la riallocazione implicherà distruzione di capacità produttiva in alcuni settori e costruzione in altri. Per favorire questa ricomposizione, dunque, saranno necessari investimenti importanti.

Nel 2013 l’economista di Harvard Dani Rodrik criticò la scelta di imporre alla Grecia riforme e austerità simultaneamente: in condizioni normali, sosteneva Rodrik, le riforme rendono più facile la distruzione di risorse in settori meno produttivi e la creazione in settori ad alto valore aggiunto. In un contesto di crescita stagnante la domanda per i settori più dinamici potrebbe non essere sufficiente ad indurre le imprese a investire, per cui le risorse distrutte nei settori meno produttivi potrebbero non essere ricreate altrove e gli effetti positivi delle riforme sulla produttività potrebbero non materializzarsi. In questo frangente siamo in un caso analogo: comprimendo la domanda globale in un momento in cui per motivi contingenti (la riorganizzazione post pandemica) e strutturali (la transizione ecologica) il bisogno per l’economia di riallocazioni settoriali è particolarmente acuto, le banche centrali rischiano di ostacolare le trasformazioni strutturali necessarie per una crescita robusta e sostenibile.

Meno inflazione oggi per più inflazione domani? Non si tratta di considerazioni astratte. Due economisti della Federal Reserve di San Francisco hanno recentemente studiato decine di episodi di restrizione monetaria nei paesi avanzati, trovando un impatto negativo e significativo sulla crescita potenziale ancora dieci anni dopo l’aumento dei tassi. Un effetto, peraltro, non simmetrico: la restrizione danneggia la crescita potenziale ma politiche espansive non la stimolano. Un altro lavoro, presentato al simposio annuale dei banchieri centrali di Jackson Hole nell’agosto scorso, mostra che l’aumento dei tassi riduce la domanda aggregata, e la profittabilità degli investimenti; per questa via, questo influenza negativamente la spesa per Ricerca e Sviluppo, l’investimento in venture capital, e quindi la crescita potenziale

Insomma, una restrizione monetaria eccessiva rischia non soltanto di rallentare la crescita nel breve periodo, ma anche di comprimere la capacità produttiva nel lungo periodo e di ostacolare la riorganizzazione settoriale, perpetuando i colli di bottiglia. Inoltre, ostacolando la transizione verso le rinnovabili, l’aumento dei tassi rischia di tenere alti i prezzi a causa del mancato abbandono delle energie fossili. È insomma reale il rischio che la lotta all’inflazione di oggi sia pagata con un’inflazione più elevata domani.

Sfide multiformi richiedono una pluralità di strumenti. Cosa andrebbe fatto, allora? Come notato sopra, il tasso di inflazione aggregato nasconde molteplici situazioni di eccesso di domanda e di offerta a livello settoriale che hanno radici diverse e richiedono misure di contrasto diverse. Parafrasando Milton Friedman si potrebbe affermare che ‘l’inflazione non è quasi mai un fenomeno monetario’. Alla clava della politica monetaria, che con i tassi di interesse impatta tutti i settori allo stesso modo, si dovrebbe preferire il fioretto della politica di bilancio che può operare in maniera più mirata (e non necessariamente aumentando il deficit): controlli di prezzo temporanei nei settori meno concorrenziali e in cui ci sono rendite di posizione, incentivi dove i colli di bottiglia sono dovuti a capacità produttiva insufficiente, politiche attive del lavoro quando il problema è l’offerta di manodopera, sostegno ai redditi per coloro più colpiti dall’inflazione, e via di seguito.

La lezione di questi ultimi quindici anni sembra insomma evidente. Per fronteggiare problemi multiformi e con cause diverse si deve abbandonare il vecchio principio per cui a ogni obiettivo deve associare uno strumento e optare invece per un policy mix più complesso ma più efficace.

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