La Cina popolare / D.Bertozzi

Un excursus della storia cinese che passa dagli anni della umiliazione anglo nipponica (1839-1949) alla lotta di liberazione nazionale fino ai giorni nostri quelli della riconquista del ruolo di grande attore a livello mondiale. L’attenzione che Bertozzi pone agli aspetti economici oltre che a quelli politici ed anche ideologici (culturali) e lo sguardo interno/esterno affiancano il lavoro dello storico e rendono il libro un prezioso strumento di studio e di cultura. Particolarmente apprezzabile è il tono equilibrato documentato e scevro da ogni ideologismo.

Il report contiene
Scheda del libro
Scheda editore
Sommario
Prefazione di V.Giacché

Rec, di Augusto Illiminati

Rec. di Marco Ponfrelli

Scheda

Bertozzi, Diego
La Cina popolare : origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi / di Diego Angelo Bertozzi ; Prefazione di Vladimiro Giacché. – [s.l.] : L’AD, 2020. – 416 p. ; 21 cm. – [ISBN] 978-88-94552-64-5.

KW

Scheda editore

Negli ultimi trent’anni la dicotomia tra capitale fittizio e capitale industriale è stata ben rappresentata dal conflitto Usa-Cina.

L’Europa ha creduto che la distruzione del sistema del «salario sociale globale», costruito nel dopoguerra, gli avrebbe permesso di giocare in questo conflitto un ruolo decisivo. La storia recente ha mostrato che questa scelta era sbagliata, e che la Cina, ispirandosi proprio al modello italiano, costruito nella Prima repubblica e abbandonato nel 1992, ha potuto conquistare posizioni a danno proprio degli occidentali. In questo nuovo scenario il Mediterraneo conquista la sua antica centralità nel commercio globale. Nuove vie si aprono per l’Italia, nuove possibilità sono offerte ad una diplomazia, anche economica, che abbia il coraggio di volgere lo sguardo ad Oriente, come nel XIII secolo, quando le repubbliche marinare dominavano il commercio mondiale.

Sommario

Scheda del libro
Prefazione
Anniversari in un mondo che cambia: un’introduzione
Le radici del socialismo cinese: dall’umiliazione alla nuova Cina
Un passo indietro: le tappe della “umiliazione nazionale”
Una rivoluzione “condivisa”
Una repubblica a pezzi va alla guerra
La scelta rivoluzionaria: il Fronte unito e i “Tre principi del popolo”
“La base è la nostra casa”: i primi passi del socialismo con caratteristiche
cinesi
La doppia resistenza: le basi della Nuova democrazia
Finisce la guerra, finisce un’epoca
La Cina in piedi
La transizione al socialismo: Fronte unito, riforme e campagne di massa
Riprendere le periferie…
Alleanza con l’Urss, guerra di Corea e primi segnali di protagonismo internazionale
I nazionalisti a Taiwan. (E se avessero vinto loro?)
La via cinese e la fuga in avanti verso il comunismo
Qual è la contraddizione principale?
Un’altra Onu è possibile: la rottura con l’Urss e la diplomazia “rivoluzionaria”
Cinquant’anni fa: la Rivoluzione culturale
Riforma e apertura: la lunga marcia economica
Il giudizio su Mao. E il ricordo di Mao
Partito più elettrificazione: parte la riforma
Legalità e stato diritto per il socialismo cinese
In politica estera pragmatici, ma non del tutto. Le basi dell’accordo con Mosca e degli attriti nei mari meridionali
Tra riforme e proiezione globale: il nuovo corso del socialismo cinese
La storia di una foto. Un mito da affrontare
Non fare la fine dell’Urss: la riforma e l’apertura come garanzie
Verso quale mondo? Tra integrazione e nuove minacce
Non fare la fine dell’Urss: salvaguardare l’ideologia
Una democrazia, ma non quella occidentale
Cambia anche il partito: da avanguardia del proletariato ad avanguardia
della nazione
Dall’aggiustamento armonioso al sogno cinese: la Cina cambia volto
Confucio all’interno e all’esterno: le radici del “sogno cinese”
Tre riforme e un piano per cambiare volto al Paese
La “convergenza di interessi”: verso una nuova comunità internazionale?
Pechino di fronte al “Pivot to Asia”
Un vicino ingombrante: la Corea del Nord
Basi all’estero, possibili interventi e ipotesi di alleanze: Deng in soffitta?
Taiwan, un quadro complesso
Xi/Mao o Xi/Deng? Probabilmente entrambi
Indicazioni bibliografiche

Prefazione di Vladimiro Giacché

«La storia economica recente della Cina, se la seguiamo facendo ricorso ai principali indicatori economici, è la storia di un successo straordinario, più precisamente la storia del più imponente recupero di un paese in ritardo di sviluppo della storia. Il track record recente della Cina in campo economico è stato definito da Branko Milanovic come “il migliore dell’intera storia dell’umanità”. Qualche indicatore: il prodotto interno lordo (pil) è cresciuto di 123 volte dal 1949. Il pil pro capite, che nel 1949 era pari a 23 dollari, nel 2016 aveva raggiunto i 9.000 dollari. (…) Dal 1978 a oggi in Cina 700 milioni di persone sono usciti dalla povertà».

Riprendo da un mio saggio recente queste righe, 1 perché ritengo che introducano nel modo migliore questo libro di Diego Bertozzi. Qualunque cosa si pensi della Cina, del suo assetto istituzionale ed economico, i fatti sono questi. Sono fatti che non soltanto meritano rispetto, ma che dovrebbero soprattutto indurre ad approfondire la dinamica interna di questa storia di successo. Innanzitutto i suoi fatti, e poi i suoi perché. Non tanto per apprendere i contorni di un ennesimo “modello” da imitare, cosa che non avrebbe senso per molti motivi. Ma per capire cosa sta succedendo di importante nel mondo.

Da questo punto di vista La Cina popolare di Diego Bertozzi è un testo prezioso, direi indispensabile. Per fortuna sono passati gli anni in cui per leggere qualcosa di non banale sulle vicende cinesi si doveva ricorrere a Maonomics di Loretta Napoleoni (un libro di grande interesse con un titolo completamente sbagliato) e a poco altro. Oggi la letteratura sulle vicende cinesi disponibile al lettore italiano annovera diversi buoni titoli. 2 Ma nonostante questo si può affermare con ragionevole certezza che il testo di Diego Bertozzi sia la migliore sintesi oggi disponibile al lettore italiano. Questo per diversi motivi, che proverò a passare in rassegna.

Primo motivo: è un libro che abbraccia l’intero arco temporale che va dalle guerre dell’oppio ad oggi .  Questo  è  importante  perché  conferisce  alle  vicende  narrate  la  necessaria  profondità  storica.  Necessaria  per  più  di  una  ragione.  Necessaria  innanzitutto  perché,  se  inquadrata  in  un  orizzonte  plurisecolare,  anche  la  straordinaria  crescita  della  Cina  degli  ultimi  decenni  può  venire  intesa  per  quello  che  realmente  è:  la  traiettoria  grazie  alla  quale  una  delle  aree  da  millenni  più  civilizzate  del  mondo  si  riprende  il  posto  nell’economia  mondiale  che  occupava  prima  che  il  colonialismo  inglese  la  umiliasse, facendo  regredire  il  suo  contributo  al  prodotto  interno  lordo  mondiale  –  in  meno  di  un  secolo  –  da  oltre  il  30  per  cento  del  totale  a  meno  del  5  per  cento.  La  storia  della  Cina  degli  ultimi  decenni  è  innanzitutto  la  storia  di  questo  straordinario  recupero.   Necessaria,  in  secondo  luogo,  perché  precisamente  le  lontane  vicende  delle  guerre  dell’oppio,  in  cui  la  “diplomazia  delle  cannoniere”  costrinse  la  Cina  ad  aprirsi  al  colonialismo  occidentale,  consentono  di  intendere  il  motivo  dell’estrema  attenzione  che  la  Cina  contemporanea  pone  alla  difesa  delle  proprie  coste  e  della  propria  sovranità  sulle  acque  che  bagnano  il  suo  territorio.  È  decisamente  singolare  –  ma  forse  non  sorprendente  –  che  questa  circostanza  non  sia  mai  rammentata  dai  commentatori  che  chiosano  con  preoccupazione mista  a  biasimo  le  mosse  cinesi  nel  Mar  Cinese  Meridionale.

Secondo motivo. L’estrema chiarezza con cui i passaggi storici importanti delle vicende cinesi, in particolare del XX secolo, sono resi e sintetizzati in poche pagine senza mai perdere di vista gli elementi essenziali . Questo consente tra l’altro all’autore di contestualizzare storicamente anche alcuni degli slogan più famosi del maoismo. Ad esempio, la frase “il potere nasce sulla canna del fucile” – spesso intesa a posteriori in Occidente come una generica apologia della lotta armata – nacque, più concretamente, dalla riflessione sulla sconfitta subita a Shangai nel 1927 dal giovane partito comunista, e dalla terribile repressione che ne seguì. Gli stessi rapporti con l’Unione Sovietica, che si dipanano nei decenni sino a sfociare nella rottura degli Sessanta, nella lettura di Bertozzi sono caratterizzati sin dalla seconda metà degli Trenta dalla capacità della dirigenza cinese raccolta attorno a Mao di interpretare le lezioni dell’Ottobre russo in maniera non dogmatica: è in questi anni che vanno ricercato le lontane radici della “sinizzazione del marxismo” la cui fase più recente, da Deng in poi, è ben resa dall’espressione “socialismo con caratteristiche cinesi”.

Terzo motivo. Ovviamente la parte prevalente del volume è dedicata agli anni dalla fondazione della Repubblica popolare (nel 1949) ad oggi. Questa parte cruciale del volume è completa – non manca nessuno dei passaggi fondamentali di una storia molto ricca e caratterizzata anche da battute d’arresto e brusche svolte – e al tempo stesso caratterizzata da un notevole equilibrio . A differenza delle ricostruzioni agiografiche, si evidenziano con grande chiarezza i gravi errori commessi in più di un’occasione dalla dirigenza cinese, e, a differenza delle ricostruzioni demonizzanti tipiche di molta pubblicistica occidentale, la narrazione non è imperniata sullo pseudo – concetto di “totalitarismo”, che tra gli altri difetti ha quello di impedire di cogliere la complessa dialettica tra centralizzazione e spinte al decentramento, come pure la sussistenza di diverse forme di proprietà anche nel periodo maoista. In questo libro non solo è correttamente colto tutto questo, ma – cosa importantissima – è reso con grande chiarezza il nesso tra evoluzione politica interna e situazione internazionale . È indubbio ad esempio, che l’isolamento internazionale da parte dell’intero campo occidentale determina non soltanto l’evoluzione dei rapporti con l’Urss, ma le stesse accelerazioni di uno sviluppo sostanzialmente autarchico (prima fra tutte la politica riassunta nello slogan del “grande balzo in avanti”) che oggi sono generalmente considerate gravi errori. Ma nella storia dei popoli, come in quella degli individui, ci sono errori, se non necessari in senso stretto, senz’altro forzati dalle circostanze e dalla conseguente limitazione delle scelte possibili. Da questo punto di vista, sia detto per inciso, anche il rimprovero a Mao di non aver attuato le “politiche di riforme e apertura” di Deng e di non aver quindi praticato l’attrazione di investimenti diretti esteri che invece ha caratterizzato la fase successiva al 1978, non ha molto senso: nel mondo della guerra fredda e dell’embargo pressoché assoluto da parte dei paesi occidentali nei confronti della Cina quella politica, anche qualora fosse stata ritenuta desiderabile, era semplicemente impraticabile. Ciò detto, il testo non indulge ad alcuna astratta giustificazione di politiche sbagliate. In particolare il “grande balzo in avanti” prima, e la cosiddetta “rivoluzione culturale” poi, sono giustamente analizzate criticamente e giudicate con severità. Il disastroso ritorno del primo a una sorta di “comunismo di guerra” è analizzato evidenziandone le conseguenze catastrofiche dal punto di vista economico e della vita di decine di milioni di cinesi. Quanto alla seconda, viene rappresentato correttamente lo sfociare dello slogan “bombardare il quartier generale” (altro molto molto popolare in Occidente negli anni Sessanta) in episodi di vera e propria guerra civile e più in generale in una eversione dell’ordine sancito dalla Costituzione del 1954.

Quarto motivo. Al lettore vengono presentate anche vicende della storia e della diplomazia cinese che, un tempo ben note, negli ultimi decenni sono state poco praticate e risulteranno quindi sconosciute o quasi alla maggioranza dei lettori .  Mi  riferisco  al  contributo  fornito  dalla  Cina  allo  sviluppo  del  movimento  dei  “paesi  non  allineati”  e  delle  lotte  anticoloniali  nel  terzo  mondo.  Ma  pagine  molto  chiare  sono  dedicate  anche  alla  battaglia  per  il  riconoscimento  della  Repubblica  Popolare  Cinese  quale  legittimo  rappresentante  della  Cina  all’Onu,  conclusasi  con  successo  nel  1971  (sino  ad  allora  alle  Nazioni  Unite  la  Cina  era  stata  rappresentata  da  Taiwan)  e  al  riavvicinamento  agli  Stati  Uniti  sfociato  nella  famosa  visita  di  Nixon “politiche di riforme e apertura” di Deng e di non aver quindi praticato l’attrazione di investimenti diretti esteri che invece ha caratterizzato la fase successiva al 1978, non ha molto senso: nel mondo della guerra fredda e dell’embargo pressoché assoluto da parte dei paesi occidentali nei confronti della Cina quella politica, anche qualora fosse stata ritenuta desiderabile, era semplicemente impraticabile. Ciò detto, il testo non indulge ad alcuna astratta giustificazione di politiche sbagliate. In particolare il “grande balzo in avanti” prima, e la cosiddetta “rivoluzione culturale” poi, sono giustamente analizzate criticamente e giudicate con severità. Il disastroso ritorno del primo a una sorta di “comunismo di guerra” è analizzato evidenziandone le conseguenze catastrofiche dal punto di vista economico e della vita di decine di milioni di cinesi. Quanto alla seconda, viene rappresentato correttamente lo sfociare dello slogan “bombardare il quartier generale” (altro molto molto popolare in Occidente negli anni Sessanta) in episodi di vera e propria guerra civile e più in generale in una eversione dell’ordine sancito dalla Costituzione del 1954.

Quarto motivo. Al lettore vengono presentate anche vicende della storia e della diplomazia cinese che, un tempo ben note, negli ultimi decenni sono state poco praticate e risulteranno quindi sconosciute o quasi alla maggioranza dei lettori .  Mi  riferisco  al  contributo  fornito  dalla  Cina  allo  sviluppo  del  movimento  dei  “paesi  non  allineati”  e  delle  lotte  anticoloniali  nel  terzo  mondo.  Ma  pagine  molto  chiare  sono  dedicate  anche  alla  battaglia  per  il  riconoscimento  della  Repubblica  Popolare  Cinese  quale  legittimo  rappresentante  della  Cina  all’Onu,  conclusasi  con  successo  nel  1971  (sino  ad  allora  alle  Nazioni  Unite  la  Cina  era  stata  rappresentata  da  Taiwan)  e  al  riavvicinamento  agli  Stati  Uniti  sfociato  nella  famosa  visita  di  Nixon in  Cina  nel  1972. 

Quinto motivo. La svolta di Deng dopo la morte di Mao è spiegata facendo adeguato riferimento alle fonti teoriche cinesi (a cominciare dagli scritti e discorsi dello stesso Deng). Questo è importante, perché la “politica di riforme e apertura” non fu né una escogitazione solitaria di Deng, né una estemporanea “inversione a u” rispetto alle politiche precedenti, ma una politica che si accompagnò a una profonda riflessione teorica. Il libro di Bertozzi stabilisce correttamente un parallelo tra questa svolta e la nuova politica economica introdotta nel 1921 da Lenin per rompere con il comunismo di guerra precedente, ma ovviamente il testo non si ferma a questo. È posto in luce il diverso approccio dei riformatori cinesi nei confronti dell’eredità di Mao rispetto a quello che fu di Krusciov nei confronti di Stalin: nel caso cinese la critica anche aspra non diviene demonizzazione assoluta. Ma è soprattutto messo in rilievo il contributo che alle riforme viene dato dal basso, dal nuovo “sistema di responsabilità” introdotto e generalizzato nelle campagne a partire dalla sperimentazione nata da 18 contadini del villaggio di Xiaogang nel 1978. La politica del PCC consiste da un lato nell’assecondare queste dinamiche economiche spontanee, dall’altro nel fornire loro il quadro giuridico entro cui muoversi: si pensi alla creazione delle zone economiche speciali per attrarre investimenti esteri, o alla dismissione di molte imprese statali (però al tempo stesso mantenendo e anzi rafforzando quelle operanti in settori strategici). Il libro di Bertozzi non sottace le conseguenze sociali indesiderate di queste ultime misure. Al contrario, in questi casi, come in relazione agli sviluppi più recenti, la trattazione è sempre molto equilibrata.

Non è questa la sede per entrare in modo dettagliato nell’esposizione che Bertozzi fa dello sviluppo della “politica di riforme e apertura” nel corso dei decenni. Segnalo però l’importanza delle pagine dedicate a “piano” e “mercato”, da Deng non più contrapposti ma giudicati entrambi strumenti di politica economica, al pari del resto delle forme di proprietà, pur rimanendo la proprietà pubblica centrale anche dal punto di vista della Costituzione. Più di recente Xi Jinping, l’attuale presidente della Repubblica Popolare Cinese, ha detto che la “mano invisibile” del mercato (secondo la nota metafora di Adam Smith) deve accompagnarsi alla “mano visibile” dello Stato, che ha per l’appunto nelle società di proprietà pubblica un suo essenziale braccio esecutivo.

La stessa iniziativa della Nuova Via della Seta ( Belt & Road Initiative ), lanciata nel 2013, a ben vedere rappresenta un buon esempio di mix tra dinamiche di mercato e programmazione di lungo periodo. Anche su questa iniziativa – alla quale Bertozzi ha dedicato una monografia specifica 3  –  il  libro  fornisce  le  indicazioni  essenziali  per  orientarsi.  In  ogni  caso,  anche  a  questo  riguardo,  più  ancora  che  per  le  informazioni  di  cui  è  ricco,  questo libro  spicca  su  altri  lavori  recenti  sulla  Cina  per  l’approccio,  sempre  orientato  a  capire  gli  sviluppi  e  le  dinamiche  di  lungo  periodo  sottesi  agli  eventi  di  cui  si  ha  notizia.   È  questa  la  caratteristica  principale  che  fa  de  La Cina popolare  il  miglior  testo  sulla  Cina  a  disposizione  del  lettore  italiano. 

Vladimiro Giacché

Rec. di Augusto Illuminati

Il Manifesto 20-06-2024
Il caos sistemico e il “buon passato” che non torna

DISORDINE E CONGIUNTURA . Se la Guerra Fredda vera era un regime di equilibrio mascherato da una retorica di scontro mortale, quella attuale presunta è un regime di disordine globale mascherato da armistizio apparente fra le grandi potenze

Augusto Illuminati

Quanto è confortevole leggere il presente in analogia con esperienze note. Piace ai commentatori politici superficiali, che non debbono innovare le griglie. Piace ai vecchi militanti, perché trattiene un senso per il proprio passato, vero o immaginario. Purtroppo nella maggioranza dei casi è fasullo. La storia non si ripete e quando sembra farlo, le differenze sono più significative delle ricorrenze.

È il caso degli attendamenti dei campus americani e poi europei che hanno evocato immagini del ’68 e del Vietnam, mettendo in parallelo due stagioni incomparabili e fornendo un non richiesto supporto genealogico ai giovani di oggi, che sono già incazzati di loro.

Allo stesso modo l’attuale congiuntura di guerra – che condiziona tutta la vita politica in Occidente e determina la militarizzazione dell’economia – viene spesso paragonato alla Guerra Fredda che si protrasse dal 1947 alla fine degli anni 60. Un periodo intervallato da guerre reali limitate, in Corea e Indocina, stermini locali e crisi al limite della rottura, come a Cuba nel 1962. La similitudine, però, non funziona: è anzi sviante.

Nella “buona Guerra Fredda di un tempo” i campi erano nettamente organizzati in blocchi militari responsabili, cioè con uno Stato-guida. Il conflitto era tenuto sempre sotto controllo, ovvero gli oppressori schiacciavano gli oppressi ma non venivano fra loro allo scontro nucleare. Esistevano perfino motivazioni ideologiche nei due campi: una parvenza di liberalismo e un massiccio welfare a Occidente, rispettabili macerie del socialismo a Oriente. E fuori c’era il terzo blocco di Bandung e la nascente stella rossa cinese.

Oggi i campi sono imprevedibili e senza guida: magari è un bene, comunque cambia tutto. La Nato è un coacervo di schegge impazzite su linee discordanti e la sua tradizionale leadership Usa mai come adesso si è dimostrata incapace di controllare l’estremismo degli alleati, in Ucraina e nell’area baltica come a Gaza. Sul fronte opposto l’avventurismo di Putin ha per unico modello l’impero zarista con le sue mai dismesse aspirazioni sull’Europa orientale.

Se la Guerra Fredda vera era un regime di equilibrio mascherato da una retorica di scontro mortale, quella attuale presunta è un regime di disordine globale mascherato da armistizio apparente fra le grandi potenze. All’ordine del giorno non c’è lo scontro di civiltà, ma il caos mondiale, la crisi in permanenza. Questo fa saltare anche lo schieramento progressista, con la sua idea che ci possano essere i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Lo stesso sostegno tecnico a Putin, attivo da parte della Cina e passivo dal Sud globale, è meramente tattico e senza un riferimento ideologico (se non per sprovveduti “campisti”): si apprezza il fatto che tiene impegnati gli storici nemici e sfruttatori.

Oggi perfino le “buone cause” con cui schierarsi sono parte del caos sistemico, che è il vero contenuto della congiuntura di guerra in cui siamo incastrati. Chi non voglia restare prigioniero dell’atlantismo ringhiante e neppure passare al servizio di zar Vladimir o del patriarca Kirill non ha altra scelta se non scommettere sul caos e farsene agente. Nel caos ci si muove con soluzioni aleatorie, montando opzioni geopolitiche realistiche e istanze contraddittorie di liberazione di classe, di genere e nazionali. La scommessa non è ridurre la complessità, ma tradurne alcune parti e combinarle in maniera imprevista.

Il montaggio più complicato è quello in cui entra in gioco il nazionalismo, che crea problemi anche nella sua forma più legittima: il riconoscimento di una identità negata. Perché il nazionalismo innesta comunque la logica escludente di una sovranità in urto con le altre. Soprattutto in aree geografiche che sono un mosaico etnico.

I curdi si sono messi sulla strada del confederalismo, i palestinesi hanno la disgrazia, oltre al feroce colonialismo sionista di insediamento, di vivere in una terra che un dio con tre nomi diversi ha promesso in esclusiva ai rispettivi seguaci. Sono situazioni ancor più complicate di quelle affrontate dai movimenti di liberazione degli anni 60 e 70, che già erano incappati in errori e insuccessi nel processo di nation building immaginariamente laico-socialista. Fallimmo noi e non tutto riuscì bene a loro. Figuriamoci oggi con Hamas e altri fondamentalismi nati sulla scia di quei rovesci. Eppure un immenso movimento sta sviluppandosi dentro questo ordine caotico e starci dentro è l’unica possibilità di fare politica. Forse perfino politica rivoluzionaria.

Rec. di Marco Ponfrelli su Marx21

La Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi. Diego Angelo Bertozzi Pubblicato il 14 Maggio 2021

Il libro di Bertozzi è un contributo importante che, giustamente, Vladimiro Giacché nella prefazione definisce ‘pregevole’ e ‘indispensabile’ [pag. 4], nonostante la pubblicistica sulla Cina sia migliorata rispetto a qualche anno fa, pur continuando ad essere pubblicati testi di scarso valore scientifico o palesemente e aprioristicamente anticinesi.
Questo testo ha il merito di riassumere in una forma molto chiara e discorsiva oltre 100 anni di storia cinese, partendo dall’intervento occidentale (in primis britannico). Non si può capire la Cina contemporanea senza prendere coscienza delle terribili umiliazioni e dei terribili massacri che questo paese ha subìto. Quella che negli anni ’30 dell’Ottocento era una potenza di rango mondiale, circa 100 anni dopo era divenuta “un’economia in rovina, se si pensa che nel momento del suo apice (1936-37) l’intera capacità produttiva industriale del Paese era meno di un ottavo di quella della Russia del 1917 e circa un cinquantesimo di quella delle nazioni più avanzate” [pag. 93].
Lo lotta dei comunisti è innanzitutto una lotta di liberazione nazionale, ecco perché quando Mao Zedong individuò nel Giappone il nemico principale aprì alla collaborazione con il Kuomintang. Questa scelta non fu il tradimento della Lunga Marcia ma la sua naturale evoluzione rispetto ad un quadro in evoluzione, potremmo dire analisi concreta rispetto alla situazione concreta. Come osserva giustamente l’Autore, la Lunga Marcia in ogni caso è stata determinante per il PCC e per la nascita di una classe dirigente per la Cina [pag. 73].
Come Bertozzi spiega molto bene, dopo la Rivoluzione diviene prioritario consolidare questa vittoria. La Cina del post ’49 era sotto attacco, non è casuale che negli anni ’50 viene ‘scoperto’ il Tibet, che per il Dipartimento di Stato USA può “essere considerato come un bastione contro l’espansione del comunismo in Asia” [pag. 108]. Come ben documentato da Domenico Losurdo, il Tibet hollywoodiano è un’invenzione che vuole vendere un’immagine di quel paese, prima del ’49, come luogo di armonia e serenità. In realtà le cose stavano in modo ben diverso, in Tibet vigeva la servitù della gleba, la schiavitù, le punizioni corporali; più che di armonia e serenità si può parlare di violenza e sopraffazione. I problemi per Pechino dopo la Rivoluzione non si fermavano qui, non si può scordare o tacere il blocco economico a cui Pechino era sottoposta, il giudizio storico su Mao Zedong deve tenere presente tutto questo ed è proprio per questi motivi che l’Autore si sottrae all’odierna vulgata che equipara Mao a Hitler. Come giustamente scrive Bertozzi, non si possono mettere sullo stesso piano i morti conseguenti a scelte politiche sbagliate (il grande balzo) con uno sterminio accuratamente pianificato [pag. 175], anche perché queste considerazioni non tengono conto del fatto che le potenze imperialistiche lavorano per affamare la Cina, quindi i morti conseguenti alla carestia sono un risultato dell’obiettivo che l’Occidente si era prefisso.
Anche il PCC ha dato di Mao un giudizio articolato, condannando gli errori e sottolineando i meriti, rifiutando così la strada kruscioviana di totale condanna di Stalin arrivando financo a disconoscerne i meriti che egli ebbe nella Grande Guerra Patriottica.
La morte di Mao apre le porte a Deng Xiaoping che inaugura la stagione delle riforme e dell’apertura. Le riforme partite nel 1978 si pongono l’obiettivo di liberare le forze produttive della Cina, convinzioni che si rafforzeranno dopo i fatti di piazza Tienanmen (1989) a cui seguirà, nel 1992, il viaggio di Deng nel sud del Paese, quando il leader cinese dichiarò che “la purezza ideologica non fa crescere il riso” [pag. 231]. Vengono così introdotti nel sistema cinese elementi di mercato che si accompagnano alla pianificazione statale. Le riforme partite nel ’78 hanno ottenuto i risultati sperati, a un grande aumento del PIL si è accompagnata una enorme riduzione della povertà.
L’ultima parte del libro è, a mio giudizio, quella più interessante perché affronta le sfide che la Cina ha di fronte a se stessa oggi. Queste sfide, anche quelle che toccano lo sviluppo interno, hanno una proiezione internazionale, perché senza un contesto mondiale pacifico si fa più difficile raggiungere gli obiettivi.
Se oggi possiamo definire la Cina una potenza ‘revisionista’ è perché essa vuole ridiscutere il sistema internazionale e gli equilibri mondiali unipolari. I motivi dello scontro con gli Stati Uniti stanno qui. Le tensioni sono massime nell’Indo-Pacifico a partire dal Mar Cinese Meridionale, come osserva l’Autore “sono queste acque, sulle quali transita il 70 per cento del petrolio destinato alla Cina, a garantire lo sviluppo economico e le iniziative diplomatico-commerciali legate alla Via della Seta marittima” [pag. 329], ecco perché gli Stati Uniti concentrano in questo quadrante il proprio sforzo. Il Pivot to Asia è stato un punto fermo dell’amministrazione Obama, poi trasformato nel Quad di Trump confermato da Biden. Gli USA vogliono creare un’alleanza anti-cinese per bloccare la pacifica ascesa di Pechino.
Se l’azione di Washington (a prescindere dal nome del suo presidente) è militare la risposta cinese è, come scrive Bertozzi, ‘diplomatico-economica’ [pag. 354]. Questo è un passaggio fondamentale per capire la politica estera cinese che non si limita al piano militare (su cui Pechino sta facendo grandi passi avanti) ma che si orienta anche su quello economico. Per fare un esempio, Australia e Giappone (entrambi facenti parte del Quad) hanno stretti e importanti rapporti commerciali con la Cina: cosa succederebbe alle loro economie in caso di un inasprimento della situazione mondiale? Hanno convenienza questi Stati a soffiare sul fuoco dello scontro? È una domanda a cui, leggendo il libro, non si può che dare una risposta negativa.
È in quest’ottica che va letta la Nuova Via della Seta cinese, che non rappresenta un attacco ai nostri valori (quali?) ma un’opportunità per la nostra economia.
Per concludere, va detto che la Cina, a differenza di quello che destra e sinistra dicevano in passato, non ha abbandonato la via verso il socialismo, in quest’ottica il ruolo del Partito è fondamentale, tanto è vero che nei ‘Quattro Comprensivi’, la parte della teorizzazione di Xi Jinping che è entrata nella Costituzione, un punto è dedicato al ‘rispetto di una rigida disciplina di Partito’ [pag. 293]. I dirigenti cinesi sanno che il crollo dell’URSS è stato prodotto anche dalla corruzione di cui era stato preda il PCUS, a Pechino l’esempio sovietico è ben presente, vengono considerati attentamente i meriti e i punti di forza di quell’esperienza ma anche gli errori che ne hanno decretato la fine.
Il libro di Bertozzi ha il merito di riassumere i temi più importanti della storia e della politica cinese e lo fa senza essere schiavo dell’ideologia né pro né anti cinese, con un’analisi rigorosa e scientifica di questo Paese, sempre più importante per le sorti del mondo.

L’articolo è stato pubblicato su: La Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi. Diego Angelo Bertozzi – Marx21

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