MR 2014/9 Il ritorno del fascismo nel capitalismo contemporaneo by Samir Amin

Una riflessione di Samir Amin sul rapporto tra la crisi attuale del capitalismo, la relativa erosione dei livelli di democrazia e l’insorgere di un rinnovato fronte fasciata.
Scritta nel 2014 per la Montley Review mantiene tutta la sua attualità.

di Samir Amin

(01 settembre 2014)

Argomenti: Fascismo Filosofia Economia politica Luoghi: Ucraina globale

Samir Amin è direttore del Terzo Forum Mondiale di Dakar, in Senegal. I suoi libri pubblicati da Monthly Review Press includono The Liberal Virus, The World We Wish to See, The Law of Worldwide Value e, più recentemente, The Implosion of Contemporary Capitalism. Questo articolo è stato tradotto dal francese da James Membrez.

Non a caso il titolo stesso di questo contributo collega il ritorno del fascismo sulla scena politica con la crisi del capitalismo contemporaneo. Il fascismo non è sinonimo di un regime poliziesco autoritario che rifiuta le incertezze della democrazia elettorale parlamentare. Il fascismo è una particolare risposta politica alle sfide che la gestione della società capitalista può trovarsi ad affrontare in circostanze specifiche.

Unità e diversità del fascismo

I movimenti politici che possono essere giustamente definiti fascisti erano in prima linea ed esercitarono il potere in un certo numero di paesi europei, in particolare durante gli anni ’30 fino al 1945. Tra questi, l’italiano Benito Mussolini, il tedesco Adolf Hitler, lo spagnolo Francisco Franco, il portoghese António de Oliveira Salazar, il francese Philippe Pétain, l’ungherese Miklós Horthy, il rumeno Ion Antonescu e il croato Ante Pavelic. La diversità delle società che sono state vittime del fascismo – sia le grandi società capitaliste sviluppate che le società capitaliste minori dominate, alcune legate a una guerra vittoriosa, altre il prodotto di una sconfitta – dovrebbe impedirci di fare di tutta l’erba un fascio. Specificherò quindi i diversi effetti che questa diversità di strutture e di congiunture ha prodotto in queste società.

Eppure, al di là di questa diversità, tutti questi regimi fascisti avevano due caratteristiche in comune:

(1) Date le circostanze, erano tutti disposti a gestire il governo e la società in modo tale da non mettere in discussione i principi fondamentali del capitalismo, in particolare la proprietà capitalistica privata, compresa quella del moderno capitalismo monopolistico. Ecco perché chiamo queste diverse forme di fascismo modi particolari di gestire il capitalismo e non forme politiche che mettono in discussione la legittimità di quest’ultimo, anche se il “capitalismo” o le “plutocrazie” fossero soggetti a lunghe diatribe nella retorica dei discorsi fascisti. La menzogna che nasconde la vera natura di questi discorsi appare non appena si esamina l'”alternativa” proposta da queste varie forme di fascismo, che tacciono sempre sul punto principale: la proprietà privata capitalistica. Resta il fatto che la scelta fascista non è l’unica risposta alle sfide che la gestione politica di una società capitalista deve affrontare. E’ solo in certe congiunture di crisi violenta e profonda che la soluzione fascista appare la migliore per il capitale dominante, o talvolta addirittura l’unica possibile. L’analisi deve, quindi, concentrarsi su queste crisi.

(2) La scelta fascista per la gestione di una società capitalistica in crisi si basa sempre, anzi per definizione, sul rifiuto categorico della “democrazia”. Il fascismo sostituisce sempre i principi generali su cui si basano le teorie e le pratiche delle democrazie moderne – il riconoscimento della diversità delle opinioni, il ricorso alle procedure elettorali per determinare la maggioranza, la garanzia dei diritti della minoranza, ecc. – con i valori opposti della sottomissione alle esigenze della disciplina collettiva e dell’autorità del leader supremo e dei suoi principali agenti. Questo capovolgimento di valori è poi sempre accompagnato da un ritorno di idee retrospettive, che sono in grado di fornire un’apparente legittimità alle procedure di sottomissione che vengono messe in atto. La proclamazione della presunta necessità di tornare al passato (“medievale”), di sottomettersi alla religione di Stato o a qualche presunta caratteristica della “razza” o della “nazione” (etnica) costituisce la panoplia dei discorsi ideologici dispiegati dalle potenze fasciste.

Le diverse forme di fascismo che si trovano nella storia europea moderna condividono queste due caratteristiche e rientrano in una delle seguenti quattro categorie:

(1) Il fascismo delle maggiori potenze capitaliste “sviluppate” che aspiravano a diventare potenze egemoniche dominanti nel mondo, o almeno nel sistema capitalista regionale.

Il nazismo è il modello di questo tipo di fascismo. La Germania divenne una grande potenza industriale a partire dagli anni ’70 dell’Ottocento e un concorrente delle potenze egemoniche dell’epoca (Gran Bretagna e, secondariamente, Francia) e del paese che aspirava a diventare egemone (gli Stati Uniti). Dopo la sconfitta del 1918, dovette affrontare le conseguenze del suo fallimento nel realizzare le sue aspirazioni egemoniche. Hitler formulò chiaramente il suo piano: stabilire sull’Europa, compresa la Russia e forse oltre, il dominio egemonico della “Germania”, cioè il capitalismo dei monopoli che avevano sostenuto l’ascesa del nazismo. Era disposto ad accettare un compromesso con i suoi principali oppositori: l’Europa e la Russia sarebbero state date a lui, la Cina al Giappone, il resto dell’Asia e dell’Africa alla Gran Bretagna e le Americhe agli Stati Uniti. Il suo errore è stato quello di pensare che un tale compromesso fosse possibile: la Gran Bretagna e gli Stati Uniti non lo hanno accettato, mentre il Giappone, al contrario, lo ha sostenuto.

Il fascismo giapponese appartiene alla stessa categoria. Fin dal 1895, il moderno Giappone capitalista aspirava a imporre il suo dominio su tutta l’Asia orientale. Qui la scivolata è stata fatta “morbidamente” dalla forma “imperiale” di gestione di un capitalismo nazionale in ascesa – basato su istituzioni apparentemente “liberali” (una Dieta eletta), ma in realtà completamente controllata dall’Imperatore e dall’aristocrazia trasformata dalla modernizzazione – a una forma brutale, gestita direttamente dall’Alto Comando militare. La Germania nazista strinse un’alleanza con il Giappone imperiale/fascista, mentre la Gran Bretagna e gli Stati Uniti (dopo Pearl Harbor, nel 1941) si scontrarono con Tokyo, così come la resistenza in Cina: le carenze del Kuomintang furono compensate dal sostegno dei comunisti maoisti.

(2) Il fascismo delle potenze capitaliste di secondo piano.

L’italiano Mussolini (l’inventore del fascismo, compreso il suo nome) ne è l’esempio lampante. Il mussolinismo fu la risposta della destra italiana (la vecchia aristocrazia, la nuova borghesia, le classi medie) alla crisi degli anni ’20 e alla crescente minaccia comunista. Ma né il capitalismo italiano né il suo strumento politico, il fascismo di Mussolini, avevano l’ambizione di dominare l’Europa, figuriamoci il mondo. Nonostante tutte le vanterie del Duce sulla ricostruzione dell’Impero Romano (!), Mussolini capì che la stabilità del suo sistema si basava sulla sua alleanza, come subalterno, con la Gran Bretagna (padrona del Mediterraneo) o con la Germania nazista. L’esitazione tra le due possibili alleanze continuò fino alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Il fascismo di Salazar e Franco appartiene a questo stesso tipo. Erano entrambi dittatori insediati dalla destra e dalla Chiesa cattolica in risposta ai pericoli dei liberali repubblicani o dei repubblicani socialisti. I due non sono mai stati, per questo motivo, ostracizzati per la loro violenza antidemocratica (con il pretesto dell’anticomunismo) dalle maggiori potenze imperialiste. Washington li ha riabilitati dopo il 1945 (Salazar è stato un membro fondatore della NATO e la Spagna ha acconsentito alle basi militari statunitensi), seguita dalla Comunità Europea, garante per natura dell’ordine capitalista reazionario. Dopo la Rivoluzione dei Garofani (1974) e la morte di Franco (1980), questi due sistemi si sono uniti al campo delle nuove “democrazie” a bassa intensità della nostra epoca.

(3) Il fascismo delle potenze sconfitte.

Questi includono il governo francese di Vichy, così come il belga Léon Degrelle e lo pseudo-governo “fiammingo” sostenuto dai nazisti. In Francia, l’alta borghesia scelse “Hitler piuttosto che il Fronte Popolare” (vedi i libri di Annie Lacroix-Riz su questo argomento). Questo tipo di fascismo, legato alla sconfitta e alla sottomissione all'”Europa tedesca”, fu costretto a ritirarsi in secondo piano dopo la sconfitta dei nazisti. In Francia, lasciò il posto ai Consigli di Resistenza che, per un certo periodo, unirono i comunisti con altri combattenti della Resistenza (Charles de Gaulle in particolare). La sua ulteriore evoluzione dovette attendere (con l’inizio della costruzione europea e l’adesione della Francia al Piano Marshall e alla NATO, cioè la volontaria sottomissione all’egemonia statunitense) perché la destra conservatrice e la destra anticomunista e socialdemocratica rompessero definitivamente con la sinistra radicale che usciva dalla Resistenza antifascista e potenzialmente anticapitalista.

(4) Il fascismo nelle società dipendenti dell’Europa orientale.

Ci spostiamo ancora più in basso di diversi gradi quando esaminiamo le società capitaliste dell’Europa orientale (Polonia, Stati baltici, Romania, Ungheria, Jugoslavia, Grecia e Ucraina occidentale durante l’era polacca). Dovremmo qui parlare di capitalismo arretrato e, di conseguenza, dipendente. Nel periodo tra le due guerre, le classi dirigenti reazionarie di questi paesi sostennero la Germania nazista. E’ tuttavia necessario esaminare caso per caso la loro articolazione politica con il progetto di Hitler.

In Polonia, l’antica ostilità alla dominazione russa (Russia zarista), che divenne ostilità all’Unione Sovietica comunista, incoraggiata dalla popolarità del papato cattolico, avrebbe normalmente fatto di questo paese un vassallo della Germania, sul modello di Vichy. Ma Hitler non la capiva così: i polacchi, come i russi, gli ucraini e i serbi, erano persone destinate allo sterminio, insieme agli ebrei, ai rom e a molti altri. Non c’era, quindi, posto per un fascismo polacco alleato di Berlino.

L’Ungheria di Horthy e la Romania di Antonescu furono, al contrario, trattate come alleati subalterni della Germania nazista. Il fascismo in questi due paesi fu esso stesso il risultato di crisi sociali specifiche di ciascuno di essi: la paura del “comunismo” dopo il periodo di Béla Kun in Ungheria e la mobilitazione nazional-sciovinista contro ungheresi e ruteni in Romania.

In Jugoslavia, la Germania di Hitler (seguita dall’Italia di Mussolini) sosteneva una Croazia “indipendente”, affidata alla gestione degli ustascia antiserbi con l’appoggio decisivo della Chiesa cattolica, mentre i serbi erano destinati allo sterminio.

La rivoluzione russa aveva ovviamente cambiato la situazione per quanto riguarda le prospettive delle lotte della classe operaia e la risposta delle classi possidenti reazionarie, non solo nel territorio dell’Unione Sovietica pre-1939, ma anche nei territori perduti: gli Stati baltici e la Polonia. A seguito del Trattato di Riga del 1921, la Polonia annesse le parti occidentali della Bielorussia (Volinia) e dell’Ucraina (la Galizia meridionale, che in precedenza era una regione della Corona austriaca, e la Galizia settentrionale, che era stata una provincia dell’Impero zarista).

In tutta questa regione, a partire dal 1917 (e anche dal 1905 con la prima rivoluzione russa) presero forma due campi: filo-socialista (che divenne filo-bolscevico), popolare in gran parte dei contadini (che aspiravano a una riforma agraria radicale a loro vantaggio) e nei circoli intellettuali (ebrei in particolare); e antisocialista (e di conseguenza compiacente nei confronti dei governi antidemocratici sotto l’influenza fascista) in tutte le classi di proprietari terrieri. La reintegrazione degli stati baltici, della Bielorussia e dell’Ucraina occidentale nell’Unione Sovietica nel 1939 enfatizzò questo contrasto.

La mappa politica dei conflitti tra “filofascisti” e “antifascisti” in questa parte dell’Europa orientale era offuscata, da un lato, dal conflitto tra lo sciovinismo polacco (che persisteva nel suo progetto di “polonizzare” le regioni bielorusse e ucraine annesse da colonie di coloni) e i popoli vittime; e, dall’altro, dal conflitto tra i “nazionalisti” ucraini, che erano sia anti-polacchi che anti-russi (a causa dell’anticomunismo) e il progetto di Hitler, che non prevedeva alcuno stato ucraino come alleato subalterno, poiché il suo popolo era semplicemente destinato allo sterminio.

Rimando qui il lettore all’autorevole opera di Olha Ostriitchouk Les Ukrainiens face à leur passé1 La rigorosa analisi di Ostriitchouk della storia contemporanea di questa regione (la Galizia austriaca, l’Ucraina polacca, la Piccola Russia, divenuta l’Ucraina sovietica) permetterà al lettore di comprendere le questioni in gioco nei conflitti ancora in corso e il posto occupato dal fascismo locale.

La visione compiacente della destra occidentale sul fascismo passato e presente

La destra nei parlamenti europei tra le due guerre mondiali è sempre stata compiacente nei confronti del fascismo e anche del più ripugnante nazismo. Lo stesso Churchill, nonostante la sua estrema “Britishness”, non nascose mai la sua simpatia per Mussolini. I presidenti degli Stati Uniti, e i partiti democratici e repubblicani dell’establishment, scoprirono solo tardivamente il pericolo rappresentato dalla Germania di Hitler e, soprattutto, dal Giappone imperiale/fascista. Con tutto il cinismo caratteristico dell’establishment statunitense, Truman dichiarò apertamente ciò che gli altri pensavano tranquillamente: lasciare che la guerra logorasse i suoi protagonisti – la Germania, la Russia sovietica e gli europei sconfitti – e intervenire il più tardi possibile per raccoglierne i frutti. Questa non è affatto l’espressione di una posizione di principio antifascista. Nessuna esitazione fu mostrata nella riabilitazione di Salazar e Franco nel 1945. Inoltre, la connivenza con il fascismo europeo era una costante nella politica della Chiesa cattolica. Non sarebbe credibile descrivere Pio XII come un collaboratore di Mussolini e Hitler.

Lo stesso antisemitismo di Hitler suscitò obbrobrio solo molto più tardi, quando raggiunse lo stadio finale della sua follia omicida. L’enfasi sull’odio per il “giudeo-bolscevismo” suscitata dai discorsi di Hitler era comune a molti politici. Fu solo dopo la sconfitta del nazismo che fu necessario condannare in linea di principio l’antisemitismo. Il compito era reso più facile dal fatto che gli autoproclamati eredi del titolo di “vittime della Shoah” erano diventati i sionisti di Israele, alleati dell’imperialismo occidentale contro i palestinesi e il popolo arabo – che, tuttavia, non erano mai stati coinvolti negli orrori dell’antisemitismo europeo!

Ovviamente, il crollo del nazismo e dell’Italia di Mussolini obbligò le forze politiche di destra dell’Europa occidentale (a ovest della “cortina”) a distinguersi da coloro che – all’interno dei loro stessi gruppi – erano stati complici e alleati del fascismo. Eppure, i movimenti fascisti furono costretti a ritirarsi sullo sfondo e a nascondersi dietro le quinte, senza scomparire veramente.

Nella Germania Ovest, in nome della “riconciliazione”, il governo locale e i suoi protettori (gli Stati Uniti, e in secondo luogo la Gran Bretagna e la Francia) lasciarono al loro posto quasi tutti coloro che avevano commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità. In Francia, furono avviati procedimenti giudiziari contro la Resistenza per “esecuzioni abusive per collaborazionismo” quando i vichiisti riapparvero sulla scena politica con Antoine Pinay. In Italia, il fascismo passò in silenzio, ma era ancora presente nelle file della Democrazia Cristiana e della Chiesa Cattolica. In Spagna, il compromesso di “riconciliazione” imposto nel 1980 dalla Comunità Europea (che in seguito divenne l’Unione Europea) vietava puramente e semplicemente qualsiasi richiamo ai crimini franchisti.

L’appoggio dei partiti socialisti e socialdemocratici dell’Europa occidentale e centrale alle campagne anticomuniste intraprese dalla destra conservatrice è corresponsabile del successivo ritorno del fascismo. Questi partiti della sinistra “moderata” erano stati però autenticamente e risolutamente antifascisti. Eppure tutto questo è stato dimenticato. Con la conversione di questi partiti al liberalismo sociale, il loro sostegno incondizionato alla costruzione europea – sistematicamente concepita come garanzia per l’ordine capitalista reazionario – e la loro sottomissione non meno incondizionata all’egemonia statunitense (attraverso la NATO, tra gli altri mezzi), si è consolidato un blocco reazionario che unisce la destra classica e i social-liberali; che potrebbe, se necessario, accogliere la nuova estrema destra.

Successivamente, la riabilitazione del fascismo dell’Europa orientale è stata rapidamente intrapresa a partire dal 1990. Tutti i movimenti fascisti dei paesi interessati erano stati fedeli alleati o collaborazionisti, in varia misura, con l’hitlerismo. Con l’avvicinarsi della sconfitta, un gran numero dei loro leader attivi era stato rischierato in Occidente e poteva, di conseguenza, “arrendersi” alle forze armate statunitensi. Nessuno di loro fu restituito ai governi sovietici, jugoslavi o di altri governi delle nuove democrazie popolari per essere processato per i loro crimini (in violazione degli accordi alleati). Trovarono tutti rifugio negli Stati Uniti e in Canada. E sono stati tutti coccolati dalle autorità per il loro feroce anticomunismo!

In Les Ukrainiens face à leur passé, Ostriitchouk fornisce tutto il necessario per stabilire in modo inconfutabile la collusione tra gli obiettivi della politica statunitense (e dietro di essa dell’Europa) e quelli dei fascisti locali dell’Europa dell’Est (in particolare, l’Ucraina). Ad esempio, il “professore” Dmytro Dontsov, fino alla sua morte (nel 1975), ha pubblicato tutte le sue opere in Canada, che non sono solo violentemente anticomuniste (il termine “giudeo-bolscevismo” è consueto con lui), ma anche fondamentalmente antidemocratiche. I governi dei cosiddetti stati democratici dell’Occidente hanno sostenuto, e persino finanziato e organizzato, la “rivoluzione arancione” (cioè la controrivoluzione fascista) in Ucraina. E tutto questo continua. In precedenza, in Jugoslavia, anche il Canada aveva spianato la strada agli ustascia croati.

Il modo intelligente in cui i media “moderati” (che non possono ammettere apertamente di sostenere fascisti dichiarati) nascondono il loro sostegno a questi fascisti è semplice: sostituiscono il termine “nazionalista” con fascista. Il professor Dontsov non è più un fascista, è un “nazionalista” ucraino, proprio come Marine Le Pen non è più fascista, ma nazionalista (come ha scritto Le Monde, per esempio)!

Questi autentici fascisti sono davvero “nazionalisti”, semplicemente perché lo dicono? Questo è dubbio. I nazionalisti oggi meritano questa etichetta solo se mettono in discussione il potere delle forze realmente dominanti nel mondo contemporaneo, cioè quello dei monopoli degli Stati Uniti e dell’Europa. Questi cosiddetti “nazionalisti” sono amici di Washington, Bruxelles e della NATO. Il loro “nazionalismo” equivale a un odio sciovinista per i vicini, in gran parte innocenti, che non sono mai stati responsabili delle loro disgrazie: per gli ucraini, sono i russi (e non lo zar); per i croati, sono i serbi; per la nuova estrema destra in Francia, Austria, Svizzera, Grecia e altrove, sono gli “immigrati”.

Non va sottovalutato il pericolo rappresentato dalla collusione tra le maggiori forze politiche degli Stati Uniti (repubblicani e democratici) e dell’Europa (la destra parlamentare e i social-liberali), da un lato, e i fascisti dell’Est, dall’altro. Hillary Clinton si è eretta a portavoce principale di questa collusione e spinge l’isteria bellica al limite. Ancor più di George W. Bush, se possibile, invoca una guerra preventiva con una vendetta (e non solo per la ripetizione della Guerra Fredda) contro la Russia – con un intervento ancora più aperto in Ucraina, Georgia e Moldavia, tra gli altri luoghi – contro la Cina e contro i popoli in rivolta in Asia, Africa e America Latina. Sfortunatamente, questa fuga precipitosa degli Stati Uniti in risposta al loro declino potrebbe trovare un sostegno sufficiente per consentire a Hillary Clinton di diventare “la prima donna presidente degli Stati Uniti!” Non dimentichiamo cosa si nasconde dietro questa falsa femminista.

Indubbiamente, il pericolo fascista potrebbe ancora apparire oggi come una minaccia per l’ordine “democratico” negli Stati Uniti e in Europa a ovest della vecchia “cortina”. La collusione tra la destra parlamentare classica e i social-liberali rende superfluo il ricorso del capitale dominante ai servizi di un’estrema destra che segue la scia degli storici movimenti fascisti. Ma allora cosa dovremmo concludere sui successi elettorali dell’estrema destra nell’ultimo decennio? Gli europei sono chiaramente anche vittime della diffusione del capitalismo monopolistico generalizzato. 2 Si capisce perché, allora, di fronte alla collusione tra la destra e la cosiddetta sinistra socialista, si rifugino nell’astensionismo elettorale o nel voto per l’estrema destra. La responsabilità della sinistra potenzialmente radicale è, in questo contesto, enorme: se questa sinistra avesse l’audacia di proporre progressi reali al di là del capitalismo attuale, guadagnerebbe la credibilità che le manca. Una sinistra radicale audace è necessaria per fornire la coerenza che manca ancora agli attuali movimenti di protesta frammentari e alle lotte difensive. Il “movimento” potrebbe, allora, invertire l’equilibrio sociale di potere a favore delle classi lavoratrici e rendere possibili progressi progressivi. I successi ottenuti dai movimenti popolari in Sud America ne sono la prova.

Allo stato attuale delle cose, i successi elettorali dell’estrema destra derivano dallo stesso capitalismo contemporaneo. Questi successi permettono ai media di mettere insieme, con lo stesso obbrobrio, i “populisti dell’estrema destra e quelli dell’estrema sinistra”, oscurando il fatto che i primi sono filo-capitalisti (come dimostra il termine estrema destra) e quindi possibili alleati del capitale, mentre i secondi sono gli unici oppositori potenzialmente pericolosi del sistema di potere del capitale.

Osserviamo, mutatis mutandis, una congiuntura simile negli Stati Uniti, anche se la sua estrema destra non è mai stata definita fascista. Il maccartismo di ieri, proprio come i fanatici e i guerrafondai del Tea Party (ad esempio, Hillary Clinton) di oggi, difendono apertamente le “libertà” – intese come appartenenti esclusivamente ai proprietari e ai gestori del capitale monopolistico – contro “il governo”, sospettato di acconsentire alle richieste delle vittime del sistema.

Un’ultima osservazione sui movimenti fascisti: sembrano incapaci di sapere quando e come smettere di avanzare le loro rivendicazioni. Il culto del leader e dell’obbedienza cieca, la valorizzazione acritica e suprema di costruzioni mitologiche pseudo-etniche o pseudo-religiose che veicolano il fanatismo, e il reclutamento di milizie per azioni violente fanno del fascismo una forza difficile da controllare. Gli errori, anche al di là delle deviazioni irrazionali dal punto di vista degli interessi sociali serviti dai fascisti, sono inevitabili. Hitler era un vero malato di mente, eppure riuscì a costringere i grandi capitalisti che lo avevano messo al potere a seguirlo fino alla fine della sua follia e ottenne anche l’appoggio di una grandissima parte della popolazione. Anche se questo è solo un caso estremo, e Mussolini, Franco, Salazar e Pétain non erano malati di mente, un gran numero di loro associati e scagnozzi non esitarono a perpetrare atti criminali.

Il fascismo nel Sud contemporaneo

L’integrazione dell’America Latina nel capitalismo globalizzato nel XIX secolo si basava sullo sfruttamento dei contadini ridotti allo status di “peones” e sulla loro sottomissione alle pratiche selvagge dei grandi proprietari terrieri. Il sistema di Porfiro Diaz in Messico ne è un buon esempio. L’avanzamento di questa integrazione nel XX secolo ha prodotto la “modernizzazione della povertà”. Il rapido esodo rurale, più pronunciato e precoce in America Latina che in Asia e in Africa, ha portato a nuove forme di povertà nelle favelas urbane contemporanee, che sono venute a sostituire le vecchie forme di povertà rurale. Allo stesso tempo, le forme di controllo politico delle masse sono state “modernizzate” con l’instaurazione di dittature, l’abolizione della democrazia elettorale, la proibizione dei partiti e dei sindacati e il conferimento ai servizi segreti “moderni” di tutti i diritti di arresto e tortura attraverso le loro tecniche di intelligence. Chiaramente, queste forme di gestione politica sono visibilmente simili a quelle del fascismo che si trovano nei paesi del capitalismo dipendente dell’Europa orientale. Le dittature dell’America Latina del XX secolo sono servite al blocco reazionario locale (grandi proprietari terrieri, borghesie compradore e talvolta classi medie che hanno beneficiato di questo tipo di sviluppo lumpen), ma soprattutto hanno servito il capitale straniero dominante, in particolare quello degli Stati Uniti, che, per questo motivo, hanno sostenuto queste dittature fino al loro rovesciamento con la recente esplosione dei movimenti popolari. La forza di questi movimenti e le conquiste sociali e democratiche che essi hanno imposto escludono, almeno a breve termine, il ritorno di dittature parafasciste. Ma il futuro è incerto: il conflitto tra il movimento delle classi lavoratrici e il capitalismo locale e mondiale è solo all’inizio. Come per tutti i tipi di fascismo, le dittature dell’America Latina non hanno evitato errori, alcuni dei quali sono stati fatali per loro. Penso, ad esempio, a Leonardo Fortunato Galtieri, che è andato in guerra per le isole Malvinas per capitalizzare il sentimento nazionale argentino a suo vantaggio.

A partire dagli anni ’80, lo sviluppo lumpen caratteristico della diffusione del capitalismo monopolistico generalizzato ha preso il sopravvento sui sistemi nazional-populisti dell’era Bandung (1955-1980) in Asia e in Africa. 3 Questo sviluppo lumpen produsse anche forme simili sia alla modernizzazione della povertà che alla modernizzazione della violenza repressiva. Gli eccessi dei sistemi post-nasseristi e post-baathisti nel mondo arabo ne sono un buon esempio. Non dovremmo fare di tutta l’erba un fascio i regimi nazional-populisti dell’era Bandung e quelli dei loro successori, che sono saltati sul carro del neoliberismo globalizzato, perché entrambi erano “non democratici”. I regimi di Bandung, nonostante le loro pratiche politiche autocratiche, hanno beneficiato di una certa legittimità popolare sia per le loro effettive conquiste, di cui ha beneficiato la maggioranza dei lavoratori, sia per le loro posizioni antimperialiste. Le dittature che seguirono persero questa legittimità non appena accettarono di sottomettersi al modello neoliberista globalizzato e allo sviluppo lumpen che lo accompagnava. L’autorità popolare e nazionale, anche se non democratica, ha ceduto il passo alla violenza poliziesca in quanto tale, al servizio del progetto neoliberista, antipopolare e antinazionale.

Le recenti rivolte popolari, iniziate nel 2011, hanno messo in discussione le dittature. Ma le dittature sono state solo messe in discussione. Un’alternativa troverà i mezzi per raggiungere la stabilità solo se riuscirà a combinare i tre obiettivi attorno ai quali si sono mobilitate le rivolte: la continuazione della democratizzazione della società e della politica, i progressi sociali progressivi e l’affermazione della sovranità nazionale.

Siamo ancora lontani da questo. Questo è il motivo per cui ci sono molteplici alternative possibili a breve termine. Ci può essere un possibile ritorno al modello nazionalpopolare dell’era Bandung, magari con un pizzico di democrazia? O una cristallizzazione più marcata di un fronte democratico, popolare e nazionale? O un tuffo in un’illusione retrograda che, in questo contesto, assume la forma di una “islamizzazione” della politica e della società?

Nel conflitto su queste tre possibili risposte alla sfida, le potenze occidentali (gli Stati Uniti e i loro alleati subalterni europei) hanno fatto la loro scelta: hanno dato un sostegno preferenziale ai Fratelli Musulmani e/o ad altre organizzazioni “salafite” dell’Islam politico. La ragione di ciò è semplice e ovvia: queste forze politiche reazionarie accettano di esercitare il loro potere all’interno del neoliberismo globalizzato (e quindi di abbandonare ogni prospettiva di giustizia sociale e di indipendenza nazionale). Questo è l’unico obiettivo perseguito dalle potenze imperialiste.

Di conseguenza, il programma dell’Islam politico appartiene al tipo di fascismo che si trova nelle società dipendenti. Di fatto, condivide con tutte le forme di fascismo due caratteristiche fondamentali: (1) l’assenza di una sfida agli aspetti essenziali dell’ordine capitalistico (e in questo contesto ciò equivale a non mettere in discussione il modello di sviluppo sottoproletario connesso alla diffusione del capitalismo neoliberista globalizzato); e (2) la scelta di forme antidemocratiche di gestione politica da stato di polizia (come la proibizione di partiti e organizzazioni e l’islamizzazione forzata della morale).

L’opzione antidemocratica delle potenze imperialiste (che smentisce la retorica pro-democratica che si trova nel diluvio di propaganda a cui siamo sottoposti), accetta dunque i possibili “eccessi” dei regimi islamici in questione. Come altri tipi di fascismo e per le stesse ragioni, questi eccessi sono inscritti nei “geni” dei loro modi di pensare: la sottomissione indiscussa ai capi, la valorizzazione fanatica dell’adesione alla religione di Stato e la formazione di forze d’urto usate per imporre la sottomissione. In realtà, e questo si può già vedere, il programma “islamista” progredisce solo nel contesto di una guerra civile (tra, tra gli altri, sunniti e sciiti) e non sfocia in altro che in un caos permanente. Questo tipo di potere islamista è, quindi, la garanzia che le società in questione rimarranno assolutamente incapaci di affermarsi sulla scena mondiale. E’ chiaro che gli Stati Uniti in declino hanno rinunciato a ottenere qualcosa di meglio – un governo locale stabile e sottomesso – a favore di questo “second best”.

Sviluppi e scelte simili si trovano al di fuori del mondo arabo-musulmano, come l’India indù, per esempio. Il Bharatiya Janata Party (BJP), che ha appena vinto le elezioni in India, è un partito religioso indù reazionario che accetta l’inclusione del suo governo nel neoliberismo globalizzato. E’ la garanzia che l’India, sotto il suo governo, si ritirerà dal suo progetto di essere una potenza emergente. Descriverlo come fascista, quindi, non significa mettere troppo a dura prova la credibilità.

In conclusione, il fascismo è tornato all’Ovest, all’Est e al Sud; E questo ritorno è naturalmente connesso con la diffusione della crisi sistemica del capitalismo monopolistico generalizzato, finanziarizzato e globalizzato. Il ricorso effettivo o anche potenziale ai servizi del movimento fascista da parte dei centri dominanti di questo sistema duramente pressato richiede la massima vigilanza da parte nostra. Questa crisi è destinata ad aggravarsi e, di conseguenza, la minaccia di ricorrere a soluzioni fasciste diventerà un pericolo reale. Il sostegno di Hillary Clinton alla guerrafondaia di Washington non è di buon auspicio per l’immediato futuro.

Note

  1.  Olha Ostriitchouk, Les Ukrainiens face à leur passé [Gli ucraini di fronte al loro passato] (Bruxelles: P.I.E. Lang, 2013).
  2.  Per un’ulteriore elaborazione, si veda Samir Amin, The Implosion of Contemporary Capitalism (New York: Monthly Review Press, 2013).
  3.  Per la diffusione del capitalismo monopolistico generalizzato, si veda ibid.

2014Volume 66, Numero 04 (Settembre)

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