La Cina popolare / D.Bertozzi

Un excursus della storia cinese che passa dagli anni della umiliazione anglo nipponica (1839-1949) alla lotta di liberazione nazionale fino ai giorni nostri quelli della riconquista del ruolo di grande attore a livello mondiale. L’attenzione che Bertozzi pone agli aspetti economici oltre che a quelli politici ed anche ideologici (culturali) e lo sguardo interno/esterno affiancano il lavoro dello storico e rendono il libro un prezioso strumento di studio e di cultura. Particolarmente apprezzabile è il tono equilibrato documentato e scevro da ogni ideologismo.

Il report contiene
Scheda del libro
Scheda editore
Sommario
Prefazione di V.Giacché

Rec, di Augusto Illiminati

Rec. di Marco Ponfrelli

Scheda

Bertozzi, Diego
La Cina popolare : origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi / di Diego Angelo Bertozzi ; Prefazione di Vladimiro Giacché. – [s.l.] : L’AD, 2020. – 416 p. ; 21 cm. – [ISBN] 978-88-94552-64-5.

KW

Scheda editore

Negli ultimi trent’anni la dicotomia tra capitale fittizio e capitale industriale è stata ben rappresentata dal conflitto Usa-Cina.

L’Europa ha creduto che la distruzione del sistema del «salario sociale globale», costruito nel dopoguerra, gli avrebbe permesso di giocare in questo conflitto un ruolo decisivo. La storia recente ha mostrato che questa scelta era sbagliata, e che la Cina, ispirandosi proprio al modello italiano, costruito nella Prima repubblica e abbandonato nel 1992, ha potuto conquistare posizioni a danno proprio degli occidentali. In questo nuovo scenario il Mediterraneo conquista la sua antica centralità nel commercio globale. Nuove vie si aprono per l’Italia, nuove possibilità sono offerte ad una diplomazia, anche economica, che abbia il coraggio di volgere lo sguardo ad Oriente, come nel XIII secolo, quando le repubbliche marinare dominavano il commercio mondiale.

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MR 2024/1 Il FMI e la lotta di classe in America Latina: svelare il ruolo del FMI

I principi del liberismo imperiale basato su: liberalizzazione del mercato, deregolamentazione, privatizzazione delle imprese pubbliche ha mostrato la sua inadeguatezza già nei paesi ad economia avanzata e vede forti ripensamenti anche in Europa. L’articolo evidenzia come a maggior ragione la critica ai postulati neoliberisti sia applicabile ai paesi in via di sviluppo.

di David Barkin e Juan Santarcángelo

(01 maggio 2024)

KW

Manifestazione contro le pratiche della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale domenica 26 aprile 2009 a Washington, D.C. Di Ben Schumin da Montgomery Village, Maryland, USA – Dimostrazione della Banca Mondiale/FMI [06], CC BY-SA 2.0Link.

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da Blogger

Globalizzazione delle disuguaglianze e delle ingiustizie / Michele Blanco

lantidiplomatico

Globalizzazione delle disuguaglianze e delle ingiustizie

di Michele Blanco*

Michele Blanco: Globalizzazione delle disuguaglianze e delle ingiustizie (sinistrainrete.info)

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Argomenti

Negli anni Ottanta del secolo scorso si descriveva il futuro prossimo della globalizzazione come di una età di crescita del benessere diffuso per tutta l’umanità, in tutti i paesi del mondo, ma «Oggi, invece, la crescente disuguaglianza non ha prodotto alcun conflitto di classe che minacci il sistema capitalistico, e ciò sebbene nelle economie avanzate questa si sia accompagnata con la deindustrializzazione e la schiavitù del debito.

La <globalizzazione> oggi è certamente e identificata come causa di ingiustizie e tensioni sociali. Nel mondo contemporaneo possiamo parlare di tanti tipi di disuguaglianze, ma certamente, da un punto di vista economico, si può parlare della disuguaglianza tra tenori di vita, distinguendo fondamentalmente tra due tipi di tali disuguaglianze, quella mondiale (tra le nazioni) e quella all’interno delle singole nazioni. Quando si dice ad esempio che il 10% più povero ha un tenore di vita pari a un decimo del 10% dei più ricchi ovviamente non ha lo stesso significato in India e in Svizzera. Conviene allora aggiungere una regola generale quando si valuta la disuguaglianza: stabilire una soglia assoluta di povertà e il valore più utilizzato oggi è quello di circa un euro al giorno pro capite.

Considerando la <disuguaglianza tra stati>, dopo un secolo circa di continuo aumento, la disuguaglianza tra stati da più di vent’anni a questa parte ha iniziato a diminuire, se nel 1989 il tenore di vita in Francia e in Germania era di venti volte superiore a quello della Cina o dell’India, oggi questo divario si è dimezzato. D’altra parte la disuguaglianza all’interno di molti paesi è invece andata aumentando. Una spiegazione della diminuzione della disuguaglianza tra stati negli ultimi 20 anni è dovuta alla innovazione tecnologica, al miglioramento dell’istruzione, alla formazione della manodopera, alle conoscenze tecniche e scientifiche. Ovviamente non tutti i paesi in via di sviluppo stanno conoscendo questo processo di crescita.

Per quanto riguarda l’altro tipo di disuguaglianza, quella all’interno dei singoli stati, questa è leggermente aumentata nel corso del 19° secolo, per poi ridursi notevolmente tra la prima guerra mondiale e il secondo dopoguerra, fino agli anni Settanta del secolo scorso. La realizzazione di grandi sistemi di redistribuzione e anche l’egualitarismo imposto dalle rivoluzioni russa e cinese sui propri territori ha portato a ridurre tale disuguaglianza nella maggior parte dei paesi sviluppati. Dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso la disuguaglianza interna agli stati occidentali è andata aumentando. Lo sviluppo dei paesi emergenti e, in misura minore, di quelli in via di sviluppo contribuisce a ridurre la disparità tra i tenori di vita degli abitanti dell’intero pianeta, ma l’aumento delle disuguaglianze interne tende, al contrario, ad aumentarla.

Dato che il problema delle disuguaglianze è abbastanza uniforme, è difficile non collegarlo a cause comuni, e in particolare alla globalizzazione. Essa ha favorito la formazione di un mercato finanziario globale in cui le tecnologie della comunicazione consentono il trasferimento in pochi secondi di enormi capitali da un continente all’altro. L’informazione non ha limiti, quindi la crisi della borsa di un paese si riflette, nel giro di pochi minuti sulle borse degli altri paesi.

Il termine “<villaggio globale>”, che ormai è di uso comune, esprime bene la velocità e la diffusione della comunicazione nel mondo, per cui le notizie e le conoscenze non sono più ristrette a un numero limitato di individui ma diffuse e condivise in tutto il globo. Il potere della conoscenza delle tecnologie: le innovazioni tecnologiche non sono più necessariamente nei beni e nei servizi scambiati, ma sono incorporate nelle menti degli individui. In altre parole, per trarre vantaggio, in termini tecnico-scientifici, dalla conoscenza, occorre aver superato una determinata soglia di sapere, in modo da poter dialogare con tale conoscenza. <Iperconcorrenza>: la <legge della competitività> portata alle estreme conseguenze. Perdita costante di rilevanza della società statale, dello stato o del sistema nazionale. Formazione di una cultura globale, fortemente ispirata al consumismo e diretta dalla comunicazione del marketing.

La globalizzazione si rivela come un fenomeno dalle caratteristiche   assolutamente ambivalenti: c’è chi la mitizza e ne mette in luce gli aspetti positivi, come le differenze nella ricchezza delle nazioni si siano alquanto livellate, portando il tenore di vita medio dei cittadini di <paesi emergenti> come il Brasile, la Cina e l’India ad avvicinarsi a quello di nordamericani ed europei, ma riguarda solo le classi medie di tali paesi, e chi la demonizza, pensandola causa di tanti mali.

Quello che sappiamo è che all’interno dei paesi occidentali ha invece certamente contribuito all’aumento delle disuguaglianze, infatti attraverso la globalizzazione viene diminuita la remunerazione relativa del lavoro scarsamente qualificato, che subisce la concorrenza diretta della manodopera a buon mercato delle economie emergenti, e vengono aumentati eccessivamente i profitti del capitale. Questo ci sembra evidente e innegabile. In molti inoltre ritengono che la globalizzazione sia un fenomeno che impoverisce ancora di più i già poveri e arricchisce ancora di più i ricchi.  Ma il fenomeno fondamentale che ha caratterizzato il periodo della globalizzazione neoliberista è il taglio delle tasse pagate da chi ha redditi più elevati. Infatti dal punto di vista della distribuzione, le riforme più importanti sono state le modifiche alla tassazione, in particolare i tagli alle imposte sul reddito.

La giustificazione fornita era che le aliquote marginali sui redditi più alti erano praticamente confiscatorie scoraggiavano l’imprenditorialità e gli investimenti, incentivando l’evasione e l’ottimizzazione. Aliquote fiscali più basse erano intese a ripristinare questi incentivi e per ridurre l’evasione fiscale, mantenendo al contempo le entrate fiscali ai livelli esistenti. L’aliquota marginale più elevata è scesa dal 70% al 40% negli Stati Uniti durante l’amministrazione Reagan. Nel Regno Unito, è precipitato dall’83% al 60% nel primo anno del governo Thatcher mentre, contemporaneamente l’imposta sul valore aggiunto è salita dal 6% al 15%, come è facile vedere una riforma profondamente regressiva.

Più tardi, molti altri paesi adotterebbero misure simili, anche se non del tutto di vasta portata: la Germania nel 1986-1990, poi dì nuovo nel 2003, Francia nel 1986 e nel 2002. Un esempio drammatico di questo è stata la “<riforma fiscale del secolo” della Svezia nel 1991>. In questo paese tradizionalmente egualitario con un sistema fiscale fortemente redistributivo, l’aliquota marginale più alta è scesa dal 70% al 45%, mentre è aumentata l’aliquota fiscale indiretta per compensare almeno parte delle entrate perse. Come nel Regno Unito, la disuguaglianza aumentata in modo sostanziale. Le variazioni delle aliquote marginali più elevate sono solo una piccola parte delle riforme fatte in nome della liberalizzazione economica. Una caratteristica importante di queste riforme pro globalizzazione, anche essa legata alla crescente mobilità del capitale nel contesto della globalizzazione è stata l’introduzione della distinzione tra <tassazione del reddito da capitale e risparmio> e la <tassazione del reddito da lavoro>. Nel corso del tempo si è evoluto un sistema duale in cui i reddito da risparmio erano tassati a tassi forfettari non progressivi che erano destinati a essere più o meno simili tra i paesi e comunque inferiori alle più elevate aliquote marginali sul reddito da lavoro. Poiché la quota dei redditi da capitale tende ad aumentare del reddito, le aliquote d’imposta medie per le fasce di reddito molto alte sono effettivamente diminuite.

Questo era vero in Francia, negli Stati Uniti e nella maggior parte dei paesi sviluppati. Allo stesso modo, le aliquote fiscali sugli utili societari sono state ridotte anche nella maggior parte delle economie sviluppate, con l’ovvio risultato che la tassazione diretta è diventata sempre più meno progressiva. Negli Stati Uniti, ad esempio, un’analisi che teneva conto delle imposte federali su reddito, profitti, eredità e costi del personale ha mostrato che l’aliquota effettiva dell’1% più ricco diminuiva di circa 15 punti percentuali tra il 1970 e il 2004, spesso diminuendo sotto quello pagato dalla borghesia.

All’altro estremo della scala, c’è stata una generale riduzione della redistribuzione alla fascia di popolazione a più basso reddito, con tagli siano avvenuti al welfare in molti paesi. Il welfare state nel Regno Unito ha subito gravi tagli sotto il governo Thatcher e la crisi economica in Svezia nei primi anni ’90 ha portato il paese a riformare il suo sistema di protezione sociale. In entrambi i casi, le riforme hanno portato a un aumento della disuguaglianza rispetto a un sistema di tassazione meno progressista. In altri paesi, la spesa sociale è stata allo stesso modo ridotta. Tutto questo è continuato nel mondo occidentale in modo costante fino ai nostri giorni.

Secondo alcuni economisti, si dice efficiente una situazione in cui non è possibile aumentare il benessere di un soggetto senza diminuire quello di un altro. Ma oggi di sicuro, sappiamo che troppa disuguaglianza ostacola il funzionamento dell’economia e in modo particolare la crescita economica, tanto decantata dagli economisti come la panacea di tutti i mali. Come quando in una nazione ci sono alunni dotati che però non hanno accesso all’istruzione superiore perché le loro famiglie non possono permetterselo, e viceversa vanno all’università ragazzi anche non particolarmente dotati, nati in ambienti privilegiati: questo ci sembra un chiaro esempio di economia non efficiente. Così, ad esempio, uno stato in cui c’è una violenza endemica, come in tantissime nazioni africane per esempio, non potrà avere un’economia efficiente perché la popolazione e lo stato saranno costretti a destinare gran parte del loro bilancio alla sicurezza.

François Bourguignon in La globalizzazione della disuguaglianza, Torino, Cortina, 2013, afferma che in questo contesto un dato positivo è la comparsa di una <coscienza mondiale> del legame che collega globalizzazione e disuguaglianze. La necessità attuale sarebbe sufficiente che i paesi sviluppati ed emergenti fossero in grado di controllare l’incremento delle disuguaglianze interne alle proprie economie per fermare la globalizzazione della disuguaglianza conservando al contempo i lati positivi della globalizzazione. La <lotta alle disuguaglianze> deve diventare impresa comune. Evitare la globalizzazione della disuguaglianza passa attraverso una globalizzazione della redistribuzione.

Infatti ci troviamo in un mondo globalizzato, in un villaggio globale, veniamo a conoscenza continuamente di ciò che avviene nella altre parti del pianeta e quindi non possiamo ignorarlo, dobbiamo sentircene responsabili. Tuttavia quello che noi veniamo a conoscere è selezionato non secondo nostre scelte, ma secondo ciò che taluni decidono di farci conoscere, questo accade sempre di più. Inoltre la <manipolazione dell’informazione> riesce a confezionare le notizie riuscendo a far passare un crimine efferato come un bombardamento sulle popolazioni civili in uno Stato sovrano e indipendente come una guerra umanitaria. Se a bombardare sono gli occidentali e i loro alleati diventa “un intervento umanitario” se sono altri è un “efferato crimine contro l’umanità”. E magari quando non fa più notizia, queste informazioni si spengono, anche se i problemi e le tragedie restano. Ciò significa che siamo, sì, globali, ma non siamo un “villaggio”: in un villaggio ci si guarda negli occhi, ci si conosce, si condividono le gioie e le pene di tutti. In definitiva, la globalizzazione deve essere per l’uomo. Si spera che lo sia per l’umanità intera ma deve iniziare dal considerare tutte le persone con gli stessi diritti e opportunità, senza distinzione alcuna, ma gli avvenimenti del mondo contemporaneo dimostrano chiaramente che esistono persone che hanno un valore e altre che ne hanno, purtroppo di meno. Basta guardare il valore dato alla vita e alle sofferenze di un bambino palestinese, o del Sud Sudan, confrontata con il valore dato alla vita e alle sofferenze dei bambini europei, che devono assolutamente essere la stessa cosa. Tutto queste ignobili differenze non sono tollerabili ne ammissibile in nessun caso, in nessuna parte del mondo.


*Questo articolo è stato pubblicato su https://www.eguaglianza.it/
Recensione di Chat GPT

L’articolo affronta la questione della globalizzazione e delle disuguaglianze sociali ed economiche, evidenziando come la visione ottimistica degli anni Ottanta sulla crescita del benessere globale non si sia realizzata. La crescente disuguaglianza, sia tra nazioni che all’interno di singoli paesi, è associata alla deindustrializzazione e al debito nelle economie avanzate. Si sottolinea che una nuova generazione di miliardari ha abbracciato la filantropia, mentre la società sembra affidarsi sempre più alle donazioni di chi è estremamente ricco, anziché al ruolo dello Stato nell’affrontare le ingiustizie sociali.

Il testo evidenzia che, nonostante la diminuzione della disuguaglianza tra le nazioni, quella all’interno degli stati è in aumento, in particolare nei paesi occidentali. La globalizzazione è identificata come una causa principale di questa disuguaglianza, poiché ha favorito la formazione di un mercato finanziario globale, la crescita della comunicazione globale e la creazione di una cultura globalizzata incentrata sul consumismo.

L’articolo sottolinea che la globalizzazione ha avuto impatti ambivalenti, contribuendo ad avvicinare i livelli di vita medio nei paesi emergenti a quelli delle nazioni sviluppate, ma anche generando crescenti disuguaglianze all’interno dei paesi occidentali. Si evidenziano le riforme fiscali orientate alla liberalizzazione economica, con tagli alle imposte sul reddito per i più ricchi, come una delle principali cause dell’aumento delle disuguaglianze interne.

Infine, l’autore sottolinea la necessità di una consapevolezza globale sulla connessione tra globalizzazione e disuguaglianze, invitando i paesi sviluppati ed emergenti a controllare la crescita delle disuguaglianze interne per fermare la globalizzazione delle disuguaglianze. Si conclude sottolineando che la globalizzazione dovrebbe essere orientata a considerare tutti gli individui con gli stessi diritti e opportunità, ma attualmente, il valore dato alla vita e alle sofferenze varia notevolmente in base al contesto geografico e culturale.

Abstract di Copilot

L’articolo di Michele Blanco, intitolato “Globalizzazione delle disuguaglianze e delle ingiustizie”, discute l’impatto della globalizzazione sulle disuguaglianze economiche e sociali. Ecco un riassunto dei punti chiave:

  • Negli anni ’80, la globalizzazione era vista come un mezzo per diffondere la prosperità in tutto il mondo. Tuttavia, oggi, l’aumento delle disuguaglianze non ha portato a conflitti di classe che minacciano il sistema capitalista, nonostante la deindustrializzazione e l’indebitamento nelle economie avanzate.
  • In questo contesto, una nuova generazione di miliardari si è rivolta alla filantropia, poiché lo Stato non può più affrontare le ingiustizie sociali e la povertà. Tuttavia, la filantropia serve solo a mantenere inalterato il sistema che ha generato le disuguaglianze.
  • La globalizzazione è ora vista come una causa di ingiustizie e tensioni sociali. Esistono due tipi principali di disuguaglianze economiche: quelle tra nazioni e quelle all’interno delle singole nazioni.
  • La disuguaglianza tra stati, dopo un secolo di aumento, ha iniziato a diminuire negli ultimi vent’anni, grazie all’innovazione tecnologica, al miglioramento dell’istruzione, alla formazione della manodopera, e alle conoscenze tecniche e scientifiche. Tuttavia, non tutti i paesi in via di sviluppo stanno sperimentando questa crescita.
  • D’altra parte, la disuguaglianza all’interno dei singoli stati è aumentata. Questo è dovuto in parte allo sviluppo dei paesi emergenti e, in misura minore, dei paesi in via di sviluppo, che contribuisce a ridurre la disparità tra i tenori di vita a livello globale, ma l’aumento delle disuguaglianze interne tende ad aumentarla.
  • Poiché il problema delle disuguaglianze è abbastanza uniforme, è difficile non collegarlo a cause comuni, in particolare alla globalizzazione. Quest’ultima ha favorito la formazione di un mercato finanziario globale, in cui le tecnologie della comunicazione consentono il trasferimento in pochi secondi di enormi capitali.

KW

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Guerre culturali e neoliberismo

Proseguendo nelle sue ricerche tra Sociologia della cultura e Antropologia culturale “Guerre culturali e neoliberismo” (2024) è il terzo libro di Mimmo Cangiano dopo “La nascita del modernismo italiano” (2018) e “Cultura di destra e società di massa” (2022)

Il Report contiene
Scheda del libro
Indice
Introduzione

Rec. Roberto Barzanti su Il Manifesto

Rec. Antonio Del Castello su Nazione Indiana

Rec. Raffaele Alberto Ventura su Domani

Scheda
Cangiano, Mimmo
Guerre culturali e neoliberismo / Mimmo Cangiano. – Milano : Nottetempo, 2024. – 189 p. ; 20 cm. – (Nottetempo. Figure).) – [ISBN] 9791254800782.

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MR 2018/5 Sulla natura del sistema economico cinese

Monthly Review 2018, Volume 70, Numero 05 (Ottobre 2018)
Socialismo di Mercato o Socialismo con Mercato? La Cina è radicalmente integrata nel sistema capitalistico mondiale ma può dirsi davvero un paese capitalista come gli Usa e gli altri paesi “occidentali”? In una fase successiva a questo articolo si è cominciato a parlare di Capitalismo politico. Gli autori del saggio anticipano queste tematiche oggi più attuali che mai.

Gli autori

Zhiming Long è professore assistente presso la Scuola di Marxismo dell’Università Tsinghua di Pechino, Repubblica Popolare Cinese. Rémy Herrera è ricercatore presso il Centro Nazionale di Ricerca Scientifica e il Centre d’Économie de la Sorbonne di Parigi, Francia. Tony Andréani è professore emerito di Scienze Politiche presso l’Università di Parigi 8 Saint-Denis, Saint-Denis, Francia.

Argomenti

Dibattiti marxisti sulla Cina

La classe dirigente cinese ammette che il settore privato capitalista svolge un ruolo molto importante nell’economia del paese. Tuttavia, sostiene che questo settore è una delle tante componenti di un’economia mista, in cui il settore pubblico e il potere dello Stato devono essere rafforzati. Sulla base dei loro discorsi, molti leader cinesi sembrano sostenere che la Cina è attualmente in una “fase primaria del socialismo”, un passo essenziale verso lo sviluppo delle forze produttive necessarie per un socialismo a tutti gli effetti. Queste affermazioni sono accurate? Meritano di essere presi sul serio? In altre parole: il socialismo cinese è finito? Noi pensiamo di no.

Eppure, nei dibattiti tra i pensatori marxisti, la maggior parte di loro afferma che l’economia cinese è ora capitalista. David Harvey, ad esempio, ritiene che dopo le riforme del 1978 sia sorto un “neoliberismo con caratteristiche cinesi”, in cui un particolare tipo di economia di mercato ha incorporato sempre più elementi neoliberisti ma ha operato sotto un controllo centralizzato strettamente autoritario. Intanto Giovanni Arrighi mobilita una progressiva rilettura di Adam Smith, sostenendo che l’élite cinese usa “il mercato come strumento di governo” per spiegare il successo dell’economia cinese. Leo Panitch e Sam Gindin intendono l’integrazione della Cina nei circuiti dell’economia mondiale meno come un’opportunità per riorientare il capitalismo globale, e più come un ruolo complementare, precedentemente detenuto dal Giappone, nel fornire agli Stati Uniti il flusso di capitali necessario per mantenere la loro egemonia globale. Quindi, sostengono Panitch e Gindin, c’è una tendenza verso la liberalizzazione dei mercati finanziari in Cina, un indebolimento dei controlli sui capitali e un indebolimento delle basi di potere del Partito Comunista Cinese (PCC).1

Ci sono, tuttavia, altri marxisti – rari, ma non meno importanti – che continuano a difendere l’idea che, sebbene il sistema attualmente operativo in Cina possa essere assorbito in una forma di capitalismo di Stato, c’è anche una vasta gamma di altre possibili strade che potrebbe intraprendere.2 In questo articolo, spingeremo ulteriormente questa idea, sostenendo che il sistema cinese oggi contiene ancora alcune componenti chiave del socialismo ed è compatibile con un socialismo di mercato, o basato sul mercato, che è chiaramente distinto dal capitalismo.

Caratteristiche del socialismo di mercato cinese

Per Marx, il capitalismo implica una netta separazione tra la produzione di valore attraverso il lavoro e il possesso dei mezzi di produzione. In questo schema, i proprietari del capitale non lavorano nella produzione. Questo è il caso dell’attuale capitalismo finanziario occidentale, dove la gestione è delegata ai manager e il profitto aziendale assume la forma di valore per gli azionisti. Tuttavia, in base a questo criterio, le piccole imprese cinesi, che sono molte, sono più simili alla produzione familiare o artigianale che al modo di produzione capitalista in senso stretto. Inoltre, la massimizzazione del profitto per i proprietari – la logica fondamentale del capitalismo – non si osserva nelle grandi imprese statali cinesi (SOE), come evidenziato dalla debolezza, se non dall’inesistenza, dei dividendi pagati allo stato, che sono più simili a una tassa sul capitale. La separazione capitale-lavoro è spesso molto relativa: è limitata nelle imprese pubbliche, il che impedisce loro di essere rigorosamente considerate una forma di capitalismo di Stato, e ancora di più nella cosiddetta economia collettiva, dove i lavoratori partecipano alla proprietà del capitale, e hanno anche la piena proprietà del loro posto di lavoro, come nelle cooperative e nelle comuni popolari. Naturalmente, anche in queste unità di produzione collettive, i lavoratori rimangono più o meno separati dalla direzione, ma tutta questa economia non statale non può essere dimenticata o posta sotto la bandiera del “capitalismo”.

La nostra comprensione del sistema cinese come socialismo di mercato, o socialismo con un mercato, si basa sui seguenti dieci pilastri, in gran parte estranei al capitalismo:

  1. La persistenza di una pianificazione potente e modernizzata, che si avvale di varie modalità e mobilita strumenti diversi a seconda dei settori interessati.
  2. Una forma di democrazia politica che rende possibili le scelte collettive che sono alla base di questa pronesi.
  3. Servizi pubblici molto estesi, che condizionano la cittadinanza politica, sociale ed economica e, in quanto tali, sono fuori mercato o debolmente commerciabili.
  4. La proprietà pubblica della terra e delle risorse naturali, di proprietà statale a livello nazionale e collettiva a livello locale, garantendo così agli agricoltori l’accesso alla terra.
  5. Diverse forme di proprietà adatte alla socializzazione delle forze produttive: (1) le imprese statali, a condizione che differiscano dalle imprese capitalistiche, in particolare per quanto riguarda la partecipazione dei lavoratori alla gestione, (2) la piccola proprietà privata individuale e (3) la proprietà socializzata. Inoltre, c’è la proprietà capitalistica, che è stata mantenuta e talvolta incoraggiata durante la lunga transizione socialista per stimolare l’attività e rendere efficaci altre forme di proprietà.
  6. Una politica generale consistente nell’aumentare il reddito da lavoro rispetto ad altre fonti di reddito.
  7. La promozione della giustizia sociale da una prospettiva più egualitaria.
  8. La conservazione della natura, considerata inseparabile dal progresso sociale, come obiettivo di sviluppo al fine di massimizzare la ricchezza.
  9. Le relazioni economiche tra gli Stati si basano su un principio win-win, cioè la ricerca sistematica di vantaggi reciproci.
  10. Relazioni politiche tra gli Stati basate sul perseguimento della pace e di relazioni più eque.

Questi punti sono oggetto di un acceso dibattito, sia in Cina che all’estero, la cui analisi deve essere approfondita senza pregiudizi o preconcetti. Nonostante le critiche, questi dieci pilastri ci forniscono un quadro attraverso il quale comprendere meglio il sistema economico cinese come socialismo di mercato.3

Imprese pubbliche, servizi pubblici e pianificazione

In Cina, la giustificazione per le imprese pubbliche è triplice: possono distribuire di più ai loro dipendenti; lo Stato è libero di definire il metodo di gestione, in particolare in termini di stipendi; E tali imprese possono essere facilmente messe al servizio dei progetti statali. In modo piuttosto socialista, lo Stato stanzia dividendi da un fondo di sostegno speciale per le imprese statali, che beneficiano anche di vantaggi di credito e di tassi d’interesse.

Parte della forza di queste SOE deriva dal fatto che non sono gestite come le società private occidentali, che sono quotate in borsa e orientate a massimizzare il valore per gli azionisti con la distribuzione di dividendi, la valorizzazione delle azioni e gli elevati ritorni sugli investimenti facendo pressione sui subappaltatori. Se gli enti pubblici cinesi operassero in questo modo, andrebbe a scapito del tessuto industriale locale, cosa che ovviamente non avviene. Avremmo allora a che fare con una forma selvaggia di “capitalismo di Stato”, come spesso si sostiene, e non ci potrebbe essere una crescita economica dinamica. La maggior parte delle SOE cinesi sono, o sono diventate, redditizie perché il principio che le guida non è l’arricchimento degli azionisti, ma l’investimento produttivo e il servizio reso ai clienti. Non importa se i loro profitti sono inferiori a quelli dei loro concorrenti occidentali; Servono in parte a stimolare il resto dell’economia.

Una delle specificità di queste società pubbliche è quella di pagare relativamente poco – circa il 10 per cento – in dividendi all’azionista statale. Oggi, molti esperti stranieri sostengono l’aumento di questi dividendi e la Securities Regulatory Commission a volte sembra propendere in questa direzione. Ispirato alle pratiche capitaliste occidentali, questo orientamento non si adatta perfettamente alle società pubbliche cinesi, che verrebbero private dei loro vantaggi e, anche se sarebbero ancora sotto il controllo statale, si rivolgerebbero sempre più agli azionisti privati, come nel caso delle aziende occidentali che, a loro volta, dipendono molto spesso dalle strategie di portafoglio dei principali oligopoli finanziari mondiali. Sarebbe invece meglio che lo Stato cinese introducesse una tassa sul capitale sotto forma di rendita per la fornitura di proprietà, e le società redditizie potrebbero trattenere una quota maggiore dei profitti per gli investimenti, nonché per la ricerca e lo sviluppo.

Le SOE cinesi non dovrebbero essere gestite come aziende private. Il “socialismo di mercato in stile cinese” si basa sul mantenimento di un settore pubblico forte che ha un ruolo strategico nell’economia. Ci sono tutte le ragioni per credere che questa sia una delle spiegazioni essenziali per l’andamento dell’economia cinese. Questo è probabilmente legato anche alle dimensioni delle SOE: colossi che beneficiano di economie di scala che riducono i costi a tutti i livelli, e forniscono una miriade di piccole e medie unità produttive con input a basso costo che garantiscono condizioni di produzione competitive sui mercati.

Una lodevole caratteristica delle imprese pubbliche cinesi è la limitata ma reale partecipazione del personale alla gestione delle unità attraverso rappresentanti nel consiglio di sorveglianza e nel congresso dei lavoratori. La logica degli azionisti sarebbe contraria a tale partecipazione, una partecipazione che deve essere rafforzata. Un altro vantaggio è che queste SOE possono raggiungere più facilmente gli obiettivi di pianificazione. Non si tratta di imporre compiti politici che ridurrebbero la loro autonomia e peserebbero sui loro risultati, ma si tratta di dire che, controllando la nomina e la gestione dei dirigenti, le autorità pubbliche, da cui dipendono molte imprese, hanno i mezzi per garantire che agiscano in modo adeguato nei servizi pubblici e nei settori di mercato che la pianificazione può contribuire a orientare. ad esempio attraverso sovvenzioni e tassazioni.

In Cina, i servizi sociali, come l’istruzione, l’assistenza sanitaria e le pensioni, sono interamente o in gran parte controllati dallo Stato, vale a dire dal governo centrale o, più spesso, dai governi locali. Tali servizi non forniscono beni commercializzati dal settore privato, ma piuttosto beni sociali necessari agli individui per essere soggetti politici, sociali ed economici di successo, che sono in buona salute, hanno accesso all’occupazione, godono dei trasporti pubblici, sono istruiti e così via. Tuttavia, i servizi pubblici sono considerati beni strategici in quanto forniscono input essenziali per il resto dell’economia: energia, infrastrutture, materiali di base e persino banche e ricerca. Mentre il settore privato è considerato complementare o stimolante, lo Stato favorisce il settore pubblico nell’esercizio della concorrenza. L’ampia concezione di questi servizi pubblici “strategici” è uno dei maggiori punti di forza dell’economia cinese. Quindi, attraverso l’adozione di questa coerente strategia di sviluppo incentrata sui grandi servizi pubblici, ciò che è in gioco qui è anche la difesa della sovranità nazionale.

Una caratteristica notevole del sistema politico ed economico cinese è la sua potente pianificazione, che continua ancora oggi nonostante i cambiamenti negli obiettivi e negli strumenti negli ultimi decenni. I discorsi pronunciati ogni anno davanti all’Assemblea nazionale del popolo indicano se gli obiettivi quantificati fissati nel piano quinquennale sono stati raggiunti, come spesso accade, e quali raggiungere nell’anno successivo. Questa programmatica, che guarda al futuro in un mondo segnato dall’incertezza, è espressione di scelte collettive e di una volontà generale. È la cristallizzazione di un destino nazionale comune e il mezzo per far sì che le persone ne diventino padrone in tutte le sfere della vita, dal consumo all’abitazione. Queste scelte sono fatte dal PCC per i cittadini, con il principio della consultazione sempre più posto come una necessità. Questa forte pianificazione strategica, con tecniche modernizzate adattate alle esigenze del presente, con mezzi come le tariffe agevolate, il controllo dei prezzi e le commesse pubbliche, è una delle caratteristiche distintive di un sistema socialista.

Ciononostante, oggi siamo ovviamente lontani dall’ideale egualitario del socialismo. La Cina rimane un paese con un’immensa disuguaglianza sociale. La linea sull’uguaglianza è stata sospesa per accelerare la crescita (da qui il motto “arricchitevi”), per poi essere ripresa con la recente promozione dei temi della giustizia sociale. L’esaltazione della “moralità socialista” da parte dei leader del PCC può portare allo scetticismo quando conosciamo il consumismo, il desiderio di lusso e persino la corruzione che esistono in Cina. Non dobbiamo, tuttavia, prendere alla leggera il fatto che lo Stato cinese si opponga coerentemente a questo degrado morale. C’è una continuazione degli ideali del socialismo, non solo di una giustizia sociale limitata a una limitata redistribuzione del reddito, che impiega nozioni di equità per giustificare la disuguaglianza, o sfrutta efficacemente la democrazia rappresentativa per sradicare la partecipazione delle persone. È nel settore pubblico che lo Stato ha i mezzi per ridurre queste disuguaglianze attraverso la partecipazione dei lavoratori alla gestione e il ruolo delle imprese pubbliche come “motori sociali”. Questo è un altro argomento a favore del rafforzamento del settore pubblico.

Controllo del sistema bancario e dei mercati finanziari

Molti economisti considerano obsoleto l’attuale sistema finanziario cinese e ne chiedono la modernizzazione, cioè la sua incorporazione nei mercati finanziari estesi che ritengono necessari per la crescita.4 Le riforme del settore finanziario hanno subito un’accelerazione dal 2005 e hanno assunto la forma dell’apertura del capitale delle banche statali e della creazione di nuove borse. Queste riforme hanno fatto seguito a quelle precedentemente adottate dalle imprese statali, che sono state dotate di poteri e di una crescente autonomia per quanto riguarda il rispetto del piano quinquennale; trasformati in società per azioni; incoraggiati ad adottare criteri di gestione del mercato, ad attingere ai metodi di finanziamento del mercato e a sviluppare partenariati con investitori stranieri. Così, le offerte pubbliche iniziali delle più grandi banche – Bank of China, Industrial and Commercial Bank of China e China Construction Bank – sono state precedute dall’ingresso di istituzioni straniere nelle loro strutture di capitale, come Goldman Sachs, UBS e Bank of America, rispettivamente, al fine di facilitare l’apprendimento della corporate governance. Ciononostante, il sistema di finanziamento dell’economia cinese continua a basarsi sull’intermediazione bancaria, anche se tende ad allontanarsene piuttosto rapidamente, con la motivazione che le autorità politiche devono trovare un equilibrio tra mercati finanziari e crediti bancari.

Dobbiamo stare attenti a non confondere la modernizzazione in questo campo con l’adozione di metodi capitalistici. È tutt’altro che chiaro che sia stata fatta una scelta a favore della finanza di mercato, visto che gli interventi nel sistema finanziario da parte delle autorità monetarie rimangono massicci e il pragmatismo del loro approccio è percepibile. Le autorità pubbliche cinesi stanno sperimentando sia progressi che battute d’arresto nel contesto di un’integrazione più profonda, ma contraddittoria, del paese nella globalizzazione. Ciò è stato particolarmente vero durante ogni fase del rallentamento economico successivo al 2008, caratterizzato da una stimolazione del credito bancario per correggere i disturbi della finanza. A cavallo degli anni ’90, in seguito alla crisi del 1990-91, le banche che si erano impegnate in operazioni avventurose, come le assicurazioni e il settore immobiliare, erano già state bandite tra il 1992 e il 1995, anche se da allora sono state autorizzate a condurre operazioni che combinano crediti bancari e mercati finanziari. Più recentemente, dopo il 2008, come osservato in precedenza, le autorità cinesi sono state costrette a limitare con fermezza l’impatto sociale destabilizzante della crisi globale, modificando il quadro istituzionale esistente, dotandosi di potenti strumenti di controllo e consolidando la propria strategia di sviluppo.

I leader politici cinesi conoscono i vantaggi dell’intermediazione bancaria e sono consapevoli del grave malfunzionamento dei mercati finanziari, chiedendo regolarmente la riforma dell’ordine monetario e finanziario mondiale. Preferiscono mantenere gran parte del sistema bancario sotto il controllo statale sforzandosi di migliorarne il funzionamento, sono riluttanti ad abbandonare il modello di “banca universale” e si stanno muovendo verso operazioni miste, ma effettuate in filiali specializzate, separate dal resto della holding pubblica e poste sotto l’occhio vigile della Commissione di regolamentazione bancaria.

Inoltre, nonostante le riforme, i tassi d’interesse sono ancora in gran parte amministrati. Per quanto riguarda i tassi d’interesse che sono stati liberalizzati, l’offerta di credito è fortemente controllata dalla banca centrale, in particolare attraverso le riserve obbligatorie. L’allentamento di alcuni vincoli imposti alle banche per fissare i tassi sui depositi non deve far dimenticare che, storicamente, le autorità monetarie hanno volontariamente ridotto la remunerazione dei depositi al minimo (sotto il tasso di inflazione) e ciò non ha alterato il tasso di risparmio nazionale, che rimane ancora molto elevato.

Una delle specificità e dei punti di forza dell’economia cinese è la torsione volontaristica dei prezzi dei fattori. Il governo ha fatto bene a non lasciare che fosse il mercato a fissare “liberamente” il prezzo, in modo da controllare l’offerta di credito, difficile da gestire ma vitale per l’economia. Le autorità statali con una visione macroscopica dei rischi sono le uniche in grado di guidare l’economia secondo un piano. Poiché i tassi di interesse amministrati non consentono aggiustamenti tempestivi tra il risparmio delle famiglie e il fabbisogno di finanziamento dell’economia, il regime dei tassi privilegiati è un regime semi-amministrativo, con limiti massimi per l’offerta di credito e limiti inferiori per la remunerazione del risparmio. Pertanto, nel dibattito sui tassi d’interesse, tendiamo a mantenere un certo grado di controllo.

L’espansione della sfera privata implica logicamente un aumento del mercato azionario. Ciononostante, quest’ultimo dovrebbe rimanere limitato. Mentre il mercato azionario può essere utile per il settore privato, le imprese pubbliche devono, al contrario, fare sempre meno affidamento su di esso man mano che aumentano le loro capacità di autofinanziamento e forniscono i fondi disponibili allo Stato per effettuare aumenti di capitale. Per il momento, l’apertura del mercato azionario agli investitori internazionali è limitata a presunti operatori qualificati. Le autorità, giustamente sospettose dei movimenti speculativi, hanno finora vietato alle imprese straniere di emettere azioni in yuan sul mercato interno. Rilasciare questi freni, in particolare per avanzare verso la piena convertibilità dello yuan e dei suoi presunti vantaggi, comporterebbe la sottomissione ai potenti oligopoli finanziari, in particolare quelli statunitensi. L’uso del mercato azionario dovrebbe rimanere il più limitato possibile e non dovrebbe portare ad allinearsi al modello del valore per gli azionisti. I risparmi della Cina sono abbastanza abbondanti da poter essere mobilitati attraverso investitori istituzionali nazionali, che possono essere soggetti a limiti di redditività.

Una strategia coerente per lo sviluppo interno

Una caratteristica spesso enfatizzata nel descrivere il successo dell’economia cinese è il boom delle sue esportazioni di beni e servizi a partire dai primi anni ’90, soprattutto negli anni 2000. Si conclude frettolosamente che queste esportazioni guidano la crescita del paese. Questo per dimenticare che la strategia dello sviluppo – uno dei “segreti” della performance della Cina sul mercato mondiale – è concepita e applicata con regolarità e pragmatismo dai leader cinesi. Questa strategia si concentra su un modello più orientato al mercato interno e sul mantenimento di settori statali molto potenti come l’energia, i trasporti, le telecomunicazioni, le materie prime, i semilavorati, l’edilizia e il sistema bancario.

La stragrande maggioranza degli imprenditori del settore manifatturiero cinese è principalmente interessata agli sbocchi nazionali per i propri prodotti. È soprattutto l’aumento della domanda interna, stimolato da un forte aumento dei consumi delle famiglie e da una spesa pubblica in conto capitale molto attiva, in particolare per le infrastrutture, a guidare i loro ottimistici programmi di investimento. Grazie all’avanzare dell’innovazione tecnologica nazionale sempre più controllata che opera in tutti i campi, tra cui lo spazio, la robotica e le telecomunicazioni, lo schema produttivo del Paese si è evoluto da “made in China” a made by China.

Il ritmo accelerato degli incrementi di produttività del lavoro sta contribuendo a sostenere la rapida crescita dei salari reali industriali, mentre l’aumento del costo del lavoro cinese rispetto ad altri paesi concorrenti del Sud del mondo non è dannoso per la concorrenza. Le esportazioni svolgono un ruolo di sostegno, così come gli investimenti diretti esteri, poiché oltre la metà delle esportazioni proviene da imprese straniere con sede in Cina. Ciò consente di comprendere che nel 2011, ad esempio, il contributo netto negativo delle esportazioni alla crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) (-5,8 per cento) non ha ostacolato il dinamismo di quest’ultimo (vicino al +10,0 per cento), né tantomeno ha rallentato l’aumento dei margini di profitto. La previsione di crescita del PIL per il 2018 è del 6,7 per cento (contro un tasso di inflazione dell’1,5 per cento), con contributi stimati al 4,5 per cento per i consumi, al 2,0 per cento per gli investimenti e solo allo 0,2 per cento per le esportazioni.

Si dice spesso che il successo delle esportazioni cinesi sarebbe dovuto al bassissimo costo del lavoro. Si tratta di una valutazione in gran parte inconsistente: il costo del lavoro rappresenta solo una piccola parte dei prezzi di vendita (dal 5 al 10 per cento in media) e non compensa i costi di trasporto verso i paesi importatori, anche se i salari cinesi tendono a crescere più velocemente di quelli dei concorrenti del Sud del mondo. Il successo delle esportazioni cinesi è in gran parte dovuto ai minori costi dei fattori produttivi, come l’energia e le materie prime, forniti dalle imprese statali. Certo, i salari cinesi sono significativamente più bassi che nel Nord del mondo, ma molto più alti dei presunti salari “miserabili”.

In risposta alla crisi del 2008, i cui effetti si sono fatti sentire alcuni anni dopo in Cina, le politiche anti-crisi dello Stato miravano a correggere gli squilibri dell’economia, in particolare attraverso una massiccia espansione delle infrastrutture pubbliche, anche nelle aree rurali; promozione di nuovi poli urbani di medie dimensioni nelle zone interne del Paese; e l’adozione di misure favorevoli alla popolazione agricola.5 Il reddito netto delle famiglie rurali è quindi aumentato, in termini reali e pro capite, molto più rapidamente di quello delle aree urbane. Di conseguenza, la quota destinata ai consumi nel reddito nazionale aumenta rispetto a quella degli investimenti. Anche gli investimenti nei servizi alle famiglie e alle imprese stanno progredendo. Inoltre, il finanziamento degli immobili, compreso il sistema creditizio, è più controllato.

Il destino dello Yuan

L’aumento delle esportazioni cinesi di beni e servizi, insieme alle esportazioni di capitali, come il rimborso del Tesoro degli Stati Uniti e la ristrutturazione dei debiti sovrani europei, cristallizza un altro punto di tensione.6 Si legge spesso in Occidente che la sottovalutazione della moneta cinese, il renminbi, la cui unità di base è lo yuan, è il punto di partenza per i deficit commerciali bilaterali con la maggior parte dei paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti.7 Le pressioni di Washington per l’apprezzamento del renminbi rispetto al dollaro incontrano resistenza a Pechino, ma hanno portato a diverse rivalutazioni, le più recenti delle quali nel luglio 2005 e nell’aprile 2012. Tra l’estate del 2005 – quando la Cina ha deciso di smettere di legare la sua valuta al dollaro – e la primavera del 2012, il valore del renminbi si è apprezzato, in termini reali, del 32% rispetto al dollaro.8 Ciononostante, persisteva l’idea che i prodotti già a buon mercato esportati dalla Cina sarebbero stati resi più competitivi da una valuta artificialmente deprezzata.

Il “fair value” delle valute, articolato dalle decisioni di politica commerciale, è estremamente controverso. Tuttavia, tra i criteri disponibili, il rapporto tra il saldo delle partite correnti e il PIL è il più utilizzato dall’amministrazione statunitense. Ciò fa sì che il parametro di riferimento utilizzato per definire il tasso di cambio di “equilibrio” sia un rapporto tra l’avanzo o il deficit delle partite correnti e il PIL di +/– 3 o 4 per cento. Applicando questa misura alla Cina, segnata dal peso del commercio bilaterale con gli Stati Uniti, vediamo che il rapporto cinese è sceso dal 10,6 per cento nel 2007 al 2,8 per cento nel 2011. La sottovalutazione del renminbi non è, quindi, ovvia quando ci si riferisce allo standard più spesso utilizzato dagli Stati Uniti. Ciò non impedisce agli Stati Uniti, nonostante i gravi squilibri che caratterizzano la loro economia, di avere una continua “guerra valutaria”, con il deprezzamento del dollaro sul mercato dei cambi, per imporre termini di capitolazione a Pechino. Uno degli effetti di ciò è la svalutazione delle riserve valutarie della Cina, che sono per lo più detenute in attività denominate in dollari.9

L’internazionalizzazione del renminbi, soprattutto per trasformarlo in una valuta di riserva globale, richiederebbe l’adozione di condizioni molto rigide: apertura del conto capitale e flessibilità del tasso di cambio; l’integrazione dei mercati finanziari cinesi nel sistema capitalista mondiale; l’applicazione di politiche macroeconomiche di contrasto all’inflazione e di contenimento del debito pubblico volte a conquistare la fiducia dei mercati finanziari; e avere un’economia di dimensioni critiche per giustificare questa ambizione di internazionalizzare la moneta. Le prime due condizioni sono requisiti essenziali, ma le ultime due non lo sono, in quanto non sempre sono state rispettate dai paesi occidentali con valute utilizzate come riserve internazionali.

La dimensione critica è stata chiaramente raggiunta: il peso economico della Cina è al secondo posto, dopo gli Stati Uniti, nel mondo per PIL, e si colloca tra gli Stati Uniti e l’eurozona per le esportazioni. Anche il criterio delle politiche macroeconomiche sembra essere soddisfatto, in quanto l’adozione di misure antinflazionistiche, il controllo dei conti pubblici e il controllo dei prezzi del renminbi hanno dato risultati favorevoli negli ultimi anni. Se la pressione inflazionistica rimane un pericolo, l’indice di stabilità dei prezzi è migliore in Cina che in altri paesi BRICS. Il debito pubblico è contenuto a livelli inferiori rispetto alla maggior parte dei paesi occidentali. Gli indici di variabilità della valuta nazionale mostrano anche un renminbi meno volatile rispetto al real, alla rupia, al rublo e al rand. Tuttavia, per quanto riguarda l’apertura del conto capitale e l’ulteriore integrazione dei mercati finanziari cinesi nel sistema globale, bisogna riconoscere che, nonostante l’adozione di meccanismi di mercato per la politica monetaria, l’allentamento di alcune normative relative al conto capitale e la determinazione del renminbi, le autorità monetarie cinesi continuano a disporre di potenti strumenti di controllo. Analogamente, il renminbi è utilizzato in misura limitata nel mercato dei derivati negoziati fuori borsa ed è ancora concentrato su strumenti di copertura convenzionali, come i forward.10

L’internazionalizzazione della moneta porterebbe benefici alla Cina, a partire da un diritto al signoraggio, che è evidente nel caso degli Stati Uniti. Ciononostante, un tale orientamento significherebbe una dannosa sottomissione all’alta finanza dominante a livello globale e una relativa perdita di controllo sulla politica monetaria. Come potrebbe la Cina riuscire a trarre vantaggio da un renminbi internazionalizzato senza pagare un prezzo pesante, e significherebbe rinunciare al pieno esercizio della sua sovranità nazionale e a una riduzione dell’autonomia della sua strategia di sviluppo? Oggi, le pressioni interne favoriscono fortemente la liberalizzazione dei mercati finanziari, ma sono ancora smorzate dai discorsi ufficiali rassicuranti, piuttosto credibili, sul controllo del processo di riforma. Queste pressioni sono particolarmente preoccupanti, aggravate dalle raccomandazioni fatte dagli esperti del Fondo Monetario Internazionale e dai leader occidentali affinché la Cina intraprenda la strada del neoliberismo. I leader cinesi, generalmente sfumati e cauti, sono perfettamente consapevoli dei pericoli che un renminbi internazionalizzato implica per il futuro del socialismo di mercato. Speriamo che siano in grado di resistere al neoliberismo. Nel frattempo, stanno rafforzando numerose partnership con i paesi del sud e dell’est, in particolare all’interno del gruppo di Shanghai, e stanno riaprendo una nuova via della seta per allentare la morsa dell’aggressivo accerchiamento degli Stati Uniti.

Conclusione

L’evoluzione delle relazioni tra, da un lato, il PCC al potere e il blocco sociale su cui si basa – la classe media beneficiaria della crescita, ma anche gli imprenditori privati – e, dall’altro, le masse di operai e contadini, apre prospettive per uno scontro su larga scala, così come traiettorie e strutture economiche divergenti.11 Rimane però una domanda: come possono le élite dominanti, la cui legittimità è rafforzata dalle ricadute positive generate dalla crescita, riuscire a rinnovare le condizioni della storia di successo della Cina senza fare affidamento su un cambiamento interno a favore delle classi popolari – operai e contadini – e su un riorientamento del progetto nazionale verso le politiche sociali? La scelta da parte delle élite di un chiaro percorso capitalista – che porterebbe a una rottura dell’equilibrio interno ed esterno del paese e a una perdita di controllo di fronte alle crescenti contraddizioni – non garantirebbe il fallimento della strategia adottata finora? Quale sarà la posizione geoeconomica e la prospettiva geopolitica militare degli Stati Uniti di fronte alla continua ascesa della Cina? Il futuro della Cina rimane in gran parte indeterminato non solo a causa delle sue stesse dinamiche, ma anche perché gli oligopoli finanziari del Nord globale sembrano sempre più voler entrare in conflitto, nonostante la loro stretta interdipendenza. Anche di fronte all’egemonia degli Stati Uniti, l’attuale sistema economico cinese contiene ancora elementi di socialismo, così come il potenziale per la sua riattivazione. Inoltre, contiene anche la possibilità di trasformare l’ordine economico e politico globale in un mondo multipolare.

Note

  1.  David Harvey, Breve storia del neoliberismo (New York: Oxford University Press, 2005). Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino (Londra: Verso, 2009). Leo Panitch e Sam Gindin, “L’integrazione della Cina nel capitalismo globale”, International Critical Thought 3, n. 2 (2013): 146-58.
  2.  Alcuni esempi di tali marxisti e del loro lavoro: Wen Tiejun, “Riflessioni centenarie sul ‘problema tridimensionale’ della Cina rurale”, Inter-Asia Cultural Studies 2, n. 2 (2001): 287-95. Samir Amin, “China 2013”, Monthly Review 64, n. 10 (marzo 2013): 14–33.
  3.  Tony Andréani e Rémy Herrera, “Quale modello economico per la Cina?” Pensiero critico internazionale 5, n. 1 (2015): 111–25.
  4.  Frederic Mishkin, Economia della moneta, delle banche e dei mercati finanziari, 9a ed. (Boston: Pearson, 2010).
  5.  Erebus Wong e Jade Tsui Sit, “Ripensare la ‘Cina rurale’, modernizzazione irriflessiva”, in Rémy Herrera e Kin Chi Lau, a cura di, The Struggle for Food Sovereignty, (Londra: Pluto, 2015), 83-108.
  6.  Alexandra Stevenson, “Più azioni britanniche per la Cina…?” Financial Times, 3 giugno 2011.
  7.  Si vedano i rapporti del Servizio di Ricerca del Congresso degli Stati Uniti, http://fas.org.
  8.  Cfr. i rapporti economici annuali della Banca dei regolamenti internazionali, http://bis.org.
  9.  Martin Wolf, “Perché l’America vincerà la battaglia valutaria globale“, Financial Times, 12 ottobre 2010.
  10.  Rémy Herrera, “Un’interpretazione marxista della crisi attuale”, World Review of Political Economy 5, n. 2 (2014): 128-48.
  11.  Samir Amin, prefazione a Rémy Herrera, Avances revolucionarios en América Latina (Quito: FEDAEPS, 2012).

2018Volume 70, Numero 05 (Ottobre 2018)

MR 2024/2 Karl Marx era un comunista della decrescita? B.M. Napoletano (MR)

La produzione esponenziale di merci è alla base del sistema capitalista. Con la globalizzazione e la crescita demografica a livello mondiale il fenomeno ha assunto proporzioni tali da creare un impatto talmente ampio da incidere fortemente sull’ecosistema fino a compromettere seriamente la stessa sopravvivenza dell’uomo sulla terra. L’ecosocialismo rappresenta un tentativo teorico di aggiornare i termini della lotta di classe alla luce di questo incubo. Ancora una volta si pone il problema: può bastare la visione socialista o, ancora una volta, occorre passare direttamente a quella comunista?

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Brian M. Napoletano è professore associato presso il Centro de Investigaciones en Geografía Ambiental (Centro per le Indagini di Geografia Ambientale) presso l’Universidad Nacional Autónoma de México

Monumento a Karl Marx davanti al Teatro Bolshoi di Mosca (13 ottobre 2019). Credito immagine: Txetxu (Flickr).

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Ecologia del denaro / G. Gozzini

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1.Come perdere apposta mezzo secolo
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1.2. Ritorno all’ordine
1.3. Business as usual
1.4. Lobbying e disinformazione
2. Finanza aziendale
2.1. Ricomprare le azioni

Ecologia del denaro : finanza e società nel mondo contemporaneo / Giovanni Gozzini. – Roma : Editori Laterza, 2024
ISBN carta: 9788858154144
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sinistre controverse

Le prossime elezioni per la Presidenza degli Stati Uniti vedono contrapposti due ottuagenari con qualche problema di autocontrollo e con molti problemi per il popolo americano ed il resto del mondo. Un terzo vecchio lancia una sfida di buonsenso. Basterà? E a sinistra in Italia, che si dice? Bertinotti e Formenti.

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Prefazione di Fausto Bertinotti
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La sfida di Sanders non spaventa il capitalismo / di Carlo Formenti

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Il presente con l’occhio dello storico

Una riflessione di Eric Hobsbawm del 2009 che mantiene intatta la sua attualità. Lo storico inglese offre una lucida analisi della situazione economica e politica globale all’indomani della crisi del 2008. L’autore invita a superare le ideologie del passato e a costruire un nuovo modello economico basato sull’economia mista, l’azione pubblica e la giustizia sociale.

Il socialismo ha fallito, il capitalismo è in bancarotta. Cosa succederà adesso?

Punti essenziali:

  • Il socialismo e il capitalismo, entrambi nella loro forma pura, sono falliti.
  • Il futuro appartiene alle economie miste che combinano il pubblico e il privato.
  • La crisi economica globale richiede un grande spostamento dal libero mercato all’azione pubblica.
  • La priorità della politica progressista deve essere il benessere sociale, non la massimizzazione del profitto.
  • La lotta contro la crisi ambientale richiede un impegno pubblico significativo.
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MR 2024/02 / editoriale

Febbraio 2024 (Volume 75, Numero 9)

di La Redazione (01 febbraio 2024)

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Rassegna mensile volume 75, numero 9 (febbraio 2024)

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