La dialettica delle dipendenze / R.M. Marini recensito da M.Bertucci

Traduzione di
To re-create Marxism, but not repeat Marx (The Dialectics of Dependency reviewed in Journal of European Economic History)
https://monthlyreview.org/press/to-re-create-marxism-but-not-repeat-marx-the-dialectics-of-dependency-reviewed-in-journal-of-european-economic-history/

Ricreare il marxismo, ma non ripetere Marx (The Dialectics of Dependency recensito nel Journal of European Economic History)

La dialettica della dipendenza di Ruy Mauro Marini
a cura
di Amanda Latimer e Jaime Osorio
$ 26 / 228 pagine / 978-1-58367-9821

Recensito da Marco Bertuccio per il Journale di storia economica europea

Per quanto possa sembrare strano, il vincitore dell’ultima edizione (2022) del prestigioso “Paul A. Baran-Paul M. Sweezy Memorial Award” assegnato da Monthly Review Press è un testo pubblicato ben 50 anni fa. Stiamo parlando di uno dei “testi sacri” della cosiddetta “teoria della dipendenza” marxista, ovvero la Dialéctica de la Dependencia del brasiliano Ruy Mauro Marini (1932-1997). Ma l’apparente stravaganza è in realtà facilmente risolvibile. Il testo, pubblicato in spagnolo nel 1973, non era infatti mai stato tradotto in inglese. La risoluzione del primo paradosso, però, sembra averne aperto un altro: com’è possibile che uno dei testi più importanti sulla teoria delle dipendenze non sia mai stato tradotto nella lingua internazionale per eccellenza? A differenza della prima, questa seconda domanda non ha una risposta univoca.

Da un lato, lo stesso Marini non avrebbe mai immaginato Dialéctica de la Dependencia come l’opera classica che sarebbe poi diventata. Frutto di appunti del 1966, fu solo nel 1971 che il saggio cominciò a prendere forma, durante un seminario intitolato “Teoria marxista e realtà latinoamericana” CESO (Centro di Studi Socio-Economici) presso l’Università del Cile. L’idea di Marini era piuttosto quella di introdurre una discussione su come applicare le categorie e i principi contenuti nell’opera di Marx (in primis, ovviamente, nel Capitale) alla realtà dell’America Latina. D’altra parte, la vita travagliata di Marini ha reso difficile una sua più ampia diffusione. Gli appunti del saggio andarono perduti l’11 settembre 1973, durante un raid militare contro Marini a Santiago del Cile, proprio il giorno del golpe che portò Pinochet al potere e Allende alla morte. Una prima bozza del testo era tuttavia uscita, come documento di lavoro, nel marzo 1972 sulla rivista Sociedad y Desarrollo. Fu proprio contro questa edizione che fu scagliata la critica di Fernando Henrique Cardoso, la cui potenza, prima intellettuale e poi politica, e la forte notorietà di cui godeva in Brasile portarono a una vera e propria damnatio memoriae contro il saggio di Marini nel suo paese. Non da ultimo, Dialéctica è stato letteralmente messo in ombra da un’altra opera molto più nota di Marini.

Quel Subdesarrollo y Revolución che ha dato origine all’importante concetto di “subimperialismo”, che ha messo in luce la grande responsabilità della borghesia brasiliana compradora3 nel cristallizzare il rapporto di dipendenza che legava il Brasile agli Stati Uniti, in una sorta di “realismo periferico” ante litteram. L’attuale saggio di Marini è perfettamente contestualizzato da Jaime Osorio e Amanda Latimer, i cui contributi fondamentali arricchiscono notevolmente il testo, fungendo da “vademecum” indispensabile per la lettura e la comprensione dell’opera di Marini. Il testo si apre infatti con un prologo di Jaime Osorio, fondamentale per comprendere la visione della storia latinoamericana vista dal punto di vista dei teorici della dipendenza. Infatti, la storia del subcontinente viene rapidamente ripercorsa attraverso il filtro degli squilibrati rapporti Nord-Sud, all’interno di quel mercato-mondo storicamente caratterizzato da un interscambio diseguale che ha segnato, e sembra tuttora definire, questi rapporti. Il prologo è seguito da un’ottima biografia di Marini curata da Amanda Latimer, che ne riassume la formazione umana, politica e intellettuale. Dai suoi rapporti con il Partito Comunista Brasiliano, a quelli con altri padri della teoria della dipendenza come Theotonio dos Santos, André Gunder Frank e Vania Bambirra. Dall’esilio forzato al ritorno in Brasile nel 1984, passando per il già citato scontro intellettuale e ideologico con Cardoso. Questa biografia è in realtà una vera e propria contestualizzazione di Marini, la cui assenza renderebbe il saggio dell’autore mutilato per il lettore del XXI secolo.

Dopo la contestualizzazione di Latimer inizia il saggio vero e proprio di Marini, che poco nasconde la criticità della scrittura. Il testo, infatti, inizia con un’accusa frontale alle due deviazioni commesse dagli studiosi marxisti della dipendenza in America Latina: la prima consistente nel “sostituire il fatto concreto al concetto astratto”; la seconda, che comporta un’adulterazione del «concetto in nome di una realtà che non vuole accettarne la pura formulazione» (p. 114). Mentre la storia economica è stata responsabile della prima deviazione (i cosiddetti studi marxisti ortodossi, p. 114), la sociologia ha commesso la seconda.

Entrambe le deviazioni hanno avuto origine dalla difficoltà intrinseca di analizzare il contesto latinoamericano e il suo “capitalismo sui generis che ha senso solo se lo esaminiamo dalla prospettiva del sistema nel suo complesso, sia a livello nazionale che, principalmente, internazionale” (p. 114). Né la storia economica né la sociologia erano dunque riuscite a comprendere che la vera ortodossia da rispettare risiedeva piuttosto nel rigore concettuale e metodologico, mentre «ogni limitazione al processo di indagine che ne deriva non ha più nulla a che fare con l’ortodossia, ma solo con il dogmatismo» (p. 115). Quello che Marini si propone di fare, allora, è costruire un ponte per superare entrambi, coniugando coerenza logica, rigore metodologico e realtà storica, senza forzare nessuno dei tre elementi.

Per Marini, l’America Latina si è storicamente definita a partire dalla sua inclusione nella divisione internazionale del lavoro plasmata dai paesi centrali dell’Occidente, e quindi si è sviluppata “in stretta consonanza con le dinamiche del capitale internazionale” (p. 116). Questo rapporto Nord-Sud è stato delineato fin dall’inizio sulla base di un rapporto di dipendenza, definito come “un rapporto di subordinazione tra nazioni formalmente indipendenti, nel quadro del quale i rapporti di produzione delle nazioni subordinate sono modificati o ricreati per assicurare la riproduzione ampliata della dipendenza” (p. 117). Questo rapporto di dipendenza ha la sua origine in uno scambio ineguale per cui i paesi dipendenti forniscono ai paesi centrali beni ad un valore inferiore al loro valore reale, mentre viceversa questi ultimi vendono i loro ad un valore sopravvalutato. Del resto, per Marini “il semplice fatto che alcuni producano beni che gli altri non producono, o non possono produrre facilmente, permette ai primi di eludere la legge del valore; cioè vendere il loro prodotto a prezzi superiori al loro valore, dando così luogo a uno scambio diseguale” (p. 128). Così il ruolo dell’America Latina nel mercato mondiale stava “spostando l’asse dell’accumulazione nell’economia industriale dalla produzione di plusvalore assoluto a quella di plusvalore relativo; cioè, che l’accumulazione finirà per dipendere più dall’aumento della capacità produttiva del lavoro che semplicemente dallo sfruttamento del lavoratore” (p. 120). Al contrario, “lo sviluppo della produzione latinoamericana, che permette alla regione di contribuire a questo cambiamento qualitativo nei paesi centrali, si baserà fondamentalmente sull’accresciuto sfruttamento del lavoratore” (p. 121). Questa dinamica si è forgiata intorno al concetto di super-sfruttamento, che per Marini consiste nel ridurre il consumo dell’operaio oltre il suo limite normale in modo da trasformare, e qui Marini cita direttamente dal Libro I del Capitale, «il fondo necessario per il consumo dell’operaio, entro certi limiti, in un fondo per l’accumulazione del capitale» (p. 130). Il movimento reale del capitalismo dipendente emerge allora “dalla circolazione alla produzione; dal collegamento con il mercato mondiale all’impatto che questo ha avuto sull’organizzazione interna del lavoro; e poi tornare a riconsiderare il problema della circolazione” (p. 136). Dato dunque che lo sviluppo latinoamericano è nato per “soddisfare le esigenze della circolazione capitalistica – il cui asse di articolazione è costituito dai paesi industrializzati – e si è concentrato sul mercato mondiale”, la produzione latinoamericana “non dipende dalla capacità di consumo interno per la sua realizzazione” (p. 137). Marini insiste molto sulla separazione, nei paesi dipendenti, tra circolazione e produzione, che costringe la prima a prendere forma nella sfera del mercato esterno con la conseguenza che «il consumo individuale dell’operaio non interferisce con la realizzazione del prodotto, sebbene determini il saggio del plusvalore» (p. 139). Nemmeno l’industrializzazione della regione, conseguenza diretta della crisi dell’economia capitalistica internazionale, sarebbe in grado di spezzare questa dinamica.

Questo perché “l’industrializzazione dell’America Latina non crea quindi una propria domanda, come nelle economie classiche, ma nasce per soddisfare una domanda preesistente, e si struttura in base alle esigenze del mercato provenienti dai paesi avanzati” (p.145). Del resto, «tra le economie centrali nasce un interesse a promuovere il processo di industrializzazione della periferia, con l’obiettivo di creare mercati per l’industria pesante» (p. 148). Ciò che Marini sembra voler sottolineare è che la diffusione della tecnologia in America Latina è stata più il risultato di una concessione esogena degli “stadi inferiori della produzione industriale” (p. 149), piuttosto che uno sviluppo endogeno, riecheggiando esplicitamente le tesi di Mandel. L’introduzione della tecnologia dipende quindi non tanto dalle preferenze dei singoli Paesi, quanto dalle “dinamiche oggettive dell’accumulazione del capitale su scala mondiale. Fu quest’ultima che spinse la divisione internazionale del lavoro ad assumere una configurazione che apriva nuovi canali per la diffusione del progresso tecnico, e che accelerò il ritmo di questa diffusione” (p. 150). Restringere il mercato interno diventa inevitabile per Marini acquisire tecnologia in condizioni di super-sfruttamento dei lavoratori: “l’economia industriale dipendente – incapace di estendere la creazione della domanda di beni di lusso ai lavoratori, e predisposta alla compressione dei salari che li esclude di fatto da questo tipo di consumo – non solo doveva contare su un immenso esercito di riserva, ma fu anche costretta a limitare la realizzazione di beni di lusso ai capitalisti e alle classi medio-alte” (p. 152). In conclusione, «la produzione basata sul supersfruttamento del lavoro rigenera così il modo di circolazione che le corrisponde, nello stesso tempo separa l’apparato produttivo dai bisogni di consumo delle masse», comportando una vera e propria «resurrezione del vecchio modello economico di esportazione» (p. 152).

Fu un testo che fece molto discutere negli ambienti marxisti latinoamericani, come mostra lo stesso poscritto di Marini al saggio, una risposta diretta alle critiche rivoltegli soprattutto dal suo connazionale Cardoso. Alla fine del poscritto, Marini sottolinea ancora una volta il concetto centrale della sua opera, e cioè che «l’economia dipendente – e quindi il super-sfruttamento del lavoro – appare come una condizione necessaria del capitalismo mondiale» (p. 160) e che quindi «la produzione capitalistica, sviluppando le forze produttive del lavoro, non elimina ma anzi accentua il maggiore sfruttamento del lavoratore» (p. 162). Breve ma intenso, il saggio di Marini è quindi completato sia dalla sua post-scrittura che dalle note finali di Jaime Osorio, che riesce perfettamente nel suo sforzo di “tradurre” il testo per renderlo perfettamente fruibile per il lettore del XXI secolo. In effetti, la sua analisi del testo di Marini rende quest’ultimo molto più chiaro, soprattutto nei suoi punti cruciali, evidenziandone la profonda attualità. Il lettore si trova infatti di fronte ad un testo complesso da analizzare senza una conoscenza degli strumenti di base utilizzati da Marx e senza quella dei concetti principali espressi dalla teoria della dipendenza. Ma la contestualizzazione di Osorio e Latimer aiuta molto la comprensione del testo, quasi eliminando la necessità di conoscenze preliminari. L’importanza del testo di Marini è, infine, perfettamente riassunta in poche righe di Osorio: “bisognava ricreare il marxismo, ma non ripetere Marx […] Questo è ciò che il libro di Marini, Dialéctica de la dependencia, offre alla teoria e al marxismo. Oggi più che mai è necessario ricreare e non ripetere, e questa è la più grande eredità che La dialettica della dipendenza consegna al lettore degli anni 21.

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La dialettica della dipendenza: Ruy Mauro Marini

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