Biblioteche e rivoluzione

FONTE:
New Biography of “China’s First Communist” Reveals Nuances for English-Speaking Readers by Joel Wendland-Liu
RECENSIONE DI
Patrick Fuliang Shan, Li Dazhao: China’s First Communist (Albany: State University of New York Press, 2024), 322 pagine, $36,95
https://monthlyreview.org/2024/12/01/new-biography-of-chinas-first-communist-reveals-nuances-for-english-speaking-readers/

La nuova biografia del “primo comunista cinese” rivela sfumature per i lettori di lingua inglese di Joel Wendland-Liu

Dopo la biografia politico-intellettuale di Li Dazhao di Maurice Meisner del 1967, non è stata pubblicata nessuna biografia in lingua inglese del fondatore del Partito Comunista Cinese (PCC), fino ad ora. Il nuovo studio di Patrick Fuliang Shan, Li Dazhao: China’s First Communist , offre una narrazione politica e personale della vita di questa figura colossale nella storia cinese moderna. Il lavoro di Shan si basa sull’attuale borsa di studio in lingua inglese attingendo a una miriade di fonti in lingua cinese per aggiungere nuove informazioni sul background di Li e un’analisi dettagliata del suo pensiero politico in evoluzione. Molti archivi in ​​lingua cinese sono stati resi disponibili solo dopo la pubblicazione del libro di Meisner, vecchio di quasi sessant’anni, mentre documenti russi scoperti più di recente hanno fornito nuovi dettagli.

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L’eccedenza del capitalismo monopolistico e della rendita imperialista di Samir Amin MR 2012/7-8

FONTE Montly Review 1-7-2012
Samir Amin è direttore del Terzo Forum Mondiale di Dakar, in Senegal. I suoi libri includono The Liberal Virus, The World We Wish to See e The Law of Worldwide Value (tutti pubblicati da Monthly Review Press). Questo articolo è stato tradotto dal francese da Shane Mage.

Nota dell’editore

A partire dagli anni ’50 Samir Amin ha fornito una critica sistematica del sistema capitalista, a partire dal suo trattato di riferimento, L’accumulazione del capitale su scala mondiale (1957) e proseguendo fino alle sue importanti opere degli ultimi anni, in particolare La legge del valore mondiale (2010). Qui fornisce una spiegazione dell’importanza del Capitale Monopolistico di Baran e Sweezy per questa critica, mettendo in relazione il “surplus” (che egli identifica con tutte le entrate/uscite residue nel sistema dei conti nazionali al di là dei profitti e dei salari investiti) con la rendita imperiale. Per facilitare la comprensione della sua analisi, abbiamo inserito due note a piè di pagina che spiegano ulteriormente i due esempi numerici che fornisce.

il saggio di Samir Amin

Paul Baran e Paul Sweezy osarono, e poterono, continuare il lavoro iniziato da Marx. Partendo dall’osservazione che la tendenza intrinseca del capitalismo era quella di consentire aumenti del valore della forza-lavoro (salario) solo ad un tasso inferiore al tasso di aumento della produttività del lavoro sociale, essi dedussero che lo squilibrio risultante da questa distorsione avrebbe portato alla stagnazione in assenza di un’organizzazione sistematica dei modi per assorbire i profitti in eccesso derivanti da tale tendenza.

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MR 2004/6 Le illusioni dell’impero di Abu-Manneh Bashir

Una serrata critica alla concezione di post-impero come lo definiscono Hardt e Negri nel loro libro Impero

(01 giugno 2004)

Bashir Abu-Manneh insegna inglese al Barnard College. Questo articolo è una versione ridotta della sua introduzione a un simposio da lui curato sull’Impero di Michael Hardt e Antonio Negri (Harvard University Press, 2000). Il simposio, “Empire and US Imperialism” è stato pubblicato per la prima volta in Interventions: International Journal of Postcolonial Studies 5, n. 2 (2003) e può essere trovato all’indirizzo www.tandf.co.uk/. È anche l’autore di “Palestine Revealed: The Liberation Cinema of Michel Khleifi”, in Dreams of a Nation: On Palestinian Cinema, a cura di Hamid Dabashi (di prossima pubblicazione). Le illusioni dell’Impero


Empire di Michael Hardt e Antonio Negri, pubblicato dalla Harvard University Press nel 2000ha preso d’assalto il mondo intellettuale. Dopo la fine dichiarata delle “grandi narrazioni” e dei progetti di emancipazione umana, ecco un libro che raccontava la più grande di tutte le storie, la totalizzazione del capitale, e anticipava il più magnifico di tutti i risultati rivoluzionari, il comunismo. I tabù postmoderni sono stati infranti, o almeno così sembrava. I profeti della moltitudine, Hardt e Negri, furono debitamente riconosciuti e celebrati dalla stampa liberale. Nel Regno Unito, il New Statesman ha pubblicato un’intervista a dal titolo “La sinistra dovrebbe amare la globalizzazione”. La globalizzazione, ha affermato, porta a una vera e propria “cittadinanza globale” democratica. Negli Stati Uniti, la recensore del New York Times Emily Eakin ha salutato Empire come la “prossima grande idea”, annunciando l’arrivo di una “teoria maestra” di cui c’è un disperato bisogno per superare il “profondo pessimismo”, la “banalità” (termine di Stanley Aronowitz), la “crisi” e il “vuoto” che hanno caratterizzato le discipline umanistiche nell’ultimo decennio. Empire (sia il libro che il concetto) è stata una buona notizia per tutti, inaugurando un periodo che, sebbene difficile da definire, è, nelle parole di Hardt, “in realtà un enorme miglioramento storico rispetto al sistema internazionale e all’imperialismo”. 1

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MR 2005/11 Impero e Moltitudine

Samir Amin conduce una serrata critica al libro Impero di Michael Hardt e Antonio Negri con ampio riferimento anche alla loro successiva opera Moltitudine

di Samir Amin

Samir Amin è direttore del Terzo Forum Mondiale di Dakar, in Senegal. I suoi libri più recenti includono The Liberal Virus: Permanent War and the Americanization of the World (Monthly Review, 2004) e Beyond US Hegemony di prossima pubblicazione per Zed Books.


Impero post-imperialista o nuova espansione dell’imperialismo?

Michael Hardt e Antonio Negri hanno scelto di chiamare “Impero” l’attuale sistema globale. * La scelta di questo termine ha lo scopo di distinguere le sue caratteristiche costitutive essenziali da quelle che definiscono l'”imperialismo”. L’imperialismo, in questa definizione, si riduce alla sua dimensione strettamente politica, cioè all’estensione del potere formale di uno Stato al di là dei suoi confini, confondendo così l’imperialismo con il colonialismo. Il colonialismo quindi non esiste più, né l’imperialismo. Questa vuota proposizione asseconda il comune discorso ideologico americano secondo il quale gli Stati Uniti, a differenza degli stati europei, non hanno mai aspirato a formare un impero coloniale a proprio vantaggio e quindi non avrebbero mai potuto essere “imperialisti” (e quindi non lo sono oggi più di ieri, come ci ricorda Bush). La tradizione materialista storica propone un’analisi molto diversa del mondo moderno, centrata sull’identificazione delle esigenze per l’accumulazione del capitale, in particolare dei suoi segmenti dominanti. Portata a livello globale, questa analisi permette quindi di scoprire i meccanismi che producono la polarizzazione della ricchezza e del potere e costruiscono l’economia politica dell’imperialismo.

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da Blogger

Globalizzazione delle disuguaglianze e delle ingiustizie / Michele Blanco

lantidiplomatico

Globalizzazione delle disuguaglianze e delle ingiustizie

di Michele Blanco*

Michele Blanco: Globalizzazione delle disuguaglianze e delle ingiustizie (sinistrainrete.info)

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Argomenti

Negli anni Ottanta del secolo scorso si descriveva il futuro prossimo della globalizzazione come di una età di crescita del benessere diffuso per tutta l’umanità, in tutti i paesi del mondo, ma «Oggi, invece, la crescente disuguaglianza non ha prodotto alcun conflitto di classe che minacci il sistema capitalistico, e ciò sebbene nelle economie avanzate questa si sia accompagnata con la deindustrializzazione e la schiavitù del debito.

La <globalizzazione> oggi è certamente e identificata come causa di ingiustizie e tensioni sociali. Nel mondo contemporaneo possiamo parlare di tanti tipi di disuguaglianze, ma certamente, da un punto di vista economico, si può parlare della disuguaglianza tra tenori di vita, distinguendo fondamentalmente tra due tipi di tali disuguaglianze, quella mondiale (tra le nazioni) e quella all’interno delle singole nazioni. Quando si dice ad esempio che il 10% più povero ha un tenore di vita pari a un decimo del 10% dei più ricchi ovviamente non ha lo stesso significato in India e in Svizzera. Conviene allora aggiungere una regola generale quando si valuta la disuguaglianza: stabilire una soglia assoluta di povertà e il valore più utilizzato oggi è quello di circa un euro al giorno pro capite.

Considerando la <disuguaglianza tra stati>, dopo un secolo circa di continuo aumento, la disuguaglianza tra stati da più di vent’anni a questa parte ha iniziato a diminuire, se nel 1989 il tenore di vita in Francia e in Germania era di venti volte superiore a quello della Cina o dell’India, oggi questo divario si è dimezzato. D’altra parte la disuguaglianza all’interno di molti paesi è invece andata aumentando. Una spiegazione della diminuzione della disuguaglianza tra stati negli ultimi 20 anni è dovuta alla innovazione tecnologica, al miglioramento dell’istruzione, alla formazione della manodopera, alle conoscenze tecniche e scientifiche. Ovviamente non tutti i paesi in via di sviluppo stanno conoscendo questo processo di crescita.

Per quanto riguarda l’altro tipo di disuguaglianza, quella all’interno dei singoli stati, questa è leggermente aumentata nel corso del 19° secolo, per poi ridursi notevolmente tra la prima guerra mondiale e il secondo dopoguerra, fino agli anni Settanta del secolo scorso. La realizzazione di grandi sistemi di redistribuzione e anche l’egualitarismo imposto dalle rivoluzioni russa e cinese sui propri territori ha portato a ridurre tale disuguaglianza nella maggior parte dei paesi sviluppati. Dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso la disuguaglianza interna agli stati occidentali è andata aumentando. Lo sviluppo dei paesi emergenti e, in misura minore, di quelli in via di sviluppo contribuisce a ridurre la disparità tra i tenori di vita degli abitanti dell’intero pianeta, ma l’aumento delle disuguaglianze interne tende, al contrario, ad aumentarla.

Dato che il problema delle disuguaglianze è abbastanza uniforme, è difficile non collegarlo a cause comuni, e in particolare alla globalizzazione. Essa ha favorito la formazione di un mercato finanziario globale in cui le tecnologie della comunicazione consentono il trasferimento in pochi secondi di enormi capitali da un continente all’altro. L’informazione non ha limiti, quindi la crisi della borsa di un paese si riflette, nel giro di pochi minuti sulle borse degli altri paesi.

Il termine “<villaggio globale>”, che ormai è di uso comune, esprime bene la velocità e la diffusione della comunicazione nel mondo, per cui le notizie e le conoscenze non sono più ristrette a un numero limitato di individui ma diffuse e condivise in tutto il globo. Il potere della conoscenza delle tecnologie: le innovazioni tecnologiche non sono più necessariamente nei beni e nei servizi scambiati, ma sono incorporate nelle menti degli individui. In altre parole, per trarre vantaggio, in termini tecnico-scientifici, dalla conoscenza, occorre aver superato una determinata soglia di sapere, in modo da poter dialogare con tale conoscenza. <Iperconcorrenza>: la <legge della competitività> portata alle estreme conseguenze. Perdita costante di rilevanza della società statale, dello stato o del sistema nazionale. Formazione di una cultura globale, fortemente ispirata al consumismo e diretta dalla comunicazione del marketing.

La globalizzazione si rivela come un fenomeno dalle caratteristiche   assolutamente ambivalenti: c’è chi la mitizza e ne mette in luce gli aspetti positivi, come le differenze nella ricchezza delle nazioni si siano alquanto livellate, portando il tenore di vita medio dei cittadini di <paesi emergenti> come il Brasile, la Cina e l’India ad avvicinarsi a quello di nordamericani ed europei, ma riguarda solo le classi medie di tali paesi, e chi la demonizza, pensandola causa di tanti mali.

Quello che sappiamo è che all’interno dei paesi occidentali ha invece certamente contribuito all’aumento delle disuguaglianze, infatti attraverso la globalizzazione viene diminuita la remunerazione relativa del lavoro scarsamente qualificato, che subisce la concorrenza diretta della manodopera a buon mercato delle economie emergenti, e vengono aumentati eccessivamente i profitti del capitale. Questo ci sembra evidente e innegabile. In molti inoltre ritengono che la globalizzazione sia un fenomeno che impoverisce ancora di più i già poveri e arricchisce ancora di più i ricchi.  Ma il fenomeno fondamentale che ha caratterizzato il periodo della globalizzazione neoliberista è il taglio delle tasse pagate da chi ha redditi più elevati. Infatti dal punto di vista della distribuzione, le riforme più importanti sono state le modifiche alla tassazione, in particolare i tagli alle imposte sul reddito.

La giustificazione fornita era che le aliquote marginali sui redditi più alti erano praticamente confiscatorie scoraggiavano l’imprenditorialità e gli investimenti, incentivando l’evasione e l’ottimizzazione. Aliquote fiscali più basse erano intese a ripristinare questi incentivi e per ridurre l’evasione fiscale, mantenendo al contempo le entrate fiscali ai livelli esistenti. L’aliquota marginale più elevata è scesa dal 70% al 40% negli Stati Uniti durante l’amministrazione Reagan. Nel Regno Unito, è precipitato dall’83% al 60% nel primo anno del governo Thatcher mentre, contemporaneamente l’imposta sul valore aggiunto è salita dal 6% al 15%, come è facile vedere una riforma profondamente regressiva.

Più tardi, molti altri paesi adotterebbero misure simili, anche se non del tutto di vasta portata: la Germania nel 1986-1990, poi dì nuovo nel 2003, Francia nel 1986 e nel 2002. Un esempio drammatico di questo è stata la “<riforma fiscale del secolo” della Svezia nel 1991>. In questo paese tradizionalmente egualitario con un sistema fiscale fortemente redistributivo, l’aliquota marginale più alta è scesa dal 70% al 45%, mentre è aumentata l’aliquota fiscale indiretta per compensare almeno parte delle entrate perse. Come nel Regno Unito, la disuguaglianza aumentata in modo sostanziale. Le variazioni delle aliquote marginali più elevate sono solo una piccola parte delle riforme fatte in nome della liberalizzazione economica. Una caratteristica importante di queste riforme pro globalizzazione, anche essa legata alla crescente mobilità del capitale nel contesto della globalizzazione è stata l’introduzione della distinzione tra <tassazione del reddito da capitale e risparmio> e la <tassazione del reddito da lavoro>. Nel corso del tempo si è evoluto un sistema duale in cui i reddito da risparmio erano tassati a tassi forfettari non progressivi che erano destinati a essere più o meno simili tra i paesi e comunque inferiori alle più elevate aliquote marginali sul reddito da lavoro. Poiché la quota dei redditi da capitale tende ad aumentare del reddito, le aliquote d’imposta medie per le fasce di reddito molto alte sono effettivamente diminuite.

Questo era vero in Francia, negli Stati Uniti e nella maggior parte dei paesi sviluppati. Allo stesso modo, le aliquote fiscali sugli utili societari sono state ridotte anche nella maggior parte delle economie sviluppate, con l’ovvio risultato che la tassazione diretta è diventata sempre più meno progressiva. Negli Stati Uniti, ad esempio, un’analisi che teneva conto delle imposte federali su reddito, profitti, eredità e costi del personale ha mostrato che l’aliquota effettiva dell’1% più ricco diminuiva di circa 15 punti percentuali tra il 1970 e il 2004, spesso diminuendo sotto quello pagato dalla borghesia.

All’altro estremo della scala, c’è stata una generale riduzione della redistribuzione alla fascia di popolazione a più basso reddito, con tagli siano avvenuti al welfare in molti paesi. Il welfare state nel Regno Unito ha subito gravi tagli sotto il governo Thatcher e la crisi economica in Svezia nei primi anni ’90 ha portato il paese a riformare il suo sistema di protezione sociale. In entrambi i casi, le riforme hanno portato a un aumento della disuguaglianza rispetto a un sistema di tassazione meno progressista. In altri paesi, la spesa sociale è stata allo stesso modo ridotta. Tutto questo è continuato nel mondo occidentale in modo costante fino ai nostri giorni.

Secondo alcuni economisti, si dice efficiente una situazione in cui non è possibile aumentare il benessere di un soggetto senza diminuire quello di un altro. Ma oggi di sicuro, sappiamo che troppa disuguaglianza ostacola il funzionamento dell’economia e in modo particolare la crescita economica, tanto decantata dagli economisti come la panacea di tutti i mali. Come quando in una nazione ci sono alunni dotati che però non hanno accesso all’istruzione superiore perché le loro famiglie non possono permetterselo, e viceversa vanno all’università ragazzi anche non particolarmente dotati, nati in ambienti privilegiati: questo ci sembra un chiaro esempio di economia non efficiente. Così, ad esempio, uno stato in cui c’è una violenza endemica, come in tantissime nazioni africane per esempio, non potrà avere un’economia efficiente perché la popolazione e lo stato saranno costretti a destinare gran parte del loro bilancio alla sicurezza.

François Bourguignon in La globalizzazione della disuguaglianza, Torino, Cortina, 2013, afferma che in questo contesto un dato positivo è la comparsa di una <coscienza mondiale> del legame che collega globalizzazione e disuguaglianze. La necessità attuale sarebbe sufficiente che i paesi sviluppati ed emergenti fossero in grado di controllare l’incremento delle disuguaglianze interne alle proprie economie per fermare la globalizzazione della disuguaglianza conservando al contempo i lati positivi della globalizzazione. La <lotta alle disuguaglianze> deve diventare impresa comune. Evitare la globalizzazione della disuguaglianza passa attraverso una globalizzazione della redistribuzione.

Infatti ci troviamo in un mondo globalizzato, in un villaggio globale, veniamo a conoscenza continuamente di ciò che avviene nella altre parti del pianeta e quindi non possiamo ignorarlo, dobbiamo sentircene responsabili. Tuttavia quello che noi veniamo a conoscere è selezionato non secondo nostre scelte, ma secondo ciò che taluni decidono di farci conoscere, questo accade sempre di più. Inoltre la <manipolazione dell’informazione> riesce a confezionare le notizie riuscendo a far passare un crimine efferato come un bombardamento sulle popolazioni civili in uno Stato sovrano e indipendente come una guerra umanitaria. Se a bombardare sono gli occidentali e i loro alleati diventa “un intervento umanitario” se sono altri è un “efferato crimine contro l’umanità”. E magari quando non fa più notizia, queste informazioni si spengono, anche se i problemi e le tragedie restano. Ciò significa che siamo, sì, globali, ma non siamo un “villaggio”: in un villaggio ci si guarda negli occhi, ci si conosce, si condividono le gioie e le pene di tutti. In definitiva, la globalizzazione deve essere per l’uomo. Si spera che lo sia per l’umanità intera ma deve iniziare dal considerare tutte le persone con gli stessi diritti e opportunità, senza distinzione alcuna, ma gli avvenimenti del mondo contemporaneo dimostrano chiaramente che esistono persone che hanno un valore e altre che ne hanno, purtroppo di meno. Basta guardare il valore dato alla vita e alle sofferenze di un bambino palestinese, o del Sud Sudan, confrontata con il valore dato alla vita e alle sofferenze dei bambini europei, che devono assolutamente essere la stessa cosa. Tutto queste ignobili differenze non sono tollerabili ne ammissibile in nessun caso, in nessuna parte del mondo.


*Questo articolo è stato pubblicato su https://www.eguaglianza.it/
Recensione di Chat GPT

L’articolo affronta la questione della globalizzazione e delle disuguaglianze sociali ed economiche, evidenziando come la visione ottimistica degli anni Ottanta sulla crescita del benessere globale non si sia realizzata. La crescente disuguaglianza, sia tra nazioni che all’interno di singoli paesi, è associata alla deindustrializzazione e al debito nelle economie avanzate. Si sottolinea che una nuova generazione di miliardari ha abbracciato la filantropia, mentre la società sembra affidarsi sempre più alle donazioni di chi è estremamente ricco, anziché al ruolo dello Stato nell’affrontare le ingiustizie sociali.

Il testo evidenzia che, nonostante la diminuzione della disuguaglianza tra le nazioni, quella all’interno degli stati è in aumento, in particolare nei paesi occidentali. La globalizzazione è identificata come una causa principale di questa disuguaglianza, poiché ha favorito la formazione di un mercato finanziario globale, la crescita della comunicazione globale e la creazione di una cultura globalizzata incentrata sul consumismo.

L’articolo sottolinea che la globalizzazione ha avuto impatti ambivalenti, contribuendo ad avvicinare i livelli di vita medio nei paesi emergenti a quelli delle nazioni sviluppate, ma anche generando crescenti disuguaglianze all’interno dei paesi occidentali. Si evidenziano le riforme fiscali orientate alla liberalizzazione economica, con tagli alle imposte sul reddito per i più ricchi, come una delle principali cause dell’aumento delle disuguaglianze interne.

Infine, l’autore sottolinea la necessità di una consapevolezza globale sulla connessione tra globalizzazione e disuguaglianze, invitando i paesi sviluppati ed emergenti a controllare la crescita delle disuguaglianze interne per fermare la globalizzazione delle disuguaglianze. Si conclude sottolineando che la globalizzazione dovrebbe essere orientata a considerare tutti gli individui con gli stessi diritti e opportunità, ma attualmente, il valore dato alla vita e alle sofferenze varia notevolmente in base al contesto geografico e culturale.

Abstract di Copilot

L’articolo di Michele Blanco, intitolato “Globalizzazione delle disuguaglianze e delle ingiustizie”, discute l’impatto della globalizzazione sulle disuguaglianze economiche e sociali. Ecco un riassunto dei punti chiave:

  • Negli anni ’80, la globalizzazione era vista come un mezzo per diffondere la prosperità in tutto il mondo. Tuttavia, oggi, l’aumento delle disuguaglianze non ha portato a conflitti di classe che minacciano il sistema capitalista, nonostante la deindustrializzazione e l’indebitamento nelle economie avanzate.
  • In questo contesto, una nuova generazione di miliardari si è rivolta alla filantropia, poiché lo Stato non può più affrontare le ingiustizie sociali e la povertà. Tuttavia, la filantropia serve solo a mantenere inalterato il sistema che ha generato le disuguaglianze.
  • La globalizzazione è ora vista come una causa di ingiustizie e tensioni sociali. Esistono due tipi principali di disuguaglianze economiche: quelle tra nazioni e quelle all’interno delle singole nazioni.
  • La disuguaglianza tra stati, dopo un secolo di aumento, ha iniziato a diminuire negli ultimi vent’anni, grazie all’innovazione tecnologica, al miglioramento dell’istruzione, alla formazione della manodopera, e alle conoscenze tecniche e scientifiche. Tuttavia, non tutti i paesi in via di sviluppo stanno sperimentando questa crescita.
  • D’altra parte, la disuguaglianza all’interno dei singoli stati è aumentata. Questo è dovuto in parte allo sviluppo dei paesi emergenti e, in misura minore, dei paesi in via di sviluppo, che contribuisce a ridurre la disparità tra i tenori di vita a livello globale, ma l’aumento delle disuguaglianze interne tende ad aumentarla.
  • Poiché il problema delle disuguaglianze è abbastanza uniforme, è difficile non collegarlo a cause comuni, in particolare alla globalizzazione. Quest’ultima ha favorito la formazione di un mercato finanziario globale, in cui le tecnologie della comunicazione consentono il trasferimento in pochi secondi di enormi capitali.

KW

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Il presente con l’occhio dello storico

Una riflessione di Eric Hobsbawm del 2009 che mantiene intatta la sua attualità. Lo storico inglese offre una lucida analisi della situazione economica e politica globale all’indomani della crisi del 2008. L’autore invita a superare le ideologie del passato e a costruire un nuovo modello economico basato sull’economia mista, l’azione pubblica e la giustizia sociale.

Il socialismo ha fallito, il capitalismo è in bancarotta. Cosa succederà adesso?

Punti essenziali:

  • Il socialismo e il capitalismo, entrambi nella loro forma pura, sono falliti.
  • Il futuro appartiene alle economie miste che combinano il pubblico e il privato.
  • La crisi economica globale richiede un grande spostamento dal libero mercato all’azione pubblica.
  • La priorità della politica progressista deve essere il benessere sociale, non la massimizzazione del profitto.
  • La lotta contro la crisi ambientale richiede un impegno pubblico significativo.
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